I GIORNI DELLA LUNA – testo di Giorgio Antonucci

 

Quaderni di “Collettivo R” gennaio-agosto 1984, 34-35





“Se moro, ricopritemi di fiori,
E sottoterra non mi ci mettete:
Mettetemi di là de chelle mura
Dove più volte vista mi ci avete”


da un rispetto toscano raccolto da N. Tommaseo e musicato da Hugo Wolf


In quella sala anatomica di via Alfani, all’Istituto di anatomia normale, mi pareva che gli ostacoli sulla via della conoscenza, fossero teoricamente infiniti, e che fosse in pratica impossibile laurearsi in medicina.
Il corpo di una giovinetta quindicenne, portato il giorno prima, era già oggetto dell’interesse anche licenzioso di un gruppo di studenti. Io me ne stavo da una parte con un cuore in un vaso di formalina a cercare di capirne la struttura contorta, in aperto conflitto con la mia scarsa capacità di concentrarmi almeno in quell’ambiente.
In quel periodo la notte facevo sogni spaventosi con corpi che si contorcevano nelle fiamme o con mani bianche che mi stringevano. Tra gli studenti universitari io (abituato alla vita più familiare del liceo) mi sentivo completamente estraneo e fuggivo via spesso perché mi sentivo addosso l’impressione spiacevole di essere di troppo. Del resto i miei diciassette anni erano d’una tristezza che raramente poi ho ritrovato di nuovo.
Non riuscivo a capire dov’era che gli altri giovani miei colleghi trovavano la loro sicurezza che spesso anche si trasformava in esuberanza.
Mi ritiravo per conto mio e al più presto mi allontanavo facendo lunghe passeggiate per la città da solo e tra sogni a occhi aperti puramente immaginari e impossibili a realizzarsi.
La morte (che vedevo nei corpi della sala anatomica) mi pareva a portata di mano, sul punto di verificarsi, e mi angosciava il vuoto d’esperienza che mi sentivo dentro.
Era la conoscenza intuitiva del distacco dalla vita reale in cui mi avevano educato.
Ero un giovinetto cerebrale con niente corpo, oppure con un corpo che mi pesava come un’appendice superflua.
Un rapporto col corpo soltanto al negativo era dovuto a una molteplicità di esperienze che andavano dal disprezzo culturale del corpo in genere, al disprezzo del proprio corpo visto come qualcosa di irrimediabilmente difettoso. E questo doppio concetto concavo era stato costruito colpo su colpo fin dall’infanzia. Naturalmente non era legato a nessun difetto reale: mia madre mi diceva sempre: – non vedi che sei magro come uno stecco!
A livello astratto la religione m’era sembrata inaccettabile e ridicola fino dai dodici anni quando ero un lettore ammirato del Dizionario filosofico di Voltaire e già da tempo avevo in antipatia l’autoritarismo o ipocrita o brutale dei preti che avevo conosciuto.
L’orgoglio dell’individualità e l’insofferenza alla sottomissione sono una delle mie esperienze interiori più antiche. Però pareva un paradosso questa congiunzione dell’individualismo più spinto con il sentirsi di troppo e in condizione d’inferiorità in ogni momento.
Non riuscivo a capire quali sarebbero stati gli effetti di questa strana mescolanza. A volte così pensavo che sarebbe stato meglio morire subito (visto che poi in realtà non sarebbe cambiato niente) e andavo a passare pomeriggi interi fino a sera davanti ai binari della stazione del Campo di Marte.
Ma era anche questa una fantasia irrealizzabile. Era un altro modo di sognare a occhi aperti, aiutato anche dalla mia passione per i treni che mi s’era sviluppata fin da bambino.
Il professore di anatomia era un ometto opaco che faceva lezioni pignole sugli strati del pelo e che nella sua giovinezza, si diceva, era stato molto fedele al fascismo.
Il custode della sala anatomica era un uomo grasso e grosso che preparava i pezzi di cadavere con l’accetta e si chiamava Dante.
L’istituto di via Alfani era un labirinto di stanze e di chiostri, che a me pareva uno di quei luoghi in cui si entra e poi non si trova più la via d’uscita come succede spesso in sogno.
Una volta lì io mi ero rifugiato in un sotterraneo per sfuggire ai cacciatori di matricole.
L’università degli anni ’50 a Firenze era una istituzione morta con studenti timorosi e conformisti che si preoccupavano di informarsi in anticipo delle domande che i professori avrebbero fatte agli esami legate all’ignoranza e ai pregiudizi che quegli individui nulli di cultura e privi di immaginazione si erano portati in cattedra.
I professori venivano tutti dalla cultura anteguerra basata esclusivamente sulla sottomissione alle autorità e sulla chiusura totale a ogni tipo di emancipazione sociale. Leggi l’articolo completo »

Pubblicato il 15 November, 2014
Categoria: Testi

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo