Archivio della Categoria: ‘Testi’

Storie di elettrochoc – Eugen Galasso






Finalmente, nel telefilm “La bambina che non voleva cantare” ispirato all’autobiografia di Nada Malanima, cantante ancor attivissima anche ricercatrice etnomusicale, riemerge la questione della violenza psichiatrica, perpetrata sulla madre, “curata” all’epoca (fine anni 1960 -inizio anni 1970) con massicce sedute di terapie elettroconvulsvivante, senza praticamente la possibilità di opporsi.  Che il film sia passato in prima serata su RAI 1, canale notoriamente conservatore e legato a ogni forma di tradizione, è un segnale, pur se piccolo, di una certa autonomia, che si crea (o viene creato, quasi in “autonomia”) da qualche autore-autrice, che cerca di muoversi contro e comunque al di fuori di un “pensiero unico” che sembra tornare anche in campo medico e psichiatrico (come ricordava sempre Giorgio Antonucci, la psichiatria non ha seri fondamenti medico-scientifici) e’ in qualche modo una “pseudoscienza”. 
C’è da augurarsi che si parta magari anche da questo film per ritrovare la possibilità di un serio e articolato dibattito in merito.                           Eugen Galasso

Pubblicato il 6 June, 2024
Categoria: Testi

La psichiatria nel contesto culturale attuale – Eugen Galasso






Contrariamente alle indicazioni, importanti quanto non considerate o meglio snobbate, di grandi autori quali Thomas Szasz e Giorgio Antonucci, la psichiatria non solo viene sempre considerata come “vera scienza”, per quanto il suo statuto epistemologico sia debole, oscillante tra neurofisiologia e terapia anche coattiva, tra medicina e “altro”, tanto che oggi non c’e  quasi un caso giudiziario nel quale per il presunto colpevole non si invochi una “perizia psichiatrica”, tanti che persino il caso di Ilaria Salis, attivista politica detenuta in Ungheria, potrebbe profilarsi tale eventualità.  Più in generale, contrariamente a tutto il movimento anti-e non-psichiatrico, da tempo si assiste a un “revival” della psichiatria; di cui vorrei fornire un esempio, piccolo ma rivelatore: di recente assistevo a una conferenza-spettacolo, che avrebbe introdotto un ciclo più ampio di incontri dal titolo (mogol-battistiaino) “Tu chiamale se vuoi emozioni”.. Ebbene il relatore, psichiatra e membro della Società italiana di psichiatria, a parte l’insistenza sulla “disforia” e sulle emozioni negative, ha parlato delle componenti “elettriche” delle emozioni e di come esse agiscono nella dinamica cerebrale,il che, anche senza volere insistere troppo, richiama fatalmente la terapia elettroconvulsivante, detta comunemente elettroshock. Honnyi soy qui mal y pense, (sia svergognato chi pensa male), per citare la famosa frase pronunciata dal re inglese Edoardo III quando alla sua amante era caduta una giarrettiera, ma non credo di essermi discostato troppo dal vero ventilando tale interpretazione della conferenza cui accennavo, che è solo un esempio tra i tanti di questa “ri-psichiatrizzazione” del contesto sociale e culturale attuale, non solo in Italia.  Eugen Galasso

Sanità di mente e patriarcato – Eugen Galasso





Per Filippo Turetta, che ha assassinato la ex-fidanzata Giulia Cecchettin,l’unica possibilità di difesa sembra essere proprio l’infermità o meglio semi-infemità mentale, che gli consentirebbe di non scontare il possibile ergastolo. Se l’azione degli avvocati fosse incentrata su ciò, a parte la questione politica, che darebbe una sponda all’estrema destra che punta sull'”ergastolo senza sconti” (se ci fosse, ossia se fosse prevista dal codice penale vigente,  proporrebbe la pena di morte), verrebbe riproposto lo schema della “malattia mentale”, da tempo invalidato ma sempre riproposto per non affrontare seriamente la questione di atti certamente criminali ma che sfuggono alla “normale razionalità”, al common sense ancora dominante. Con la possibile definizione di Turetta (come di altre persone) quale “malato di mente”, a parte la sconfitta della volontà di combattere seriamente contro patriarcato e discriminazione della donna, verrebbero invalidate nella pratica giuridica concezioni importanti sull’alterità (Szasz e Antonucci, tra gli altri), a favore della riproposizione di mentalità grette e conformiste, che in definitiva avallerebbero la visione tuttora dominate, che a parole sembra orientata verso la parità di genere, mentre in realtà la sconfessa nella pratica.    Eugen Galasso

Pubblicato il 14 December, 2023
Categoria: Notizie, Testi

La follia nell’arte – Eugen Galasso




La “follia” (ossia l’essere, il pensare, il comportarsi diversamente dalla maggioranza delle persone, qualcuno dice dalla loro “mediocrita” )trova espressione nell’arte “figurativa” (esempi massimi: Caravaggio, Van Gogh), nella musica (Schumann, Le’o Ferre’, ma gli esempi sono tanti), nel teatro (Pirandello, Beckett,  le innumerevoli versioni teatrali del romanzo “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Ken Kesey) per non dire nella letteratura (almeno “L’elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam va citato, ma è inutile far troppi elenchi) e nel cinema (torna il titolo citato prima, “Qualcuno volo’…” ma anche qui molti altri esempi). Tutto dipende da come si vede la cosa, dall’angolo visuale scelto, ossia se si intende il comportamento o anche il testo “strano” in modo giocoso e creativo  e comunque “accogliente” (la prospettiva di Thomas Szasz e di Giorgio Antonucci, ma anche dei situazionisti, come del Sessantotto che gridava “L’imagination au pouvoir”) o invece come qualcosa di anomalo e da controllare, in modo, insomma,  “poliziesco, quella è l’angolo visuale di tutta la psichiatria, compreso Ronald Laing, che come rilevava anche Michel Foucault, nelle conversazioni americane con gli studenti e con il prof. Simeon Wade degli anni 1970 (in “Foucault in California”,trad.it., recentissima,  Milasno , Blackie edizioni, 2023), dopo essere stato con Cooper l’alfiere dell’antipsichiatria, sarebbe tornato a posizioni quasi “reazionarie”, comunque da psichiatria “classica”, normalizzante. Per acquisire il punto di vista giusto, quello appunto delineato come creativo e accogliente, “giocoso”, basta rovesciare la prospettiva tradizionale, spesso “cieca” o almeno “monoculare”. Per fare ciò, via paraocchi conclamati, pregiudizi, sedimenti culturali nocivi… Eugen Galasso

Pubblicato il 10 May, 2023
Categoria: Testi

Su l’intervento di Giorgio Antonnucci versus Thomas Szasz nel 1980 – Eugen Galasso






L’intervento di cui in oggetto si trova nel sito d’archivio del prof Giorgio Antonucci www.giorgioantonucci.org


nel taccuinio https://giorgioantonucci.org/taccuini/diari-novembre-dicembre-1980/

Giorgio Antonucci, negatore della psichiatria, che giustamente considerava (ma io vorrei averlo qui, Giorgio, vivo e vegeto e comunque ci rimane, ben vivo, il suo pensiero, con la sua opera) in questo testo del 15 novembre del  1980, che è il suo intervento a un convegno promosso dal CCDU,  svoltosi nell’Aula Magna dell’Università’ di Roma, alla presenza di Thomas Szasz, riporta casi concreti, con cui si confrontava, da “psichiatra” presso l'”Ospedale Psichiatrico “L’Osservanza” di Imola, ma anche, due o tre volte al mese presso un Ospedale Civile, reparto psichiatrico, dove faceva il medico di guardia. E’ un crimine, afferma, sottoporre una persona, chiunque sia, a un trattamento che non accetta. Premessa giusta quanto indispensabile per capire e apprezzare il suo pensiero, che è quello di un vero umanista e che vale, peraltro, anche per la medica “non psichiatrica”, dato che è illegittimo sottoporre a un intervento chirurgico pericoloso (ma anche non pericoloso) chi rifiuti tale tipo di terapia e gli esempi si sprecherebbero. Ma Giorgio, opportunamente, fa esempi concreti: di un trentenne che il padre voleva sottoporre al TSO perché era “girovago” invece che “stanziale”, di una contadina, segnata alla gravidanza recente che non poteva più (fisicamente, si badi) sottoporsi al duro lavoro nei campi, di una ventiduenne, eroinomane, buttata fuori di casa dalla madre e in quel tempo nelle mani di chi gestisce il traffco della prostituzione.  Contro leggi truffa che prevedono comunque più che la chiusura del manicomi, la loro sostituzione con istituti simili, solo cambiati di nome, con l’arma terribile del TSO (Trattamento sanitario obbligatorio) Antonucci si è sempre battuto coerentemente, anche prima della pubblicazione delle celebri opere di Szasz. Con una lucidià e una coerenza più che semplicemente “encomiabili”, il dottor Antonucci rimane, anche proprio in virtu’ della sua chiarezza, della sua capacità di esprimersi con esempi concreti, ossia “induttivamente”, un  grande faro nella lotta contro l’abuso che il potere compie sempre quando, sulla base di indicazioni superficiali quanto assurde colpisce una persona in base al “nulla” di indicazioni colpevoli, mal intenzionate o semplicemente idiote.  Eugen Galasso

Pubblicato il 18 April, 2023
Categoria: Notizie, Testi

L’Amministrazione di Sostegno: diverse interpretazioni

Il testo si commenta da solo, ma certo, si tratta di un attacco assolutamente in linea con le volonta ‘repressive’ del nuovo esecutivo, tra l’altro con un attacco senza alcuna remora, chiaramente forte di protezione politica assicurata a priori, nel senso dell'”ordine” ad ogni costo, naturalmente tenendo conto del fatto che le persone colpite anche da interventi come questo sono “socialmente svantaggiate”, anzi diciamo pure la parola expressis verbis, proletari e proletarie. Il progetto di chi scrive testi simili e ‘ispirato’ a “loi et ordre”, “ley y orden”, “law and order”, “Ordnung und Gesetz”, senza minimamente tener conto delle persone come tali.  Espressioni come “apodittico”, “sognatori” etc. sono un chiaro  segno rivelatore e retaggio culturale della psichiatria repressiva e di chi, invece sogna il ritorno tout court ai “manicomi criminali” senza se e senza ma, invero mai aboliti, come sappiamo, veramente ma solo “addolciti”.   Eugen Galasso

 

ps: riferimento al post di P.Cendon dal titolo “L’ART. 12 DELLA CONVENZIONE ONU 2006 SULLA DISABILITÀ C’ENTRA FINO A UN CERTO PUNTO CON L’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO – PAOLO CENDON”

Pubblicato il 16 November, 2022
Categoria: Testi

Intervista Giorgio Antonucci – “Radio Logica” Imola

www.giorgioantonucci.org

Intervista a Giorgio Antonucci – 1979

Trasmessa a Imola da: Radio Logica
Dalle 13 alle 13,30
del 2 Agosto 1979

D.: È uscita recentemente una pubblicazione della Idea Books dal titolo Dossier Imola e legge 180 con articoli di Alberto Brunetti, Giuseppe Favati, Dacia Maraini, Gianni Tadolini, documenti della CGIL, CISL, UIL ospedalieri, e degli amministratori dell’Ospedale Psichiatrico “Santa Maria della Scaletta”, meglio noto come “Osservanza” della nostra città.
Questo libro vuole illustrare le prime conseguenze pratiche dell’applicazione della legge 180 sull’assistenza psichiatrica, emanata nel maggio dello scorso anno, e alcune esperienze vissute nei padiglioni difficili dell’Ospedale Psichiatrico “Osservanza”.
Abbiamo con noi in studio un diretto interessato il Dottor Giorgio Antonucci, al quale partendo dal contenuto del libro, vorremmo porre alcune domande.
Innanzitutto chi è, Lei dottor Antonucci, e che tipo di attività ha svolto e svolge all’Osservanza?

R.: Io lavoro all’Osservanza dal 1973. Sono venuto chiamato da Cotti che, in quel tempo, aveva intenzione di cambiare completamente la vita di un’istituzione del tutto chiusa, e siccome avevamo lavorato insieme negli anni precedenti – avevamo fatto un’esperienza abbastanza importante negli anni 68 a Cividale del Friuli – Cotti pensò che io avrei potuto aiutarlo a modificare la realtà dell’Istituto Psichiatrico Osservanza.

D.: Cerchiamo di spiegare in sintesi e in maniera comprensibile ai nostri ascoltatori che cos’è la legge 180, quali limiti Lei ritiene che abbia e come è stata applicata ad Imola finora.

R.: La legge 180 è il risultato di un diverso equilibrio politico, il risultato di una lotta che la sinistra ha tenuto negli ultimi anni in conseguenza dell’attività di singoli operatori avanzati in Italia, per vedere di modificare la realtà tragica delle istituzioni manicomiali.
Naturalmente – questo è mio pensare – essendo un compromesso è una legge che ha degli aspetti estremamente positivi se usate in senso progressista, al contrario può essere usata in modo tale che non cambia assolutamente nulla per quanto riguarda la realtà delle persone che hanno la disgrazia di capitare sotto le mani degli psichiatri.
La legge prevede, come si è detto tante volte, il superamento delle istituzioni psichiatriche, e per questo sono stati fermati i ricoveri nelle vecchie istituzioni; e sono stati sostituiti da ricoveri in reparti di Ospedali Civili, o in reparti, come Villa dei Fiori dell’Osservanza, che è stato, dal punto di vista burocratico, considerato come un reparto dell’Ospedale Civile e dove arrivano i nuovi ricoveri.
Secondo me la legge ha dei limiti grossi, e questi limiti sono il fatto che la legge considera ancora il problema psichiatrico come un problema sanitario mentre, a mio parere, questo problema è esclusivamente un problema di conflitti sociali e di realtà politica, e per essere modificato, oltre che dell’attività di singoli operatori che rifiutano l’ideologia psichiatria e le vecchie idee, da un’evoluzione e un cambiamento della società civile che faccia sì che non si richieda più che vengano messe da parte le persone che non possono essere più utilizzate secondo le leggi della nostra società che sono leggi di sfruttamento e di conseguenza anche leggi di esclusione di una parte delle persone del consorzio civile.

D.: Ecco: cosa intende Lei quando dice che la malattia mentale è un prodotto sociale: magari può farci qualche esempio che Lei ha riscontrato nella sua attività?

R.: Dunque: il fatto è questo: primo, va esaminato il discorso da un punto di vista storico. La psichiatria è nata rigorosamente in corrispondenza del formarsi della moderna civiltà industriale. I primi istituti, che erano considerati ospizi dove si mettevano, sana o malate che fossero, tutte le persone che non rientrano nel processo di produzione, sono nati con il formarsi della civiltà borghese capitalistica. Dal punto di vista storico si possono vedere i primi ospizi che si formano a Firenze o nelle Fiandre, col formarsi della nuova realtà economica-sociale cioè col fermarsi della borghesia.
Cercherò di essere più preciso: via via che col fermarsi della nuova società civile è sempre più necessario avere a disposizione grandi quantità di mano d’opera, che devono essere concentrate in certe zone e perciò dobbiamo emigrare da altre, col grande processo dell’emigrazione, che attraversa tutta la civiltà borghese delle origini fino a ora, una gran parte di queste persone che sono costrette a cambiare cultura, a cambiare modo di vivere, modo di persone e modo di lavorare; da un certo punto di vista non sono utilizzabili perché la mano d’opera viene utilizzata soltanto in parte da quelli che sono costretti a emigrare; da un altro punto di vista perché non riescono a adattarsi perché sono costretti a cambiare, come dicevo, completamente cultura, si formano dei getti che all’inizio, come per esempio nella Francia del cinquecento e del seicento, sono considerati chiaramente come ghetti per i poveri o per le persone inutili o per le persone che non servono; poi piano piano con l’estendersi della civiltà borghese, con l’Illuminismo, e col formarsi delle grandi città industriali moderne, si riforma parallelamente una ideologia psichiatrica; che, prendendo atto dalle persone che sono concentrate in questi ghetti, comincia a considerarle persone diverse dalle altre, diverse dagli altri da un punto di vista chimico, da un punto di vista psicologico e chimico: psicologico perché si dice che hanno delle caratteristiche diverse dalle altre persone; chimico perché si pensa che queste caratteristiche siano legate a una malattia.
D’altro canto nessuno psichiatra è riuscito mai a definire questa malattia in termini scientifici: si è sempre detto che queste persone sono differenti, che probabilmente hanno un difetto al cervello, e che questo difetto li fa ragionare in modo diverso e li fa essere perciò pericolosi alla società.
Nessuno però ha stabilito questo difetto, nessuno ha mai stabilito questa malattia, e quando appunto siamo arrivati noi, negli ultimi anni, per noi intendo dire quelli che hanno contrastato la psichiatria, abbiamo cominciato a renderci conto che queste persone non son diverse dalle altre, se non per condizioni sociali, ed è la condizione sociale e la situazione sociale in cui si trovano che le porta ad essere costrette con la forza ad essere concentrate in questi ghetti che sono i manicomi e le istituzioni psichiatriche.
Cercherò di essere più preciso e mi riferisco a singoli casi.
Ad esempio una donna di cui io mi sono occupato nel reparto, ritenuto dagli psichiatri il più difficile ed il più pericoloso dell’Istituto Osservanza, era ricoverata da ventisei anni, ritenuta diversi dagli altri, perché della sua condizione originale di contadina di famiglia povera, era stata estromessa perché per motivi di costume, o i altri termini si può dire per motivi di morale, o per motivi moralistici, si riteneva che il suo comportamento di donna non corrispondesse alle leggi ai regolamenti e alle usanze della sua comunità. Quando io l’ho incontrata, dopo averla liberata dai suoi mezzi di contenzione, io l’ho trovata legata a un letto, quando io l’ho incontrata mi sono messo a discutere con lei per chiederle come mai lei era stata ricoverata.
Lei mi rispondeva: io sono stata ricoverata perché sono malata.
Io le chiedevo: ma che malattia pensa di avere lei?
E lei mi rispondeva: ma io sono schizofrenica.
Allora io le dissi: ma come fa a dire questo?
E lei mi disse: me l’hanno detto i medici.
Allora io aggiunsi che lei doveva abbandonare quello che le avevano detto i medici e dirmi esattamente quello che pensava di sé stessa.
E lei mi disse – di questo caso ne ho parlato anche nell’intervista con Dacia Maraini – mi disse: io sono stata ricoverata perché malata e sono malata perché, quando sono stata ricoverata, mi piacevano troppo gli uomini.
Questo discorso, letterale, di una persona che io ho dimesso da diversi anni e che, essendoci una serie di circostanze positive cioè qualcuno che la voleva fuori, è potuta ritornare via.
Queste dichiarazioni dimostrano come questa donna fosse convinta di essere inferiore agli altri per un diritto invece che lei aveva e che rivendicava in un ambiente, che non permetteva a questa donna di avere i diritti che gli altri ritengono di avere.
Cioè molte donne, tutte le persone ricoverate, derivano da famiglie disagiate e sono immediatamente ricoverate per motivi di costume.
C’è un conflitto tra i loro diritti individuali e il contesto sociale in cui si trovano, e le convenzioni del contesto sociale in cui si trovano. Non c’è altro: questa donna è potuta ritornare, nonostante i tanti anni di reclusione, nell’ambiente sociale e avere la forza di ricominciare a vivere, nonostante le difficoltà e i pregiudizi a cui è andata incontro, perché ha un cervello e una psicologia come il nostro.
Le considerazioni psichiatriche che queste persone siano diverse, che d’altra parte derivano da una cultura che è la stessa cultura che ha formato il nazismo, Wundt ha scritto una “Storia psicologica dei popoli” che è una stori razzista; Kraepelin, uno dei teorici fondamentali della psichiatria, era un allievo di Wundt – queste teorie derivano dalla stessa cultura che ha formato il fascismo, e sono teorie di discriminazione sociale: si pensa che certi gruppi di persone siano diversi dagli altri e si cerca di eliminarli. Quando si comincia a ristabilire che sono persone come oi si può cominciare a capovolgere il discorso e a cercare di liberarle.

D.: Nel corso del libro Lei è più volte definito un antipsichiatra, che cosa intende dire l’autore e come intende Lei questa definizione?

R.: Io intendo con precisione dire questo: che la mia attività non è assolutamente un’attività che ha nulla a che vedere con la medicina e con quella branca, che si ritiene far parte della medicina, che è la psichiatria. Cioè: io rifiuto completamente tutti i concetti della psichiatria e mi pongo, all’interno dell’istituzione, oppure ho lavorato anche fuori dall’istituzione, come una persona che svolge un’attività scientifica, che parte dal rovesciamento completo delle posizioni tradizionali.
Io non sono neanche d’accordo con molte posizioni, definite antipsichiatriche, che modificano in parte le visioni tradizionali della psichiatria. Io rifiuto completamente ogni contenuto della psichiatria, perché ritengo in senso marxista, proprio riferendomi alle anali di Marx e di Engels, che la psichiatria sia una sovrastruttura ideologica che nasconde una serie di contradizioni sociali.

D.: Come ha lavorato nei padiglioni difficili dell’Osservanza? In pratica che cosa ha fatto?

R.: Ecco, mi spiego.
Quando arrivai nel ’73, chiamato da Cotti, discutendo con lui sui programmi che avremmo dovuto in pratica mettere in atto, io seppi che il Reparto 14 donne dell’Osservanza era considerato dagli psichiatri il reparto delle persone “più pericolose” e “più (sicuramente) irrecuperabili” – le parole che sto usando sono parole della psichiatria -.
Allora io chiesi a Cotti di prendere questo reparto perché io ritenevo che se avessi dimostrato che le persone del reparto 14 – le più pericolose, le più irrecuperabili – erano persone che potevano ricominciare a vivere, tanto più questo discorso avrebbe dovuto esser fatto negli altri reparti. Perché se quelle erano le persone da cui c’era meno d’aspettarsi, quando queste persone fossero uscite e alcune dimesse, bisognava che gli altri si rendessero conto che si doveva cominciare a lavorare diversamente: cosa che del resto non è avvenuta. Perché, nonostante che il Reparto 14, che era chiuso come una sepoltura – chiuso significa che le persone erano legate nei letti, legate mani e piedi, tra l’altro molte completamente nude, del resto non si vede a cosa sarebbero serviti i vestiti per stare legati notte e giorno nei letti; poi le stanze dove erano legate queste persone erano chiuse da una massiccia porta di grosso legno tra l’altro con serratura una centrale una in alto una in basso; queste porte davano in un corridoio che era chiuso con un’altra porta a vetri; questa porta a vetri dava in un ingresso che era chiuso con un’altra porta in legno; le finestre erano con le inferriate; se si usciva da tutte queste barriere si entrava in u cortile chiuso da un alto muro. Credo che fosse praticamente impossibile anche immaginarsi di andar via, comunque bisognerebbe passare sette o otto barriere.
Queste persone sono state liberate prima dai mezzi di contenzione poi sono state aperte le porte, sono stati buttati giù i muri, sono state tolte le inferriate, sono stati tolti gli psicofarmaci o neuroplegici, cioè paralizzanti delle funzioni del sistema nervoso centrale – anche questo è un sistema di contenzione – le persone hanno cominciato a uscire: ora, come ognuno può vedere, sono tutte fuori; alcune, quando voglio, vanno in città; sono tutte vestite con abiti propri, cosa che ho dovuto fare personalmente, e qui si entra in un discorso che si riprenderà, perché l’amministrazione non mi ha dato nessun aiuto; alcune sono state dimesse; comunque son tutte persone con cui ognuno può incontrarsi quando vuole venendo all’Osservanza, mentre prima era praticamente impossibile. Sono passate da uno stadio di segregazione incredibile e direi mistico perché – sì è vero che loro le consideravano pericolose, ma il pericolo doveva essere maggiore di quello dei leoni allo zoo, visto che i leoni non hanno sette o otto barriere e poi non sono legati.
Queste persone non sono affatto pericolose perché quando è stata tolta loro la violenza d’addosso e stato tolto anche loro il motivo di difendersi da questa violenza.
Il problema è questo: la persona che è aggredita si difende e questo è un fatto logico e naturale. Questo difendersi da pare delle persone aggredite dagli psichiatri è chiamata pericolosità sociale.

D.: Quali rapporti ha avuto ed ha con gli altri medici e con gli infermieri?

R.: Dunque. Dagli altri medici all’inizio ho avuto, appunto, incredulità, e su questo li capisco, perché gli altri medici non pensavano che io sarei stato capace di aprire i reparti ritenuti da loro più pericolosi, oppure pensavano che io li avrei aperti ma sarebbero successi dei guai: invece devo dire che non è successo niente. Credo che nei reparti che io ho aperto successivamente il 14, il 10 e il 17, non sono successi incidenti: per me questo è perfettamente logico, ma per loro era impassibile. Cioè loro dicevano: o non riesce ad aprirli, o se li apre gli succederanno tali guai che sarà costretto a richiederli. Invece non è successo niente.
Mi ricordo che uno dei medici miei colleghi, che ora tra l’altro è andato via, mi disse, proprio venendo da me, quando avevo appena cominciato il lavoro: – io sono convinto che tu non ci riesci, però se tu ci riuscirai, te e darò atto -. Ecco io ci sono riuscito ma me ne deve ancora dare atto! Perché non mi ha detto niente. Mi ha detto che è d’accordo col mio impegno di lavoro, ma non mi ha detto se questa nuova realtà dimostra o no che la psichiatra è sbagliata.
Gli altri medici – questo è un punto essenziale del discorso, e questa non è una critica personale a loro, è una critica scientifica di una nuova cultura contro una vecchia cultura – gli altri medici continuano a operare secondo criteri tradizionali, tutti quanti all’Osservanza.
E continuano a essere convinti che questi sono i criteri giusti: per cui siamo dal punto di vista scientifico in conflitto e il confronto tra l’uno e l’altro lavoro è sotto gli occhi di tutti. Questo lo dico perché è importante che si sappia che tutto quello che si fa può essere veduto, almeno quello che faccio io può essere veduto da tutti, vengono persone da tutte le parti d’Italia e anche dall’estero e possono vedere tutto quanto. Mentre non sempre è permesso vedere quello che fanno gli altri.

D.: E con gli infermieri?

R.: Con gli infermieri c’è stato un lavoro molto difficile all’inizio perché gli infermieri sotto una cultura differente, sotto la cultura della segregazione e della psichiatria, avevano paura di portare avanti il lavoro così come io lo concepivo; però via via che si son resi conto della differenza io credo di poter dire che loro si sono trovati bene e hanno capito che il miglioramento di condizione non riguardava soltanto i degenti ma riguardava anche loro, perché effettivamente stare lì a fare la guardia a persone oppresse e perciò perché oppresse pericolose è angoscioso; poi è anche angoscioso avere da dipendere continuamente da una gerarchia minacciosa; mentre i miei infermieri, che giorno per giorno vivono con i degenti e con me, discutono alla pari le questioni che ci riguardano e non hanno più né la paura della gerarchia né la paura dei degenti, perché i degenti sono cambiati diventando veramente, tolti dall’oppressione, persone come noi.

D.: Altri collaboratori che l’aiutano nello svolgimento del suo lavoro?

R.: Io devo dire che sostanzialmente la collaborazione l’ho dovuta agli infermieri, tenendo conto del fatto che ho potuto portare avanti questo lavoro perché Cotti non mi a ostacolato. Perciò questi sono i due punti di collegamento.
Poi ci sono tutti quelli che vengono dall’esterno, e quando è importante, i collaboratori che vengono da fuori: gli artisti che sono venuti a dipingere i muri e a vivere parte del loro tempo insieme ai degenti; altri che sono venuti di fuori a dare il loro contributo; sono stati dati concerti; è stata fatta l’altro anno una mostra di arte contemporanea; e devo dire di pittori e scultori fiorentini contemporanei e di altri pittori, alcuni anche di notevole valore, alcuni anche molto conosciuti, c’era anche un disegno di Carlo Levi: lo dico per dire che nessun amministratore è venuto a vedere, nessuno si è interessato: io posso aver avuto l’interessamento dell’amministrazione raramente, e l’ultima volta l’ho avuto perché un amministratore è venuto da me a chiedermi se ero al corrente di movimento di armi, cioè in pratica sospettandomi di essere in collegamento con le brigate rosse, ma non ha dato neanche un’occhiata al reparto 17 dove le persone, che prima erano chiuse come in una tomba, ora vivono liberamente in attesa di potere essere dimesse, e la dimissione è in rapporto con delle prospettive: per vivere fuori bisogna avere una casa, un lavoro, dei parenti, degli amici, qualcuno. Se no non si può uscire.

D.: I degenti che lavorano all’interno dell’Ospedale in che condizioni operano?

R.: I degenti che lavorano all’interno delle istituzioni in vari lavori – la cucina, il guardaroba, la lavanderia, poi i lavori collegati con la produzione di diversi articoli – non sono considerati secondo i diritti che devono avere tutti i lavoratori: cioè sono considerati senza i loro diritti sindacali.
Quando io tornai da Trieste, dopo aver seguito quello che fu detto e scritto dell’esperienza di Basaglia, cominciai pubblicamente questo problema agli amministratori e ai compagni, e chiesi che fosse provveduto il più presto possibile a restituire anche questi diritti ai degenti. Uno degli scopi della nuova legge è quello di restituire i diritti civili e politici ai ricoverati. I degenti che lavorano e che producono, e che lavorano anche duramente, devono essere trattati come tutti gli altri lavoratori. Tuttora questa questione non è ancora stata risolta.

D.: All’Ospedale Psichiatrico vengono inviati gli ex detenuti del Manicomio Giudiziario. Come sono stati trattati a Imola e come sono trattati di solito?

R.: Generalmente nelle istituzioni psichiatriche quelli che vengono dai manicomi giudiziari, per sospetti che si possono intuire facilmente, vengono controllati, tenuti chiusi, mentre i 6 ex detenuti di manicomio giudiziari che sono venuti all’Osservanza”, sono stati affidati da Cotti al reparto 17, che è uno dei reparti che io sto portando avanti.
Queste persone sono state libere fino dal primo giorno che sono arrivate.
Noi abbiamo discusso con loro i problemi che c’erano da risolvere ancora, abbiamo avuto contatti con la magistratura, e questi 6 ex detenuti dei manicomi giudiziari sono stati dimessi.
In questo momento c’è soltanto un ragazzo di diciotto anni, che, un anno fa circa, era stato destinato al manicomio giudiziario di Aversa. Però per una protesta della popolazione di Faenza e per intervento diretto della Presidenza della Repubblica, questo ragazzo è stato portato via dal manicomio giudiziario di Aversa ed è stato affidato al mio reparto. C’è ancora. Fin dall’inizio io ho provveduto a far sì che questo ragazzo potesse stare il più possibile nel suo ambiente e in pratica ho provveduto a mandarlo a casa. Il magistrato, saputo di questa mia iniziativa, mi ha chiamato, mi ha interrogato, io gli ho spiegato quali erano i motivi di questa mia iniziativa, e allora la magistratura ha concesso a questo ragazzo la semilibertà confermando la linea che avevo seguito. E dirò di più che al processo d’appello è stato deciso di rivedere tutto nell’eventualità di restituire a questo ragazzo la possibilità di vivere tra gli altri: anche perché i reati per cui questo ragazzo era stato estromesso dalla società civile e sbattuto in un manicomio giudiziario, che significava la fine, sono reati molto discutibili e poi di poco rilievo: si tratta appunto di reati che sono stati montati anche perché il giovane, che ha avuto la sfortuna a cinque anni di cadere, di battere la fronte, e di contrarre una sindrome epilettica, quando ha cominciato a avvicinare e frequentare gli altri, avendo diverse e frequenti crisi convulsive, è stato considerato diversamente.
Le cose che lui faceva venivano considerate diversamente perché epilettico il ragazzo. Allora si è formato dintorno a lui un ambiente ostile che ha portato da parte sua anche delle reazioni che poi sono stati questi reati.
Naturalmente andava rotto questo rapporto, e io mi sono preoccupato di romperlo, sia orientando la vita del giovane in modo differente, restituendogli la libertà di cui ha diritto, sia influendo con questo sui giudizi della magistratura, sia operando a Faenza con i genitori, con i vicini, e con quelli che si sono interessati di lui, perché si formasse un ambiente che possa permettergli di ritornare a casa e fare la sua vita come gli altri.

D.: Grazie.


Sbobinatura: Noris Orlandi Antonucci

Pubblicato il 13 September, 2021
Categoria: Testi, Testimonianze

“Consuelo” di Geroge Sand: romanzo di un visionario – Eugen Galasso




Nel suo “Consuelo”, romanzo storico, ma non solo, e roman fleuve (romanzo-fiume, 900 pagine) del 1843, la scrittrice che possiamo definire lato sensu “romantica” e  femminista George Sand (1804-1876) parla anche e direi soprattutto di telepatia, visioni, preveggenza e sogni premonitori, dove il personaggio maschile centrale, Albert, è un “visionario”, che molti nella sua stessa famiglia considerano un “alienato”, ma persino al momento della sua morte, a parte una straordinaria ricostruzione storico-culturale è capace di mettere in scacco il medico “voltairiano” che lo “cura”, che non capisce nulla della sua personalità, della sua psiche, di come egli veda e “anteveda” avvenimenti e di come la sua capacità intuitiva superi di gran lunga le capacità attribuite di solito a chi è “nella norma”. All’epoca della scrittrice francese, era viva solo la “frenologia” (espressamente citata, mentre non lo è lo scienziato Gall, tedesco, di una famiglia di origini italiane, Gallo) di Franz Gall, morto nel 1828, innovativa rispetto alla psicologia precedente che parlava-molto “metafisicamente” di “fluidi”, studiava, con le poche  conoscenze allora a disposizione, della struttura cranica, di disposizioni innate relative a tale struttura cranica, ossia dipendenti da esse. Se vogliamo,la Sand si muove soprattutto contro il razionalismo illuministico, entro cui si muoveva il citato Gall ma è indubbio che essa rivaluti funzioni e capacità che, dopo la psicanalisi,  oggi anche le neuroscienze studiano e considerano come esistenti, anche se certo non nel modo proposto ormai quasi due secoli fa dalla Sand. Pur se in modo molto “ampio” e quasi metaforicamente, possiamo considerare questa come altre opere dell’autrice anticipatrici di quanto Giorgio Antonucci e con modalità differenti Thomas Szasz hanno teorizzato scientificamente, ossia la totale negazione del “mito psichiatrico”.  Eugen Galasso

Pubblicato il 1 September, 2021
Categoria: Testi

Presentazione dell’OMBUSDSMAN PERSONAL – Maria D’Oronzo



Il convegno organizzato dall’Associazione Radicale “Diritti alla follia” – GIUDICI TUTELARI E AMMINISTRAZIONI DI SOSTEGNO: prassi da superare e percorsi formativi da seguire – è stata l’occasione per fare la nostra presentazione della figura professionale e del ruolo del Ombusdsman Personale svedese.


https://www.youtube.com/watch?v=a41_-zJmOZw&t=480s


Al minuto 2:20:00
https://dirittiallafollia.it/2021/06/05/giudici-tutelari-e-amministrazione-di-sostegno-prassi-da-superare-e-percorsi-formativi-da-seguire/






Mi presento. Sono Maria D’Oronzo, psicologa; mi sono formata con il dottor Giorgio Antonucci, sua collaboratrice per venticinque anni.
Questa sera parlerò dell’Ombusdsman Personale che, per semplificazione, chiamerò Personal Supporter: figura professionale dell’esperienza svedese.

L’Associazione Radicale “Diritti alla follia”, di cui faccio parte, ha tra i suoi obiettivi la salvaguardia di spazi di autodeterminazione e scelte delle persone nella procedura dell’amministratore di sostegno: così come è previsto nelle Osservazioni delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo, e le Raccomandazioni di:
– Abrogare tutte le leggi che permettono a tutori e amministratori di sostegno di sostituirsi alle persone interessate
– Promuovere le emanazioni di provvedimenti per il sostegno al processo decisionale autonomo
– La formazione di professionisti in campo giuridico, sanitario e sociale per apportare tale cambiamento di prospettiva.

Nell’ottica delle Raccomandazioni ONU, l’associazione “Diritti alla follia” ha preso contatti con una ONG Svedese, OP-Skane, che ha sviluppato un sistema di Supporto Personale in linea con le osservazioni delle Nazioni Unite.
L’iniziativa dell’OP-Skane nasce nel 1995 dalla collaborazione tra l’Associazione di Utenti e l’Associazione di Familiari pazienti psichiatrici, in una provincia della Svezia: Skane.
Il Personal Supporter è un professionista formato dall’ONG OP-Skane, con finanziamenti statali (2/3) e comunali (1/3).
Visti gli aspetti positivi sia sotto il profilo di recupero personale, meno ricoveri e meno farmaci, sia per gli aspetti economici, il Parlamento Svedese ha deciso di allargare a tutta la Svezia il nuovo sistema e le Nazioni Unite raccomandano il sistema OP-Skane a livello mondiale.

Il Personal Supporter è un professionista con qualifica magistrale oppure giuridica oppure psicologica o altro.
La novità del Personal Supporter è che lavora esclusivamente su commissione del paziente psichiatrico, suo cliente: non ha alleanza né con la psichiatria, né con i servizi sociali né con le Autorità né con i familiari del paziente.
La posizione del Personal Supporter è indipendente rispetto alla cura e assistenza e quindi non può essere equiparato ai servizi sociali o ad altre forme di Autorità.
La mission del Personal Supporter è di migliorare la qualità di vita e le condizioni di vita dei clienti psichiatrici. Il Personal Supporter “fa solo ciò che il suo cliente vuole che lui faccia”.

Spesso occorre molto tempo prima che il cliente sappia oppure voglia dire il tipo di aiuto che desidera, questo vuol dire che il Personal Supporter deve impegnarsi per lungo tempo con i suoi clienti per sviluppare una condizione necessaria per una relazione di fiducia che permetta di affrontare questioni sempre più essenziali ed esistenziali.
L’esatto opposto di quanto usualmente avviene nei servizi territoriali dove il paziente viene assistito da professionisti che si propongono come suoi portavoce.
Il Personal Supporter contribuisce al recupero della persona dove per recupero si intende:

“opportunità di vivere la vita che vuoi in presenza o assenza di malattia.”

La collaborazione si basa sui desideri della persona e include:
– Supporto
– Collaborazione
– Risoluzione dei problemi
– Monitoraggio dei diritti
– Sostegno
– Orientamento alla cura

Il Personal Supporter ha anche il ruolo di segnalare le carenze del sistema assistenziale: carenze nell’accessibilità delle cure oppure pratiche discriminatorie che possono portare all’esclusione. Ad esempio trattamenti che limitano il potere dell’individuo e che portano ad una mancanza di speranza o ancora ad una mancanza di coordinamento tra gli attori responsabili della cura della persona.

Il lavoro del Personal Supporter mira a:
– Migliorare l’opportunità di influenzare le condizioni di vita del cliente e la sua partecipazione nella società
– Di ottenere l’opportunità di una vita più indipendente per il cliente
– Dare supporto agli utenti alloggiati i hoausing, o gruppi appartamento o unità abitative.
– Avere l’influenza sulla formazione del personale e sulla gestione delle residenze assistenziali e aumentare la comprensione delle prospettive degli utenti.

Il lavoro del Personal Supporter è un lavoro singolare nel significato che si è “soli nel lavoro” con u forte sentimento di solitudine: si incontrano molte situazioni differenti e individui che possono significare rischi sia fisici che emotivi; per questo è previsto un gruppo di preparazione alla crisi con un rappresentante sempre disponibile per i dipendenti da contattare in caso di incidenti o eventi seri.

Il Personal Supporter si deve mantenere su regole o linee-guida etiche:

– Incontrare l’altro i un rapporto alla pari
– Empatia, impegno, rispetto
– Beneficiare la persona
– Rispetto per l’autodeterminazione
– Migliorare il potere personale del cliente
– Ha il diritto di rifiutare la missione
– Non ha u ufficio perché “l’ufficio è potere”; non ha un orario d’ufficio ma è preparato a lavorare a qualsiasi ora 24/24 perché i problemi del suo cliente non si concentrano nelle ore dell’ufficio.
Il Personal Supporter lavora secondo uno schema flessibile in relazione ai bisogni e desideri dei suoi clienti che sono particolarmente diffidenti e abbandonati a sé stessi perché difficili da raggiungere e da aiutare.

Il Personal Supporter lavora secondo il modello relazionale, vuol dire uscire e incontrare i clienti nei loro luoghi: una piazza, per strada oppure dietro una porta chiusa.

I passi di contatto con i clienti sono:
– Realizzazione del contatto
– Sviluppo della comunicazione
– Costruzione di una relazione
– Mantenere un dialogo aperto
– Sviluppare progetti e/o impegni.

Per ottenere un Personal Supporter è necessario stabilire una relazione e semplicemente volere un Personal Supporter.

Il cliente deve avere il diritto all’anonimato di fronte alle autorità. Il Personal Supporter potrebbe essere pagato dalla comunità per il servizio che offre ma nel contratto di lavoro è chiaramente scritto che il Personal Supporter può rifiutarsi di dare i nomi delle persone e i luoghi dove le incontra.
Il personal Supporter dovrebbe supportare il cliente in tutte le questioni e non solo su quelle pratiche-concrete. Le prime priorità dei clienti solitamente non sono pratiche di tipo occupazionali-abitative piuttosto esistenziali. Ad esempio: perché la mia vita è diventata la vita di un paziente psichiatrico?
Il Personal Supporter deve essere in grado di spendere molto tempo a parlare con il suo cliente anche di queste questioni.
Il Personal Supporter deve essere ben preparato per tutelare i diritti del cliente di fronte alle autorità e anche nei tribunali.
Il cliente deve avere la massima trasparenza del lavoro che si sta eseguendo.
Il Personal Supporter ha il dovere alla privacy
Il Personal Supporter ha l’obbligo di denuncia nei casi di minori
Il Personal Supporter ha l’obbligo di eseguire l’incarico in conformità con la legge
Il Personal Supporter non può usare sul lavoro alcolici o psicofarmaci
Il Personal Supporter deve usare una grande cautela quando si tratta di ricevere regali o regalie dai clienti o loro familiari.

Il Consiglio Nazionale della Salute della Svezia ha limitato il tempo di supporto a due anni, ma questo non è una regola solo un punto di riferimento per non creare dipendenza in quanto c’è il rischio di diventare il risolutore dei problemi piuttosto di aiutare la persona a risolvere da sé stesso i problemi.

Il Personal Supporter è un supporto per le persone con disabilità mentale che hanno bisogno di aiuto per gestire la loro condizione di vita ed essere in grado di essere maggiormente coinvolti nella società.

A questo riguardo voglio ricordare, per onestà intellettuale ma anche per le similitudini le lezioni del dottor Giorgio Antonucci che dal 1960 ha sempre lavorato nella prospettiva di costruire rapporti alla pari, dare autonomia, poter personale e un ruolo nella società ai pazienti psichiatrici dentro e fuori i manicomi italiani.

Pubblicato il 13 June, 2021
Categoria: Notizie, Testi, Video

DSA, diagnosi e pregiudizio psichiatrico – Eugen Galasso

“Invero la questione dei DSA (disturbi specifici dell’apprendimento)




è controversa, sia a livello diagnostico (più che semplicemente “iperattività”, come segnalato nel sito, si tratta/tratterebbe di dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia) sia anche di rilevamento: 1,2% per cento come nei rilevamenti del MIUR (popolazione scolastica) o invece 3-5%, come da indagini epidemiologiche? Questione aperta, ma anche dal punto di vista eziologico si pone la questione: disturbi di origine neurobiologica (come generalmente ammesso) o implicati dalla socializzazione? Questione aperta, come anche confermato dalla questione del rapporto/differenza con i BES (Bisogni educativi sociali), che includono/includerebbero disabilità non incluse nei DSA (oltre ai DSA stessi), come autismo, disprassia, autismo, anche l’area dello svantaggio, di tipo socioeconomico, linguistico, culturale, da malattie, traumi, dipendenze, insomma dato da problemi di vario tipo, ma più che riconducibili alla socializzazione (cfr.sopra). Da non sottovalutare, però, quanto detto e scritto da uno specialista come Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva che ridimensiona fortemente il problema (qui si parla sempre dell’età scolare, sia detto per inciso) riconducendolo al poco tempo che le madri e i padri, in genere educatrici ed educatori, impegnate/i nel lavoro o altrimenti, dedicano a bambini e ragazzi. Da un punto di vista di un utile prontuario pedagogico-descrittivo si veda di Annapaola Capuano, Franca Storace, Luciana Ventriglia “BES e DSA”, Firenze, libriliberi, 2013, ma anche in versione online nel sito www.libriliberi.com, ma a livello più generale, rimane l’intervento massiccio della psichiatria che, riuscito solo parzialmente per i bambini, ora vuole estendere le sue larghe maglie e le sue grinfie/ tenaglie sugli adulti, appunto”psichiatrizzandone” (a suon di psicofarmaci e forse non solo…) circa due milioni (le stime in questi casi sono sempre approssimative/approssimate, in genere per difetto…). Come anche per l’epilessia e i disturbi comunque classificati come “epilettogeni”, psichiatria e psichiatri non rinunciano al proprio potere, cercando di estenderlo sempre in modo ovviamente molto improprio. Il problema è vedere se la “società civile”, spesso ancora irretita dal pregiudizio psichiatrico (a parte dichiarazioni orali spontanee da parte di persone “insospettabili”, sentivo di recente l’iterazione del pregiudizio a proposito del pluriomicida e poi suicida svizzero delle sue due figlie – un caso che aveva fatto scalpore qualche anno fa – da parte di Conchita De Gregorio, giornalista e scrittricen”di sinistra” che si riterrebbe “immune”, che affermava perentoriamente “non era un pazzo”) riuscirà a superare i pregiudizi indotti, delegittimando una pratica non medica e per nulla utile come la psichiatria, i suoi esponenti, il colossale business economico rappresentato dalle case farmaceutiche…    Eugen Galasso 

Luglio 2015

Pubblicato il 16 February, 2021
Categoria: Testi

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo