La mia esperienza all’ Autogestito- Maria Rosaria d’Oronzo
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Innanzitutto voglio ringraziare gli organizzatori per avermi invitata qui oggi affianco a persone che sono così importanti per la lotta alla psichiatria. Giorgio Antonucci ha dimostrato, nei lunghi anni del suo lavoro, che la psichiatria non ha nessun significato se non un significato dispregiativo nei riguardi della persona. È dannosa come il razzismo. Il dottore ci ha fornito di un metodo nell’affrontare le contraddizioni degli uomini insieme alla pratica dei diritti delle persone socialmente deboli. Il dottor Cestari che con la sua attività, si occupa del Comitato dei Cittadini per i Diritti dell’Uomo in Italia, ha dato seguito a denunce pubbliche di maltrattamenti, e come medico ci ha fornito di suggerimenti importanti per la disintossicazione da psicofarmaci. Alessio Coppola ha avuto l’intuizione di costituire il telefono viola (oggi sono aperti in 13 città italiane) il Telefono non si occupa solo di denuncia
per i tanti abusi psichiatrici, ma si qualifica come spazio di ascolto per persone che non hanno più questo diritto. Ho studiato psicologia, a Padova e dovevo fare una ricerca per la laurea.
Mi interessava approfondire la mia conoscenza dell’applicazione della legge 180. Mi ero prefissata di dimostrare la necessità di una maggiore civiltà nel trattamento degli internati della psichiatria, e per documentare questa necessità decisi di fare una ricerca “dall’interno” in uno dei reparti in cui la 180 aveva trovato piena applicazione.
Era il 1992 e avevo molto materiale bibliografico. Prima di arrivare all’Autogestito, ho visitato alcuni reparti e CIM di diverse città . La realtà di questi reparti e centri psichiatrici era disumana, come il lager dove le persone non hanno più il diritto di essere persone, nonostante fossero servizi a cui veniva riconosciuta la buona applicazione delle leggi vigenti e nonostante la presentazione esemplare fatta dai diversi autori. Erano manicomi fatti e finiti dove i pazienti finiscono per trascorrere il resto della loro esistenza a fare disegni e ceramiche colorate. L’istituzione psichiatrica diviene il mondo dell’internato, in cui non troviamo la centralità dei diritti delle persone: uguale la struttura assistenziale-carceraria, stesse le “gentilezze” riservate agli ospiti. I pazienti che incontravo erano rovinati dall’immobilità e dalle medicine, portavano contaminazione di fantasmi altrui, di gesti altrui. Ma soprattutto avevano strutturato, giustamente, la loro sopravivenza nello sfruttare la vischiosità della struttura (malsana, paternalistica, violenta). La stessa aria malsana ascoltata nei discorsi degli infermieri. Nella mia esperienza ho notato come sia uno sport diffuso cambiare etichetta invece che cambiare le strutture. Qualcosa è cambiato, naturalmente, la cultura è cambiata, non è più così facile come prima della 180 considerare una persona da internare, ci si pensa di più, mentre prima non ci si pensava affatto. È stato messo un dubbio nella cultura però, tolto iniziative eccezionali, in generale, non è cambiato niente. All’estero negli Stati Uniti, Germania, Inghilterra ci sono iniziative culturali, dibattiti, ma le cliniche psichiatriche, i manicomi sono precisi a come erano una volta. (Riflettevo che se questa è la realtà, chi lavora nei servizi, forse, non condivide la filosofia che ha ispirato questa legge, o forse, questa realtà era l’effetto di carenze intrinseche della legge stessa?) Oggi ho certezza che il più grave errore della 180 è quello di aver rafforzato il ruolo della psichiatria, con l’aver trasferito il luogo in cui avviene il ricovero dall’ospedale psichiatrico a quello civile, con l’assurdo di aver trasformato i manicomi in manicomi più piccoli e con il discorso assurdo che negando il manicomio si possa umanizzare l’uomo. Il superamento del manicomio non ha significato la restituzione della libertà, come dignità, di chi era rinchiuso. Agli ex-ricoverati non si è aperta nessuna prospettiva. Il cosiddetto superamento del manicomio è più simile ad un’operazione di trasferimento e sgombero dei locali che ad una trasformazione culturale. Il fatto stesso che ci si avvicini ad una persona cercando di comunicare con lei, senza considerarla come qualcuno con cui non ci si può relazionare, è già un cambiamento culturale per ciascuno di noi, in qualsiasi posizione si trovi. In questo senso l’Autogestito era un non-reparto dell’ospedale psichiatrico di Imola. Un reparto spogliato dalle fattezze della psichiatria. Non c’erano diagnosi, le contraddizioni degli uomini non venivano confuse con le categorie mediche. Le porte erano aperte, i muri erano coperti dalle opere di un pittore autodidatta, ospite del reparto, ricoverato dal 50, autodidatta, un uomo che era rifiutato dalla famiglia e non aveva nessun luogo dove andare fuori dal reparto, di lui parlerò ancora. Antonucci scrive in uno dei suoi libri: “Queste sono persone come noi e devono vivere come viviamo noi; bisogna fare il possibile perché abbiano un ambiente che assomigli al nostro, anzi un ambiente ricco di cultura”. Il lavoro di Antonucci ha dato ragione a questa tesi che queste persone, una volta trattate come noi, sarebbero tornate a essere persone come noi. Libertà non significa necessariamente dipingere i muri della comunità o del reparto, come desiderano gli educatori, oppure arredare e progettare la vita di chi è rinchiuso in base alla nostra. All’Autogestito, gli infermieri che incontravo, non mi seguivano, certamente erano curiosi ma non sembrava che mi volessero sorvegliare. Appena entrata nel reparto dell’Autogestito sono stata circondata dagli ospiti che erano incuriositi e loquaci, mi facevano domande e mi porgevano la mano in segno di saluto. I loro occhi erano vivaci. Ho incontrato il responsabile, il dott. Antonucci, quasi subito, dopo essere entrata, ma non ho potuto riconoscerlo, non aveva il camice e tutti si muovevano liberamente per i corridoi e le stanze del reparto. Il dottore mi invitò a visitare il reparto, per conto mio, per prima. Ho già detto che i locali del reparto erano luminosi e dipinti, comprese le porte e gli spazi delle pareti libere da finestre e mobilio. Così mi misi a girovagare. Ho conosciuto l’uomo che aveva dipinto muri e porte, mi disse che aveva fatto diverse mostre a Roma, Milano a Imola. Mi disse che la sera andava a Bologna, da solo, per divertirsi. Parlai al dottore del mio progetto di ricerca, egli si dimostrò disponibile a patto che io mi fossi dimostrata rispettosa nei confronti dei residenti. Sono rimasta in quel reparto ben oltre il tempo della ricerca. Ricordo l’incontro con Valerio, un uomo di 33 anni,diventato cieco e muto, internato da bambino perché tardava a parlare. Anche lui poteva uscire quando voleva, anche se essendo cieco, doveva essere accompagnato, non aveva nessun custode, ma alcuni si occupavano di Valerio. Se urtava o sbatteva contro un qualche tavolo veniva, ad esempio, aiutato da chi gli era più vicino, ospiti o infermieri. Valerio aveva degli amici. Antonucci lo ricorda nei suoi scritti come l’ultimo degli slegati, nel 1983. Nella cartella clinica di cui il dottore lo aveva liberato, si succedono le segnalazioni delle lesioni che Valerio si è procurato. Nella sua cartella era definito “Idiota cerebropatico, completamente incapace di stabilire il minimo contatto”. Questa diagnosi ribadiva la necessità della contenzione, cioè del legare. Il dott. Antonucci, rispetto alle vicende di Valerio, aveva elaborato una alternativa a qualsiasi iniziativa di carattere psichiatrico. Nessun essere vivente è incapace di mettersi in contatto con gli altri, ma spesso sono gli altri che non sono in grado di stabilire un contatto o di riconoscergli un modo di comunicare (è questo il nodo razzista della psichiatria) perciò viene negata a persone come Valerio, la capacità relazionale che è caratteristica propria degli esseri viventi. Tra l’altro agli esami clinici prescritti dal dottore non risultavano alterazioni del cervello. Mi è capitato di vedere persone legate in altre istituzioni e persino in una scuola elementare statale, di Bologna, pochi mesi fa. In questa scuola c’è un bambino di 7 anni condannato dalla prescrizione del neuropsichiatria, che consiglia la contenzione, a passare 30 ore alla settimana chiuso insieme all’educatrice di turno, in una stanza, stretta e lunga più simile ad un corridoio. Questo per dire che quando si parla di orrori psichiatrici non si parla di cose che appartengono al passato. Ora, per tornare al discorso dell’Autogestito, voglio dire che qui esistevano problematiche simili agli spazi delle convivenze. L’obiettivo del lavoro di Antonucci era quello di dare una casa al di fuori delle mura manicomiali, ma questa per molti è rimasta solo una possibilità, per altri una realtà. Nel corso degli anni di internamento si creano delle coppie di fatto. All’Autogestito, grazie all’interessamento del dott. Antonucci che ha coinvolto le strutture comunali, alcune delle coppie hanno potuto lasciare il reparto e vivere fuori, altri hanno portato avanti la loro convivenza in reparto. Dopo 40 anni di ricovero coatto, ci sono persone terrorizzate dall’idea di vivere da soli, anche perché necessitano di cure infermieristiche, conseguenza degli effetti della segregazione, quindi bisognava difendere la loro libertà dall’interno del reparto. Difendere la libertà non significa progettare la vita degli altri in base alla nostra, quindi orari, docce, spazio musica o ginnastica. C’era nell’Autogestito una signora che, per motivi suoi, per le sue convenzioni si lavava molto. Faceva la doccia una decina di volte al giorno. In una stanza vicina abitava un uomo. Entrambi erano rimasti nel reparto perché non avevano trovato una casa fuori. Qui sono liberi, come gli altri ospiti: lei fa le docce; lui, che è innamorato degli animali, tiene cani e gatti. Dovendo vivere insieme, senza aver scelto la convivenza, a volte nascevano conflitti tra loro: l’uomo degli animali, si lamentava di questa signora e diceva al dottore: “È matta, non fa che lavarsi”. La donna che si lavava continuamente, quando era arrabbiata con lui, diceva: “È matto, sta sempre con i cani”. Mi appariva chiaro, fin d’allora, che, questi conflitti sono generati non solo da persone che litigano tra loro, ma anche dal fatto che sono persone che continuano a considerarsi, reciprocamente, con quei pregiudizi che l’istituzione aveva messo addosso loro fin dall’origine. Continuando a discutere con Antonucci, anche alla luce di questi fatti, mi appariva più chiaro il discorso psichiatrico: l’unica sua funzione è sempre stata quella repressiva e segregativa. Contribuire all’abolizione della segregazione è d’obbligo per chi è in contatto con la sofferenza… Qualunque problema uno abbia oppure anche problemi che non abbia, come ad esempio i bambini che sono vivaci non hanno problemi ma sono classificati con la sindrome della disattenzione e per questo curati con il farmaco. Non solo tutti i problemi che abbiamo vengono trasformati in un difetto del cervello, vedi malattie mentali, ma anche quelli che non abbiamo. È inutile inventarsi delle malattie per poi far finta di curarle, drogando le persone. Gli inventori dei primi psicofarmaci hanno detto, loro stessi, che avevano sbagliato, non servivano a niente, andavano eliminati come del resto Cerletti, che ha inventato l’elettroshock disse che non andava fatto. Lo psicofarmaco è una sostanza psicotropa, cioè che ha una particolare affinità per le cellule nervose, sostanza che intossica il cervello, questo non serve certo a farlo funzionare meglio, poi intossica tutto l’organismo. Infatti le persone che prendono grandi quantità di psicofarmaci hanno un decadimento fisico. Avvelenarsi non serve a risolvere nessun problema. Breggin e Cohen hanno documentato gli effetti di psicofarmaci ed elettroshock sul cervello e sono di debilitazione e danneggiamento, in quanto producono un funzionamento intellettuale ridotto e funzionamento motorio abnorme, oltre ad una riduzione della speranza di vita. A questo proposito voglio ricordare la storia di una donna, madre di tre figli di cui l’ultima nata era portatrice di patologie neurologiche. Il marito aveva un’altra relazione e non aveva un lavoro. La donna spesso prendeva dei farmaci per poter dormire la notte, visto la gran mole di lavoro che ogni giorno doveva affrontare. Una mattina non si svegliò e dormì per due giorni. I medici parlarono di tentato suicidio e la rinchiusero in manicomio. I suoi figli furono tutti affidati in istituti diversi. Quando ho incontrato la signora erano trascorsi 18 anni dal suo ricovero e discuteva insieme al dottore sul significato della sua vita e della civiltà, asseriva che in manicomio non c’erano malati ma persone povere e sfortunate. Lei continuava a prendere i “farmaci per dormire” perché col buio della notte riaffiorava il ricordo dei figli, il tradimento del marito e della vita stessa. Durante l’intervista mi disse: “Qui dentro si entra sani, non fanno le analisi anche se lo chiamano ospedale. Niente. Appena arrivi ti trattano già da manicomio. Ti portano qui o con il medico di base, oppure sono i parenti, o la polizia, carabinieri, i vigili del fuoco. Noi siamo una società di laureati, specializzati ecc… ma di civiltà, quando ci occuperemo della civiltà? Gli psichiatri non sono medici ma poliziotti del pensiero diverso”. Quest’ultima riflessione mi sorprese in quanto riguardava l’idea elaborata da Freud nel classico “Disagio della civiltà”: la propensione della società a difendersi con severe misure precauzionali da chi fosse in contraddizione con i costumi. Possiamo aspettarci di ottenere cambiamenti nella nostra civiltà , tali che soddisfino meglio i nostri bisogni e sfuggano a questa critica. Freud afferma esplicitamente che nella ricerca psicologica aveva smesso di fare il medico e aveva cominciato a fare il biografo cioè a occuparsi di storie, perché la vita psicologica di una persona, che comporti sofferenza o che sia gioiosa, è legata alla storia della persona. Freud cominciò a fare lo psicoanalista e a occuparsi di persone con disagi dipendenti dall’insoddisfazione di non fare la vita che desideravano. Il dott. Antonucci dandomi la possibilità di fare la mia ricerca, mi dava la possibilità di conoscere situazioni come questa e cioè che, se non si è capiti, si può venire ricoverati con la forza, o anche con la persuasione. Si può essere ricoverati soltanto perché gli altri non capiscono cosa sta succedendo. Tutte le nostre esperienze possono essere psichiatrizzate così come anche tutte le esperienze del nostro corpo possono essere medicalizzate. Il disagio vuol dire sofferenza, la sofferenza è fisiologica e gli uomini la vivono in ogni loro esperienza come vivono la gioia, tutte le esperienze hanno un aspetto terribile che ci tormenta. Il problema è che ci sono persone che sono indifese. Sono gli psichiatri che promettono, falsamente, di dare dei rimedi che sono al di fuori della vita concreta della persona. Si può ritrovare l’entusiasmo di vivere senza prendere delle medicine e intossicare il proprio cervello con la chimica degli psichiatri. Per la psichiatria, malattia mentale non significa che una persona soffre, ma soltanto che è una persona considerata non responsabile dei propri atti, quindi deve essere tutelata. Antonucci ha restituito a quelle persone i diritti previsti dall’O.N.U. per ogni cittadino del mondo: il diritto di non essere rinchiuso; il diritto di non essere trascurato nei rapporti umani; i diritti culturali. Dopo aver vissuto molti giorni, mesi, nel reparto di Imola, dopo aver vissuto insieme a persone sopravvissute a una lunga esperienza di segregazione e limitazione grave di tutte le loro reali capacità di vivere, pensare, comunicare, l’obiettivo della mia ricerca non era solo la realtà tragica e oppressiva dei manicomi, ma prendeva nuovo vigore l’idea di una possibilità di vita interiore per i degenti dei manicomi. I sopravvissuti di Imola, i pazienti del dott. Antonucci, dimostravano in continuazione di essere a tutti gli effetti uomini e donne psicologicamente e strutturalmente integri e creativi, solo provati da una lunga storia di incomprensione delle loro qualità e di arbitraria limitazione dei loro diritti e della loro libertà. In fondo quello che mi ero prefissata di dimostrare era la necessità di una maggiore civiltà nel trattamento dei malati psichiatrici, ma, ora, dopo l’esperienza dell’Autogestito era chiara la necessità di considerare le persone con rispetto per il loro pensiero e con la possibilità di appassionarsi, di emozionarsi. Queste riflessioni portano a una critica del pensiero psichiatrico e a far proprio la pratica di Antonucci che, genericamente, possiamo definire come approccio non-psichiatrico alla sofferenza psichica. Io credo che proprio le famiglie dovrebbero pestare i piedi di fronte ai soprusi fatti ai danni dei loro cari. Sono le associazioni delle famiglie stesse che dovrebbero battersi per capire in che misura il problema esiste. Come si sa e si vede se un operatore si interroga su fatti come questi può sembrare inquisitorio pur non volendo esserlo, altra sfumatura avrebbe l’intervento di voi familiari responsabili. In questi anni ha preso vigore in Europa, il Movimento degli utenti, ex utenti e sopravvissuti alla psichiatria. È un movimento che ha origine in Inghilterra ed è in network europeo. Nessuna associazione italiana è presente come partner. I pazienti da Antonucci erano abituati a viaggiare molto in molte città, e io stessa ho partecipato con loro in alcuni di questi viaggi.
Maria Rosaria d’ Oronzo
Pubblicato il: 3 July, 2008
Categoria: Testi