Arte e follia: Antonucci – D’Oronzo – Guerra Lisi – Angioli – Giuseppe Tradiì

INTERVENTO AL “CONVEGNO NAZIONALE della GLOBALITA’ DEI LINGUAGGI”, Riccione 2002 (pubblicato in Arte e Follia, Armando 2002)

Giorgio Antonucci, Giovanni Angioli, Maria Rosaria D’Oronzo, Stefania Guerra Lisi

Il pittore Tradiì e il Reparto Autogestito di Imola

 

Giorgio Antonucci

 

Qui tra noi c’è Giuseppe Tradiì.

Tradiì è un uomo che, per sua sfortuna e per una serie di circostanze negative e in una società come la nostra, doveva vivere fuori e invece è stato incastrato in manicomio. Ora, le persone possono avere o non avere il talento della pittura, indipendentemente dal fatto di essere fuori o dentro del manicomio; c’è chi ha talento per la pittura, chi per la musica; c’è chi ne ha molto ed è grande, chi ne ha poco ed è meno grande.

Però la pittura di Tradiì non c’entra nulla con il Reparto Autogestito dell’ospedale psichiatrico di Imola, dove vive da tanti anni; c’entra soltanto per il fatto che da noi, all’autogestito, ogni persona, fintanto che restava lì perché non aveva sbocchi immediati (è difficile tornar fuori dal manicomio, come tutti sapete), però quelli che stavan lì, anzitutto erano liberi. Per esempio, Tradiì la sera andava a Bologna, al night, quando voleva; oppure andava al mare, oppure al cinema, come gli altri; siamo stati all’estero, ecc.

Insomma le persone erano residenti, libere, sceglievano loro che fare, e Tradiì ha scelto di pitturare, mentre altri hanno scelto altre cose; c’è chi aveva la passione degli animali e teneva i cani e i gatti; c’è chi aveva la passione della cucina e si dedicava a questa …Ogni persona, nei limiti di quella tragica situazione che è il manicomio, anche quello di ora non solo quello del passato, una persona per riprendere a vivere come gli altri ha una serie di difficoltà, di ostacoli; in più poi gli altri non lo considerano più come prima, perché è stato classificato ed è diventato sospetto.

Ora, Tradiì è un pittore come tanti; purtroppo avrebbe dovuto vivere fuori, invece ha vissuto all’Autogestito; ha potuto pitturare a un certo punto, forse l’avrebbe fatto prima fuori. E’ qui per essere giudicato come qualunque altro come pittore. Non nei termini stupidi di ‘genio’ o di ‘follia’; perché né la parola ‘genio’ né la parola ‘follia’ hanno un significato preciso, son parole vaghe, che non dicono nulla, che servono a parlare continuamente di cose che non esistono, sulla pelle degli altri. Penso a quei teorici della follia che hanno parlato di Leopardi, di Van Gogh, sa partire da Lombroso a continuare con Jaspers a finire ci contemporanei, per esempio al francese Philippe Brenot il quale ha scritto un libro che in italiano s’intitola “Geni da legare”. Per i geni ci vuole la camicia di forza, no?

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Per finire, volevo dire una cosa. Leonardo era, oltre che – come sappiamo – dire intelligente, forse anche furbo; perché ha scritto di tutto, di scienza, sulla pittura, novelle, proverbi, ha messo insieme giochi, ma non ha mai parlato di sé. Io la ritengo una grande cosa, questa. Non ha mai detto nulla di se stesso, tolto una volta, indirettamente, quando dice “Volerà il grande uccello e riempirà il mondo di sua gran fama” – perché sperava di volare. “Omo sanza lettere” lo diceva ironicamente contro gli intellettuali del suo tempo. Poi una volta sola scrisse che da bambino gli parve che un nibbio lo colpisse con la coda sulla bocca. Questa parola ‘nibbio’ è stata tradotta in tedesco con ‘avvoltoio’; e Freud ha letto ‘avvoltoio’, e ha fatto tutta mitologia dell’avvoltoio parlando di Leonardo, quando invece si trattava del nibbio. Non verrò sul fatto se Leonardo era eterosessuale o omosessuale, perché non me ne importa nulla, sono affari suoi, appunto; e infatti lui era riservato. E poi questo non c’entra nulla con la sua arte, né con la sua grande capacità di ricerca.

E passo la parola a Giovanni Angioli, ottimo coordinatore – senza di lui non si sarebbe fatto gran che – del Reparto Autogestito.

Giovanni Angioli

Sono stato coordinatore del Reparto Autogestito. Non so se sono stato ottimo; comunque ci ho creduto. Penso alla probabilità che la legge 180 venga cambiata…Io ho lavorato in ospedale psichiatrico circa 25 anni, di cui 10 li considero in manicomio, ma sempre lottando perché il manicomio venisse superato, e gli altri 15 all’Autogestito, fuori del manicomio all’interno del manicomio; perché il manicomio credo che si possa costruire o demolire nella nostra testa.

Noi avevamo un reparto che quando è stato aperto aveva 70 persone; ognuno di loro aveva la propria chiave in tasca; avevamo un cancello che dava sulla strada principale, quindi era casa loro, anche se lì allora ci poteva essere rischi: c’è chi ha preso delle denunce, e così via. Però lo scopo era questo: superare il manicomio culturalmente – mentre invece oggi, purtroppo…

All’interno di questa comunità si facevano vari gruppi, si cercava di superare l’ospedale psichiatrico e di cercare il reinserimento nella società; chi lo ha potuto fare è tornato in famiglia, e c’è chi è andato in gruppi famiglia, ma proprio ‘famiglia’, cioè non altri manicomietti fatti da qualche altra parte. Questo era il superamento vero dell’ospedale psichiatrico. Chi non aveva queste possibilità, è ovvio che non poteva nemmeno buttar nella strada; allora si cerva appunto di dare la loro libertà, di cerca individualmente la loro creatività, e cercare di farli vivere al meglio possibile senza essere ghettizzati, etichettati.

Visto che la possibilità di andare nelle proprie famiglie non c’era più per molti, che erano lì dentro da cinquant’anni e non avevano più che pochi parenti, e comunque chi li aveva non li voleva e così via, si pensò insieme a loro di fare un progetto di ristrutturazione della struttura. Progettammo noi insieme a degli ingegneri esterni dei piccoli appartamenti, dove chi appunto aveva la possibilità di vivere indipendente poteva comunque usufruire di questo appartamento; chi non aveva la possibilità c’era una comunità d’appoggio, diciamo, e il personale veniva dato dove serviva.

Il progetto era andato avanti. E’ successo che poi abbiamo cominciato a trovare ostacoli, perché si trattava di una struttura pubblica. E’ subentrata di nuovo la magistratura, a interdire le persone, cercando di togliere quei diritti che noi avevamo creato, la libertà ma anche i diritti civili, economici e tutto quanto. Hanno cominciato a tappeto con l’idea di 300 persone, perché tante ne erano rimaste all’ospedale psichiatrico di Imola, e volevano interdire tutti. Noi siamo riusciti ad arginare un po’ la cosa, ma ci stanno ancora andando dietro, l’iter è quello.

Abbiamo evitato un po’ di interdizioni. Per esempio, una persona che non sapeva parlare l’italiano, e parlava in dialetto romagnolo, al giudice rispondeva in dialetto. “Questo farfuglia” disse il giudica; allora mi incavolai: “Giudice, secondo me lui non farfuglia; lei dall’accento mi sembra che non sia di qua; per cui lui ha semplicemente parlato una lingua che probabilmente lei non conosce”. Questo mi minacciò; ma io gli risposi: lei può anche minacciarmi, ma c’è qui anche il medico con me, noi andiamo fino in fondo; se lei mi dice che quest’uomo non è capace di intendere e di volere lo dimostriamo, anzitutto con una perizia”. A questo punto il giudice ha stracciato il foglio, e quindi non l’hanno interdetto, ma è stato soltanto inabilitato; perché è una persona che probabilmente se gli facevi vedere le 100.000 lire non le conosceva, ma perché non le ha mai viste; però le 50, le 20, le 30 le conosceva. Allora questo non è da interdire; magari non sa fare delle cose, però ne sa fare altre.

Alla fine io mi sono ritirato, Antonucci anche. All’Autogestito, al posto della struttura dei sogni nostri e di chi c’era dentro, è subentrata la chiusura del manicomio, che si è potuta realizzare attivando vari gruppi nel territorio, dove – come al solito – ci sono alcuni che funzionano bene, alcuni altri sono dei pensionati. Questi sono case di riposo dove il privato fa delle convenzioni con il pubblico, e dice: io ti do dieci posti letto, però tu me li mantieni per 6-7 anni, perché i vecchietti sono di 60 e anche 80 anni, e possono non durare…Così l’Autogestito – è brutto, è triste dirlo – è rimasto il serbatoio di rimpinzo dei posti, della gente che va a morire in queste case di riposo.

Ma non solo. E’ finita quella libertà che noi avevamo…Ad esempio: questa struttura è stata fatta come l’avevamo progettata; e così era anche il giorno della nuova inaugurazione, a differenza però di una cosa: la porta, il cancello, dove prima tutti quanti entravano, artisti e non, cittadini e tutti, oggi quel cancello è stato chiuso, perché si è detto che ‘non è a norma’. Quindi si è stati e si è costretti a passare attraverso l’ospedale psichiatrico, la portineria vecchia.

Così è andata a finire la libertà di questo reparto che per vent’anni è stato all’avanguardia, e veramente aveva superato il manicomio. Oggi lì dentro ci sono le stesse persone, un po’ più anziane; soltanto che servono per riempire quei vuoti che rimangono qua e là, togliendogli appunto anche la libertà. Molti di loro, finiti in case di riposo, non escono nemmeno più.

E se questo è il progresso, mi fa veramente paura la proposta di modifica della 180, perché si dice che non funziona. Ma se non funziona, è perché non l’abbiamo fatta funzionare; se l’avessimo fatto, oggi potremmo anche essere un po’ più critici anche dal punto di vista amministrativo nei confronti di chi vuole cambiare questa legge.

Maria Rosaria D’Oronzo

Mi sono laureata a Padova in psicologia, con una tesi su Giorgio Antonucci, direttore del reparto autogestito dell’Ospedale Psichiatrico di Imola.

Questa ricerca era partita dalla volontà di andare un po’ a fondo sulle contraddizioni che venivano fuori dal corso di laurea. C’erano dei testi di teoria – psicologia e psicoanalisi – dove veniva sottolineata l’importanza della creatività per la persona, la personalità e le sue manifestazioni, e quindi la possibilità di possedere più linguaggi, possibilità che favorisce la vita sia privata, intima, che di relazione. Questo in teoria; poi in pratica, in altri testi, altri corsi di laurea dove c’era la pratica del colloquio, dei test, ecc., la creatività veniva considerata una variabile per misurare la malattia, il deficit.. Quindi, da una parte l’esaltazione della creatività come singolarità dell’individuo; dall’altra questa creatività, questa singolarità era sospetta. E questa è una contraddizione molto forte. E io volevo andarci in fondo

Per fare questo – il mio professore di tesi era Maraba, docente di epistemologia – abbiamo contattato diversi istituti, diverse cliniche dove questo lavoro poteva trovare campo, e ho letto buona parte della bibliografia esistente (eravamo nel ’93). Mi sono trovato in un grosso disagio; perché ad esempio Andreoli, Gentile, Mistura dicevano che sì, gli scritti, i libri erano quelli che avevo effettivamente letto, però poi nella pratica ci sono delle persone che – i loro termini erano questi – non si potevano ‘umanizzare’, che dovevano restare nel mondo dell’irrazionale, dovevano essere custoditi, ecc. Tutto il discorso fatto in teoria non poteva essere applicato con queste persone, i cosiddetti ‘schizofrenici’.

Io restavo stupita, sbalordita. Mistura è un fenomenologo: quindi tutto il discorso cade, non è più vero nulla di tutta la fenomenologia, di tutto l’esistenzialismo. Il professor Maraba è stato molto onesto, mi ha detto di continuare, che non era un mio delirio, che dovevo andare avanti, che era un’intuizione. Allora per fortuna qualcuno mi ha dato il nome di Giorgio Antonucci, dicendomi andare a vedere a Imola questa esperienza. Molto bello: io venivo da Padova, mi sembrava così strano che fosse a due passi, dietro l’angolo. Ed è un’esperienza unica nel mondo, perché ci trovavamo – era il ’93 – in un reparto del manicomio, l’ospedale psichiatrico statale, in cui il nome del reparto era ‘Autogestito’, in cui le persone vivevano più che altro come residenti, non erano più degenti – Antonucci non ha mai fatto una cartella clinica.

Quindi ho potuto fare questo lavoro. Adesso l’autogestito non c’è più; perché dopo che Antonucci è andato via dal reparto, nel settembre del ’96, le persone sono ritornate ‘incapaci di intendere e di volere’, cioè da residenti sono passati a degenti, utenti. Questo con un grave pericolo per la loro incolumità, perché erano tutti lungodegenti; erano entrati nel manicomio negli anni ’50, quindi avevano subito tutta la vecchia psichiatria, poi la psichiatria democratica, con questo ‘umanizzare’ le persone (come se le persone non fossero umane, no?), e poi Antonucci, che gli ha reso di nuovo i diritti non solo quelli elementari, cioè di essere persone, ma anche quelli civili, politici, nel senso proprio pratico, perché, per esempio andavano a riscuotere la loro pensione. Antonucci ha fatto questo passaggio, dall’economo alla responsabilità dei pensionati che andavano come tutti gli altri a far le code alla posta.

Tutto questo adesso non c’è più. Sono tornati come prima ; naturalmente ora si chiamano ‘comunità terapeutiche’, ma è solo un problema di numero; come se i grandi numeri facessero i manicomi, negli anni ’80-’90 si è cercato di ridurre i posti letto nelle diverse comunità, perché non dessero appunto l’idea del manicomio. Però la sostanza è rimasta uguale; i rapporti con le persone sono abbastanza poveri, cioè le persone vengono custodite, assistite, piuttosto che mettersi in relazione con loro. Un altro esempio: quando c’era Antonucci le porte non solo erano aperte, ma il reparto era visitato da molte persone, come me; e questo a differenza di aoltri esperimenti, come quelli di Laing e Cooper, dove le strutture erano private e rimanevano circoscritte, come delle isole, dentro l’amministrazione della pazzia. Il reparto autogestito invece era in un manicomio pubblico, quindi non c’erano interessi privati, il rapporto era direttamente con lo Stato, quindi era molto più complicato creare l’autogestione.

Adesso la situazione è peggiorata; non solo non ci sono più visitatori, perché a nessuno interessa il posto così com’è adesso, è diventato anonimo come tutti gli altri; ma poi chi va a trovare le persone rinchiuse deve lasciare nome e cognome, passare una serie di infermieri, ha degli obblighi che vengono a rallentare, a intiepidire il rapporto che si può avere con le persone; non c’è più nulla di spontaneo. Oltre al fatto assurdo che gli infermieri inseguono questi vecchietti sessantenni a ottantenni, che comunque hanno un’età anagrafica che non corrisponde a quella del fisico, perché sno stati con vent’anni di psicofarmaci e tutte le torture…immaginate che a qualcuno sono stati fatti esperimenti come l’LSD in vena, e con altri psicofarmaci che prima di debilitare il cervello, che almeno riesce ad avere il suo spazio di recupero, debilitano il fisico, con degli arti che non riescono più a muoversi…

A proposito di Tradiì: E’ uno di quelli rinchiusi a Imola negli anni ’50. Negli anni ’70 arriva il suo nuovo medico, con queste idee nuove, il discorso di Basaglia, della nuova forma di psichiatria, e propone a una cerchia ben ristretta di degenti l’arteterapia. Lo fa in un modo negativo, che spiego: Giuseppe poteva usare i pennelli e le tele, che gli venivano consegnate dagli infermieri, però erano insieme strumento di premio e di castigo, date o tolte secondo le circostanze. La creatività quindi – come dicevo prima – viene strumentalizzata, quindi perde il suo significato.

La storia delle porte comincia con il nuovo direttore, Giorgio Antonucci. Dopo che Antonucci si è presentato, Giuseppe ha capito il discorso, ed è andato lui, nonostante sia un tipo reticente, a dirgli: dottore, se ho capito bene il discorso, io posso fare le cose secondo le mie inclinazioni. Antonucci ha confermato, dicendo che questo era proprio lo scopo, il senso del suo lavoro là dentro. Allora Giuseppe gli ha chiesto se poteva dipingere, in qualsiasi momento, senza seguire una tabella, un programma, un progetto, quando era più ispirato; Antonucci era d’accordo, non si possono mettere dei freni, dei paletti all’ispirazione. Da qui è nata la possibilità di dipingere prima le porte, poi i muri del Reparto.

Stefania Guerra Lisi

Il grigio è il colore dell’equilibrio degli opposti, luce-buio, bianco-nero; viene preferito dai soggetti artistici, che a modo loro hanno scelto di essere comunicativamente neutrali, aldilà della condiscendenza o della violenza del rifiuto.

Barriere non ci sono, ma cortine di nebbia dove, più che perdere le presenze, si perde la loro identità cancellata dalla soffice opacità, la stessa che cancella tutto ciò che è dentro i confini dell’Ombra.

E’ interessante come questa sia disposta a deformarsi istantaneamente sulle caratteristiche dell’ambiente. “Io, Io? Sono l’ombra di X, ma posso incurvarmi su una sfera, diventare come un organetto sulle scale, allungarmi scivolando obliquamente su un tetto, ondularmi su una tenda leggera; che mi estenda o mi contragga o mi moduli melodicamente, o mi frammenti aritmicamente, non dipende da me ma dall’interazione con l’ambiente.

Questa metafora rispecchia l’ipersensibilità dei soggetti ritenuti estranei all’ambiente per la loro non dimostrata comunicazione, ma così vulnerabili da difendersene con una apparente indifferenza agli stimoli, che li fa uscire incolumi dal diluvio o dal camminare sui carboni ardenti: così si potrebbero definire alcuni sfondi familiari e sociali.

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Così è il Grigio, colore opaco, che assorbe le vibrazioni di qualunque altro colore lo avvicini, o per mescolanza penetri in lui in proporzioni minime, che non modificherebbero neanche il bianco. Una goccia di ogni colore per ogni grigio ci può dare l’arcobaleno dei grigi, delicatissime madreperlacee sfumature emotive.

Inconsciamente questa simbologia del colore deve aver agito sulla scelta del grigio dei muri, delle divise manicomiali, come quelle dell’ex manicomio di Imola (che si sono potute vedere sulla stampelliera all’ingresso della sala del convegno).

La cosa allucinante è che non c’è distinzione cromatica fra quelle dei matti e quelle degli infermieri; persino i mantelli per l’esterno sono grigi: il colore che “mantiene lo sporco”, il colore della polvere che è il tempo stratificato senza tempo, granello per granello, che può contenere le cose e attutirne le forme per attutirne l’urto con la realtà.

Il manicomio è allora il paese delle ombre, della cenere dopo le eruzioni; tanta, tanta cenere dopo una rapida abbagliante esplosione, una volta tanto. E’ incredibile come questa granulosità felpata dei tessuti somigli a un linguaggio sommesso, come una penombra di suoni, soliloqui in sordina di un paesaggio di personaggi ammutoliti nel torpore. Camici, bottoni, asole slabbrate che fanno immaginare l’inutilità della chiusura dentro: le dita ipotoniche per l’ottundimento farmacologico in “tono muscolare grigio”, che non ce la fanno ad unire, ad abbottonare, a tener chiuso il corpo come l’anima.

“Incontinenza”, non solo sfinterica, incontinenza in tutti i sensi, di parole, di sommosse-sommesse movimenti vincolati, tutt’al più sussulti grigio più scuro, nella folla di ombre di pigiami e mantelle, nei corridoi e nei viali grigi, nella nebbia palpabile. E’ impossibile non sentire il grido bianchissimo, lungo lungo come le maniche della camicia di forza, represso gorgogliante come il loro annodarsi all’indietro.

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E’ fatta: fiamma, incendio, Uomo, Grido soffocato; le clavicole aperte come un uccello dalle ali tarpate, l’occhio perso su un orizzonte di volo impossibile. Torso-torsolo umano bianco, e la morsa del cuoio e del metallo. Morsetti, elettroshock, annichilimento convulso dell’Essere che non vuole…NON VUOLE!!!!

E’, d’accordo, come uno strumento scordato, ogni corda saltata: ha tutto scordato, nebbia, sabbia, granelli granelli… ssssilenzio, sommerso, sommesso, messo sotto, sottomesso. Opacità della mente, ombra, pena-ombra grigia, solo nel grigio si può sprofondare a più velature, di più, di più fino quasi al nero, mai assoluto, ma grigia notte latente e grigio giorno latente.

Cercava l’alba, ma alba non era, / cerca il suo dritto profilo / ma il sogno lo disorienta” (F.Garcia Lorca).

Io credo che quello che ci dicevano ieri nel suo libro Tobino, e qui il professor Volterra sulla melancolia, compagna inseparabile della Follia, ci serva per cogliere questa identificazione inconscia del Grigiore con il manicomio: cura pretestuosa della pretestuosa malattia della mente.

Infatti queste foto grigio.ingiallite di strumenti e volti manicomiali, che ci fanno immaginare storie di cancellazione dell’Anima, ci dicono che il grigio come l’Anima è Fenice che rinasce dalle proprie ceneri, poiché è costituito da pigmenti lievissimi come piume, di tutti i colori sfumati dei sentimenti.

Nel museo del manicomio di Imola, dal quale provengono queste tangibili testimonianze, dopo una serie di oggetti che sembrano tanto più antichi e che sono invece di tempi recenti di castigo del corpo e della mente, ci sono delle “porte” in piedi, senza più funzione separatoria, quasi quinte dipintemi di una vibrante scenografie della follia. Le porte sul nulla di Tradiì, che si erano aperte, fra cura e persone, umane. Ormai scardinate, non devono richiudersi più!

Al centro della stanza successiva, non più museo, c’è una catasta coloratissima di vestititi di tutti colori, travestimenti per catartici psicodrammi, un mucchio variopinto che è la costituzione dello Spirito della Follia insopprimibile del Grigio.

Pubblicato il: 4 July, 2008
Categoria: Testi

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo