Intervista a Giorgio Antonucci a cura di Radio Città di Bologna
Gennaio 1983
R.C. = Giorgio Antonucci è un medico ed è responsabile di tre reparti di lungodegenti di un ospedale psichiatrico. Questo ospedale si chiama “Istituto psichiatrico Osservanza”. Raccontaci che cos’è quest’istituto.
G.A. = L’Istituto psichiatrico Osservanza è il manicomio delle province di Ravenna e di Forlì, cioè di tutto il territorio della Romagna, si può dire ex manicomio perché ora, secondo la nuova legge del’78, nessuno giustamente può essere internato qui dentro.
R.C.= Questo manicomio, questo ex manicomio è nella città di Imola. Imola era una città famosa perché di istituzioni psichiatriche ce n’erano parecchie. C’è anche un luogo comune “A Imola sono tutti matti” si diceva una volta, proprio perché oltre all’Osservanza c’era anche il Lolli. Il Lolli cos’era invece?
G.A.= Il “Lolli” era il manicomio di una parte dei cittadini di una parte della provincia di Bologna.
R.C. = Quindi c’era una divisione, insomma.
G.A. = Si tra il Lolli e il Roncati, perché la provincia di Bologna aveva due manicomi.
R.C. = Tu lavori qui?
G.A. = Io lavoro qui dal 1973.
R.C. = E nel 1973 la “180” che è poi la legge alla quale ti riferivi prima, quando hai parlato della legge del’78, non c’era ancora.
G.A. = No infatti viene nel ’78, c’era invece già, a partire dagli anni ’60, un movimento culturale anti istituzionale, con cui io ho lavorato. Io ho lavorato qualche mese nel’69 a Gorizia con Basaglia.
R.C. = Poi cosa hai fatto dopo?
G.A. = Dopo ho lavorato tre anni a Reggio Emilia, nel territorio della montagna come medico responsabile di quella parte del territorio della provincia di Reggio Emilia, e poi nel ’73 sono venuto qua.
R.C. = Qual’era la situazione qua dentro allora? Sono quasi dieci anni. Quando sei arrivato cosa hai visto?
G.A. = Ho visto appunto che si trattava di un manicomio secondo tutte le regole: cioè di un insieme di reparti con allora mille e quattrocento persone, tutte regolarmente rinchiuse, e oltre che rinchiuse anche legate nei letti, sotto psicofarmaci, sotto controllo da tutti i punti di vista.
R.C. = A te sono stati affidati fino da allora, credo, comunque tu hai scelto la gestione di tre reparti. Prima abbiamo fatto un giro insieme, poi magari dopo facciamo un altro giro e faccio qualche domanda a qualcuno. Questi reparti sono il diciassette, che è un reparto totalmente di uomini; il dieci che è un reparto di donne; poi il quattordici quest’ultimo è quello che una volta era il reparto “delle agitate”, m’hai raccontato prima…
G.A. = Infatti, quando sono venuto qui, siccome il mio modo di pensare è sempre stato un modo di pensare critico non solo nei riguardi dell’istituzioni, ma anche nei riguardi della psichiatria come tipo di cultura, allora io ho chiesto e ottenuto di prendere il reparto ritenuto peggiore da tutti gli altri, cioè il reparto di quelle persone che loro ritenevano le più pericolose, e ho cominciato ad aprirlo, e come tu hai veduto, ora è aperto, ma da tanti anni. Aperto secondo me, significa non soltanto con le porte aperte sempre, ma significa anche con le persone ricoverate considerate come cittadini a tutti gli effetti e come persone uguali agli altri, a parte l’esperienza negativa che hanno dovuto, nonostante la loro volontà, subire.
R.C. = Ecco io farei una cosa, starei un attimo ancora sulla parola “aperto”, perché di manicomi aperti se n’è sentito parlare spesso, e credo che la gente, quando pensa a manicomio aperto, pensa a persone un po’ strane che girano per la città. Però magari si chiede poco come fanno a stare lì, attraverso che sistemi… Allora puoi un attimo spiegarci bene, più esattamente cosa vuol dire aperto? Nei tuoi reparti come funziona questa apertura? Cosa significa concretamente?
G.A. = Ecco ho già accennato prima al discorso, cioè il discorso anti istituzionale è un discorso secondo me, a metà, nel senso che fa una critica alla istituzione manicomiale, ma non fa una critica completa alle cause dell’esistenza dei manicomi. Le istituzioni psichiatriche esistono perché la psichiatria pensa che ci sono delle persone diverse dalle altre, e più precisamente, in qualche modo, inferiori alle altre, che non possono essere responsabili di se stesse. Non importa se questa inferiorità viene stabilita a livello organico, biologico oppure a livello genetico oppure a livello psicologico: si parla di persone inferiori che devono essere controllate. Io penso che non ci sono persone inferiori che debbono essere controllate, ma penso che ci siano delle situazioni sociali difficili, in cui quelli che hanno meno potere finiscono per essere considerati in questo modo. Per cui si tratta di persone come le altre a livello appunto sia biologico sia psicologico, soltanto che non sono alla pari delle altre perché si sono trovati in condizioni sociali di grande svantaggio.
R.C. = Ho capito. Senti una cosa, quanta gente c’è dentro i tuoi reparti?
G.A. = Sono tre reparti perché dopo il quattordici ne ho presi altri due, via via attraverso il tempo, sono tre reparti e ci sono ancora centoventi persone, due reparti donne e un reparto uomini.
R.C. = Cos’è che vuol dire ancora? Cioè spiega un attimo questa cosa, la gente pensa anche che i manicomi non ci sono più, tu invece anche adesso parli tranquillamente di istituzione psichiatrica, di manicomi. Allora la “180”, quella che aboliva i manicomi, per capirci, in realtà che cosa ha fatto?
G.A. = Dunque la “180” è intervenuta per aprire un diverso tipo di cultura, anche se con alcune contraddizioni. Se quando si dice che non ci sono più i manicomi s’intende che non si entra più nelle vecchie istituzioni psichiatriche questo è vero, salvo eccezioni arbitrarie, è vero perché la “180” stabilisce che nei vecchi manicomi non entra più nessuno, e questo in generale si verifica. Però primo ci sono tutte le persone che erano entrate prima della legge…
R.C. = …sono quindi quelle di cui tu ti occupi
G.A. = Si quelle di cui mi occupo. In secondo luogo queste persone possono essere trattate in vario modo, quelle che sono rimaste dentro, cioè possono essere trattate come cittadini che devono costruirsi delle prospettive di vita, oppure possono essere trattate come persone, come dicevo prima, incapaci, che devono essere tenute da qualche parte. Allora i manicomi ci sono dappertutto in Italia: ci sono le vecchie istituzioni con un gran numero di lungodegenti, di cui soltanto pochi sono trattati come debbano essere trattati dei cittadini a tutti gli effetti. In più c’è da dire che per quanto riguarda gli internamenti, purtroppo, siccome la legge 180 secondo me dev’essere ancora perfezionata o meglio sostituita in seguito da una legge ancora più avanzata, è ancora possibile, sia pure con alcune garanzie formali, l’internamento, non più nei vecchi manicomi, ma in nuovi reparti di ospedali civili, che però finiscono per essere uguali ai vecchi manicomi.
R.C. = Sostanziamente se oggi una persona quindi assume un comportamento in qualche modo ritenuto deviante viena presa e portata in un ospedale civile all’interno del quale c’è un reparto….
G.A. = …anche con la forza, e questo è il punto. Io mi sono battuto, in questi anni, dal ’69 in poi, contro i ricoveri obbligati, anche se la legge in qualche modo li ammette; mi sono battuto contro questi perché dai ricoveri obbligati deriva la deportazione forzata di certe persone, ripeto, in situazione di svantaggio sociale. Allora la deportazione con l’inganno e con la forza di persone in determinati reparti, comunque si chiamino, è la ricostruzione del manicomio.
R.C. = Senti quelli che sono qua dentro, da quanti anni ci sono?
G.A. = Alcuni stanno qui dentro da venti-venticinque anni, si arriva anche a sessanta anni di ricovero, un paziente del reparto diciassette fu ricoverato dopo la prima guerra mondiale.
R.C. = Prima ho fatto un giro: ho visto qualche infermiere, ho visto anche non una particolare presenza di infermieri. Poi “aperto” vuol dire per esempio che nei tuoi reparti le grate alle finestre non ci sono, e ci sono invece nei reparti vicini. Poi ho visto che dentro i tuoi reparti ci sono delle poltrone, ci sono dei videogiochi, ci sono dei flipper, ci sono delle televisioni, ci sono delle sale che in qualche modo cercano di imitare quello che è un soggiorno, oppure un classico bar, ci sono dei biliardi… Io ho visto là della gente che sta seduta: ti voglio chiedere due cose. La prima è come hai fatto a togliere le sbarre e a fare tutto il resto, concretamente proprio; e poi voglio chiederti se questa gente che ho visto lì soffre molto o soffre poco.
G.A. = Per il primo punto: da quando sono venuto qua mi sono battuto anche con gli amministratori per ottenere demolizioni di muri, asportazioni di inferriate, cioè uno dei compiti è la distruzione di un ambiente carcerario, ed è un compito difficile perché non sempre si tiene questo, quello che si vuole. Comunque si possono pure immediatamente aprire le porte, anche prima di togliere le inferriate e buttare giù i muri.
R.C. = Dicevi cose belle prima durante la visita. Dicevi :”Tutte le porte devono essere aperte, non solo una porta”. Ora noi non abbiamo una televisione per riprendere quello che abbiamo visto, ma vale la pena di descriverlo un attimo. Ogni palazzina ha diverse porte di uscita. Allora il problema è quello di aprirle tutte, di far in modo che la possibilità di uscita sia reale e non formale.
G.A. = Certo, e questo è il punto di distruzione della psichiatria come imprigionamento. Perché poi è inutile che le porte siano aperte se si continua a esercitare altre forme di controllo. Perché la psichiatria ha tre tipi di controllo: 1) controllo fisico che va dalle porte chiuse alla camicia di forza alla cintura di contenzione; 2) controllo …
R.C. = C’erano queste cose quando sei arrivato?
G.A. = Certo c’erano e in altre strutture psichiatriche, manicomiale o di ospedale civile, ci sono ancora.
R.C. = Anche qui dentro?
G.A. = Anche qui dentro certo. Allora c’è un controllo a livello di struttura fisica: mezzi meccanici di controllo. Poi un secondo aspetto del controllo psichiatrico è il controllo farmacologico, vale a dire limitare le persone nella loro capacità per mezzo dei farmaci: gli stessi psichiatri parlano di neuroplegici, cioè paralizzanti delle funzioni nervose. Un terzo tipo di controllo è il controllo psicologico, che poi nei manicomi in una parola sola è paura terrore vale a dire si tengono le persone nella paura di prendere delle iniziative. E’ chiaro che se tutte le porte sono aperte ma si riempiono le persone di psicofarmaci o si impauriscono ricattandole naturalmente è inutile che le porte siano aperte: allora va demolita la psichiatria a livello di controllo meccanico e fisico, a livello di controllo farmacologico, e a livello di ricatto psicologico.
R.C. = Dimmi anche come hai fatto, ti avevo chiesto, a mettere dentro tutte quelle cose, quei flipper e tutto il resto. Chi ha pagato? Chi ha deciso? Come avete fatto?
G.A. = Abbiamo deciso insieme discutendone. I degenti hanno ottenuto delle pensioni di risarcimento dei danni che hanno subito, allora suppongono di soldi, una parte li spendono per migliorare il loro ambiente di residenza. Questo lo fanno perché, in attesa di avere delle prospettive fuori, che è difficile ottenere per tanti motivi, e se ne potrebbe parlare, debbono vivere qui come gli altri vivono fuori, cioè con la libertà che hanno gli altri nella società civile e con i beni a cui gli altri si riferiscono per passare il tempo e per andare avanti.
R.C. = Ti avevo chiesti se soffrono si o no e poi magari, aggiungo adesso, che cosa vuol dire soffrire? Otre a questo ti voglio chiedere un’altra cosa, poi agganciarmi le due domande: perché questi sono ancora qui?
G.A. = Questi sono qui le persone che hanno passato anni interi imprigionati, qualsiasi sia il tipo di prigionia, e quella manicomiale è la peggiore, non sempre se la sentono di andare via; se poi se la sentono di andare via definitivamente devono avere delle prospettive precise, devono avere delle condizioni di vita che gli diano una garanzia almeno di sopravvivenza.
R.C. = Da questi punti di vista le famiglie che cosa dicono, per quelle che le hanno?
G.A. = Le famiglie spesso sono da anni separati da questi che sono lungodegenti, per cui una famiglia si è costruita una vita tutta diversa facendo a meno di queste persone, e non sempre per sua diretta responsabilità, ma per un insieme di cose, e allora è difficile dopo vent’anni riproporre una persona in una famiglia, perché è in se stessa una cosa assurda. Allora qui si ritorna al discorso che la psichiatria distrugge i legami sociali, quanto li ha distrutti da anni ricostruirli è difficile. Certo che queste persone, come dicevi soffrono: soffrono perché hanno avuto una vita difficile prima di venire qua, umiliazioni prima di venire qua, spesso sono di condizione sottoproletarie; poi hanno avuto l’umiliazione di essere portate qui con la forza, hanno subito l’imprigionamento per tanti anni, e ora cominciano a respirare un po’, però in una società che è diffidente verso di loro. Per esempio appunto spesso io ho protesto dall’esterno, ma non sono proteste legate a quello che fanno i pazienti, sono proteste legate ai pregiudizi che gli altri hanno su di loro. Perché se una persona fuori ha una discussione in un bar la discussione finisce lì, ma se la discussione in un bar ce l’ha uno che proviene da un’istituzione psichiatrica, si chiama la polizia. Questo perché la società civile a livello culturale è legata ai pregiudizi su cui è stata costruita la psichiatria e per cui la psichiatria esiste ancora.
R.C. = Sentiamo il tuo parere su questi pregiudizi, io ti faccio le domande in modo provocatorio. Sono brutti, perché sono brutti? I lungodegenti sono fisicamente brutti, sono persone brutte alla vista secondo i parametri convenzionali.
G.A. = Io vorrei sapere come si fa a essere ben messi fisicamente dopo aver passato per esempio vent’anni legati in un letto. Come si fa ad essere spigliati dopo esser stati imprigionati per venticinque anni. E’ questo che vorrei sapere.
R.C. = C’è molta gente che fa fatica a camminare…
G.A. = Perché io ho delle persone che quando gli ho tolto la camicia di forza non si reggeva in piedi e ora è già molto se camminano, perché avevano i muscoli paralizzati.E tutto questo è stato costruito dalla psichiatria sotto il pretesto della terapia. Devo dire allora, e si riprende il discorso, che non si può fare una critica delle istituzioni senza fare una critica della psichiatria, e non si può fare una critica della psichiatria senza riprendere in considerazione la convivenza civile ad altri livelli. Se la convivenza civile dev’essere che il più debole socialmente, non fisicamente o psicologicamente, che si trova in contraddizione con il perbenismo sociale viene eliminato allora la psichiatria ha senso perché è questo che fa da quando è stata fondata. Se invece si deve costruire una società in cui si vogliono condizioni di eguaglianza e di giustizia allora è inutile continuare a chiedere che la psichiatria rinforzi le sue strutture. Vediamo un po’ di cominciare a vivere in un altro modo, a vedere le cose con altri occhi. Devo dire che anche ora in manicomio (nei reparti di ospedali civili che funzionano da manicomio) le persone vengono ricoverate a livello formale per autentiche sciocchezze: la persona che non dorme la notte, che non ce la fa più a lavorare, che ha il mal di testa, che si ha paura che si uccida: dico sciocchezze perché possono essere cose importanti, ma solo se viste nella totalità della vita di una persona; ma non sono cose che darebbero tante noie, se non ci fosse il pregiudizio che, o si è completamente rigorosamente dipendenti dal ciclo produttivo, e si è per questo degli strumenti che si possono usare bene, oppure si viene messi da parte.
R.C. = Senti, tu rifiuti, vorrei insistere su queste cose, tu rifiuti la definizione di malato di mente. Dici che uno può essere malato di testa, semmai con un gioco di parole.
G.A. = No, io preciso, già che mi fai la domanda. Come medico dico che ci sono, come tutti sanno ma in questo caso lo devo dire, ci sono le malattie, dico alcuni esempi, dei muscoli, ci sono le malattie dei reni, ci sono le malattie dello stomaco, ci sono le malattie del cervello: per le malattie del cervello corrispondono a quella branca della medicina che si chiama neurologia e sono per esempio, il tumore cerebrale, che può richiedere un intervento chirurgico, poniamo essere l’epilessia, che richiede determinate terapie anche farmacologiche, la sclerosi a placche ecc, sono malattie che richiedono anche prevenzione di vario tipo, è questo è la neurologia. Ma la psichiatria non si occupa di malattie del sistema nervoso cerebrale ( o periferico), lo dicono gli stessi psichiatri che le chiamano “malattie della mente”; che è un concetto che non ha nulla a che vedere con la medicina, ma è un giudizio sul comportamento o sul pensiero. Allora non è un problema medico, ma è un problema di costume, e il problema di costume è un problema politico.
R.C. = Che cos’è oggi un comportamento definito anormale? Cioè io so che: comportamenti detti anormali vengono definiti in questo modo a seconda dello spazio e del tempo.
G.A. = Ti faccio subito un esempio importante. Esistono diverse situazioni in cui si viene giudicati da istituzioni psichiatriche esterne o interne, sia pure in ospedale civile: un problema grosso è il problema delle casalinghe, vale a dire spesso le donne, per tutti i motivi che si potrebbero discutere anche con le femministe, anzi specialmente con loro, vivono una vita infelice, limitata, sotto condizioni non umane: quando non ce la fanno hanno la depressione e si mettono in istituzioni psichiatriche. Si interviene praticamente con la violenza, psicofarmaci, elettrochoc, e se la depressione, che è una definizione non scientifica, ma al contrario è una semplificazione repressiva, sembra passare, cosa che non succede molto spesso, si dimette; altrimenti la persona continua a subire ricoveri successivi fino alla distruzione. I problemi reali delle donne casalinghe, oppure i problemi dei disoccupati i problemi delle persone ai margini della società, ai margini, intendo dire, a livello proprio politico: i ricoveri sono in grandissimo numero nelle grandi città, nelle grandi aree metropolitane, dove c’è un sottoproletariato che vive giorno per giorno, arrangiandosi come si dice a Napoli.
R.C. = Rinforziamo questo discorso con alcuni esempi. Tu conoscerai naturalmente la storia della maggior parte dei tuoi ricoverati. Qual è stata la causa che ha portato dentro loro?
G.A. = Io ho slegato dal letto tra le altre una donna che ora è libera ma non ha nessuno che la vuole; da venticinque anni fa, anzi trenta anni fa, è stata internata perché era una contadina povera che lavorava nei campi e lavorava in casa; poi ha avuto una gravidanza e ha avuto una figlia; dopo la gravidanza, per ragioni fisiche e anche psicologiche, non ce la faceva a sostenere una vita così dura e priva di soddisfazione; un’altra donna, se fa parte della borghesia, dopo la gravidanza può riposare, può prendersi i suoi momenti di respiro; lei invece non poteva, per le sue condizioni sociali, e siccome fisicamente risultava sana, allora hanno pensato che fosse depressa, l’hanno internata, ed è sempre qui. Questo è un esempio, ma io potrei parlare di tutte le persone internate, e fare ogni volta una storia come questa. E, ripeto, sono storie non di persone diverse dagli altri a livello fisico o psicologico, sono storie di persone che si trovano in situazioni sociali impossibili. Chi vive in situazioni economica e sociale di svantaggio oltre ad avere difficoltà di risorse, viene anche preso di mira in modo particolare dai privilegiati, qualunque cosa pensi o in qualunque modo si comporti. Per esempio a Napoli vengono internati sia in orfanotrofi o collegi, che in istituzioni psichiatriche, che in manicomi giudiziari, molti ragazzini, perché la situazione è quella che tutti in Italia conoscono.
R.C. = Tu hai fatto riferimento a situazioni sociali impossibili come causa di comportamenti che poi vengono in qualche modo regolamentati attraverso la reclusione, tempo fa all’interno di quello che era il manicomio oggi dentro quelli che sono dei reparti appositamente allestiti all’interno degli ospedali civili. Però credo che ci sia da aggiungere qualcosa, almeno ti dico anche un po’ il mio punto di vista. Una situazione sociale impossibile provoca, produce dei traumi tremendi. Ora io credo che ne possa produrre alcuni in qualche modo combattuti da un punto di vista politico dall’ordine costituito. Altri comportamenti invece sono sempre combattuti dall’ordine costituito, però vorrei dire che la forma di combattimento è diversa, insomma questa persona viene definita pazza.
G.A. = Ecco qui io, per approfondire il problema, vorrei aggiungere questo: se si trattasse di comportamenti la psichiatria sarebbe ancora poco dannosa, ma la psichiatria va molto al di là dei comportamenti e fa il processo alle intenzioni. E’ questo il grave. Così la persona triste che qualcuno pensa che potrebbe anche pensare di farla finire. Ecco un processo alle intenzioni che può comportare un internamento. Magari oltretutto la persona non ci pensa nemmeno. Per cui col processo alle intenzioni si va ben al di là dei comportamenti, e allora le possibilità di internamento da parte degli psichiatri sono cose col processo alle intenzioni amplissime e del tutto arbitrarie. La maggior parte degli internamenti sono dovuti ai processi alle intenzioni e non per comportamenti che in qualche modo contraddicono i costumi convenzionali della società. Ho parlato di recente, nei reparti di ospedale civile qui di Imola dove ci sono gli internamenti attuali, con una giovane donna vedova da poco, che è stata internata dopo la morte del marito non tanto perché non faceva più quello che faceva prima, ma più che altro sulla base del fatto che i figli sospettavano che avrebbe potuto suicidarsi. E’ questo il grave della psichiatria: in una società in cui è possibile internare una persona sulle intenzioni, è possibile tutto dal punto di vista repressivo.
R.C. = Voglio tornare sul discorso della sofferenza. Tu prima mi hai detto: “certo che soffrono queste persone” mi avevi risposto più o meno dicendomi “Vorrei vedere dopo venti anni eccetera eccetera, una persona per forza soffre”. Io però penso che le persone soffrono comunque, al di là dei vent’anni di reclusione voglio dire, e credo che ci sia una scala della sofferenza, non so io vorrei che tu mi lasciassi pensare le parole anche se magari sono imprecise. Così non credo che tutti soffriamo uguale. Credo che ci sono delle persone che davvero soffrono molto, che si dibattono, io ho questa sensazione che dal punto di vista visivo mi rappresento sai come una cosa che gira su se stessa.
G.A. = Però dobbiamo distinguere la sofferenza dal “girare su se stessi”, perché la sofferenza è collegata alle esperienze della vita di una persona, al suo sentire le contraddizione in cui vive e la distanza che c’è tra lui e le sue aspirazioni. Questa è la sofferenza. Ma “il girare su se stessi” non è legato alla sofferenza, è legato alla repressione sopra la sofferenza. Perché si gira su se stessi se si è stati per anni rinchiusi in un cortile; come si può “girare su se stessi” anche se si fa la vita delle casalinghe senza nessuna prospettiva: nel senso che a un certo punto si può cominciare a non farcela più a sopportare. Però il “girare su se stessi” non deriva dalla sofferenza, deriva dall’impossibilità di combattere contro la sofferenza e questo deriva da l’essere messi in condizione di chiusura: la chiusura c’è anche prima del manicomio, anzi essenzialmente prima, il manicomio è soltanto una conseguenza.
R.C. = Sono d’accordo su quella cosa che hai detto, voglio insistere….
G.A. = Perché se io mettiamo parlo di me personalmente, sto male, per esempio, perché sono molto legato a mia moglie e mi muore la moglie, può darsi che io pensi al suicidio o no, parlo in prima persona per evitare equivoci. Però dico avendo un lavoro, una posizione sociale, degli amici, io ho tante possibilità per evitare di “girare intorno a me stesso” Ma una donna che vive, come quella che ho conosciuto e di cui parlavo, soltanto della famiglia, soltanto del marito e dei figli, chiusa in questo circolo sociale, che non dovrebbe esserci ma che c’è, se ad un certo punto le muore il marito, che è il centro di tutte le sue attenzioni, può darsi anche che pensi di uccidersi, se poi i figli inoltre le fanno anche il processo alle intenzioni e la internano può darsi allora che questo pensiero diventi una decisione. Spesso gli psichiatri favoriscono quei danni che pretendono di prevenire.
R.C. = C’è un detto popolare che dice “Sto talmente male che mi sembra d’impazzire”
G.A. = Certo, è giusto questo. Vuol dire che la sofferenza, oltre certi limiti, ci fa pensare che non ce la facciamo a combatterla. Però se ce la facciamo a combatterla è perché abbiamo dei rapporti sociali reali positivi; se non li abbiamo come si fa?
R.C. = Senti. Cambiamo discorso un attimo. Psicofarmaci, cose di questo genere: come dire, intervento medico in senso stretto, cosa fai?
G.A. = Come ho detto io ritengo che si tratti di problemi di rapporto e di prospettiva sociale, per cui non penso che si tratti di persone malate, per cui non penso che siano persone da curarsi, per cui non penso che debbano prendere dei farmaci. Certamente il discorso è più complicato solo in questo senso che, siccome nella nostra società coi costumi e pregiudizi che ci sono si hanno delle abitudini, c’è anche qualcuno che vuole, per esempio, il tranquillante per dormire la notte, ma come ce ne sono fuori dappertutto, se qualcuno lo vuole può anche prenderlo a esclusivo vantaggio delle case farmaceutiche, però se si parte dalla volontà della persona, le abitudini si possono discutere come positive o negative a seconda dei punti di vista, ma non si tratta più di interventi autoritari.
R.C. = Saltando di palo in frasca, se vuoi, un istituto aperto, vi sono dei rischi? Dei rischi da parte tua, ma poi questi uno se li assuma, e un problema politico personale. Però questo viene vissuto a livello sociale come un fare correre dei rischi anche ai ricoverati considerati malati di mente. Vuol dire che insomma della gente esce ed esce in una situazione che è comunque ostile, e può andare incontro a delle disgrazie: come risolvi questo problema e che cosa ne pensi?
G.A. = E’ proprio un problema del momento perché giorni fa sono uscite due persone dal reparto dieci,: una è andata a Milano ed è tornata; un’altra invece non è tornata e siccome è una persona anziana di sessantacinque anni, che finora era andata fuori ma era tornata dopo qualche ora, naturalmente sono preoccupato. Ma perché sono preoccupato? Prima di tutto perché fuori la vita è difficile per tutti: se uno va a Milano in giro, o anche in un’altra grande città, specialmente nelle grandi città, si corrono dei rischi; poi perché una persona che non è abituata a girare per il mondo ne corre ancora di più; si aggiunge a questo l’ostilità che c’è nei riguardi dei ricoverati in istituti psichiatrici, che se scoprono che viene da un istituto psichiatrico corre rischi ancora maggiori. Però queste sono scelte che vanno fatte, perché vivere è un rischio, non vivere è l’effetto della psichiatria.
R.C. = Quindi a qualcuno che dice che sei un irresponsabile, che cosa rispondi?
G.A. = Io rispondo che responsabilità è considerare queste persone per quello che sono e lottare perché siano riconosciute uguali alle altre, non è responsabilità proteggerle come se fossero degli esseri inferiori da tutelare.
R.C. = Un’ ultima curiosità: tu hai delle relazioni umane con questi ricoverati: quindi scambi con loro delle parole, giri dove sono loro, li incontri. Sul piano tuo personale quali sono le tue difficoltà nel capirli?
G.A. = A volte ci sono difficoltà di linguaggio, io sono toscano, loro sono romagnoli. Ma al di là di quelle, le difficoltà sono sempre, per capire un’altra persona, che sia stata internata o no, di diversa esperienza. Io credo che questo sia il problema principale. I medici hanno un’esperienza particolare legata alla loro classe sociale e alla loro casta, e hanno sempre interpretato come esperienze incomprensibili quelle di persone che fanno parte di altre classi sociali e anche di altre culture. Un grande problema collegato con l’internamento psichiatrico è il problema dell’immigrazione. Anzi la psichiatria è nata così: è nata a Parigi come un ospizio per poveri che disturbavano, nel momento in cui Parigi da antica città di tradizioni classiche si stava trasformando in una metropoli moderna. Allora se io parlo con una persona la cui esperienza è la coltivazione dei campi nella provincia di Palermo. Bisogna che io allarghi le mie idee e le mie vedute per capire quello che dice.
R.C. = I tuoi rapporti con gli altri medici dell’”Osservanza”? i tuoi rapporti con gli infermieri?
G.A. = Con gli altri medici c’è contrapposizione. Siccome gli altri medici qui sono psichiatri che pensano che la psichiatria è una scienza, dunque sono in contraddizione con me sia a livello teorico che pratico; con gli infermieri dipende: ce ne sono alcuni che hanno compreso la nuova linea che porto avanti, altri un po’ meno, e allora a volte i rapporti sono un po’ difficili, anche perché gli infermieri sono stati educati per fare i carcerieri, non sono stati educati per capire i problemi sociali.
R.C. = Con la città?
G.A. = Con la città i rapporti a volte sono positivi a volte no: ultimamente ho ricevuto una lettera dal sindaco che si lamentava per l’uscita di una persona dal reparto quattordici. Ho risposto al sindaco che le persone dell’istituto hanno diritto a tutti i livelli, oltre che a livello giuridico, di avere tutte le possibilità degli altri nella città di Imola.
R.C. = Un’ ultima cosa. Pensi che la 180 venga capita, pensi che venga ritoccata in peggio?
G.A. = Spero che non avvenga nulla di tutto questo, perché il Partito Socialista, il Partito Comunista e la CGIL sono schierati per difendere la nuova legge. Però, poiché la cultura su questi problemi è arretrata e siccome non è mai fatto un discorso chiaro su cos’è la psichiatria, anche da parte di quelli che volevano superare l’istituzione: in una cultura così, in un momento di crisi economica, in un momento di repressione a tutti i livelli, in cui le garanzie istituzionali sono state abbandonate, c’è il pericolo anche che si torni indietro a livello giuridico.
R.C. = Senti Psichiatria democratica è un soggetto che ti interessa oppure no?
G.A. = Io ho lavorato insieme a Basaglia, ho lavorato insieme a Jervis, ho rapporti personali buonissimi con Pirella con cui ho lavorato: c’è soltanto una differenza di punti di vista: io penso che la critica alla psichiatria deve essere radicale e completa, non soltanto parziale, come è quella degli psichiatri democratici.
R.C. = Finiamo qui. Io vado a fare un giro nei tuoi reparti.
Pubblicato il: 1 March, 2018
Categoria: Notizie