Giorgio Antonucci: le sue idee e il suo lavoro – Giuseppe Gozzini
Il libro: “I pregiudizi e la conoscenza. Critica alla psichiatria”
I libri che contengono grandi insegnamenti non si lasciano facilmente riassumere. Il libro di Antonucci è uno di questi. Proverò, tuttavia, a seguirne alcune tracce, a dare spunti di lettura senza alcuna pretesa di esaurirne la ricchezza dei contenuti.
La “psichiatria negata”
La tesi centrale del libro, difficile da digerire, è che la psichiatria non è una scienza: “Ritengo – scrive Antonucci – che a poco serva attaccare l’istituto del manicomio se non si porta un attacco radicale allo stesso giudizio psichiatrico che ne è alla base, mostrandone l’insussistenza scientifica. Finché non sarà abolito il giudizio psichiatrico, la realtà della segregazione continuerà a fiorire dentro e fuori le pareti dei manicomi.”
E’ un’affermazione dura, perentoria, che contraddistingue il lavoro di Antonucci da quella di altri riformatori. Dall’”istituzione negata” alla “psichiatria negata” il salto è enorme. La legge 180 del 1978 prevede, almeno formalmente, il superamento del manicomio ma, a distanza di 9 anni, ce ne sono ancora 60 in pieno funzionamento, mentre cultura e costume sono rimasti favorevoli all’internamento e alla segregazione. E così il potere medico-psichiatrico, che è nella sostanza un potere di controllo e di “normalizzazione repressiva”, continua, dopo la legge 180, in quello che rimane nei manicomi (che è ancora troppo), nelle case di cura, nel territorio, nei centri di igiene mentale (CIM) e negli ospedali civili.
Il problema, per Antonucci, non è di sostituire la vecchia psichiatria con una nuova psichiatria (magari ‘democratica’,‘alternativa’, ecc.), ma di cancellarla: “L’unione psichiatria-manicomio – secondo Antonucci – non è stata l’effetto dello stravolgimento di un potere politico rispetto ad un corpus teorico scientifico neutro, bensì tale unione è finora stata essenziale alla psichiatria, ha costituito, costruito questo corpus teorico come l’ideologia della razza è cresciuta insieme ai lager”.
Vent’anni di esperienza
La tesi di Antonucci nasce non dai libri ma dall’esperienza: “Il mio pensiero e il mio lavoro critici nei riguardi della psichiatria non hanno origini da convinzioni teoriche elaborate a tavolino, studiano testi e criticando articoli, ma sono essenzialmente risultato di anni di esperienza diretta con uomini e donne, in un modo o nell’altro implicati in trattamenti psichiatrici”.
Il libro ripercorre a ritroso questi anni di esperienza: dall’Istituto psichiatrico “Osservanza” di Imola, dove attualmente lavora Antonucci, al S.Lazzaro di Reggio Emilia, all’ospedale psichiatrico di Gorizia e a Cividale del Friuli. E’ un viaggio molto istruttivo anche (forse soprattutto) per i non ‘addetti ai lavori’, intervallato da:
-analisi delle case-histories di ieri e di oggi (l’Anticristo, il caso Sabattini, Van Gogh, Teresa B., I miei capelli arruffati, lettera da un istituto psichiatrico);
-riflessioni storiche (le streghe, l’origine dei manicomi, razzismo e psichiatria sempre insieme);
-considerazioni sull’uso della psichiatria per le persecuzioni sia all’Est come all’Ovest, sui rapporti fra biologia, genetica e psichiatria, sull’arbitrarietà dei concetti di saggio e folle, normale e anormale, sano o malato di mente;
-utili e puntuali riferimenti letterari: Shakespeare, Dostoevskij, Cechov (Reparto n.6), Ernest Toller (Oplà, noi viviamo), Nietzsche, Gogol’.
Le citazioni molto precise e le critiche documentate ai teorici e ai sostenitori della psichiatria sono il modo scelto da Antonucci per ritrovare un filo conduttore tra passato e presente, per inserire in un quadro generale la sua esperienza, che parte non da posizioni teoriche precostituite ma dall’analisi rigorosa della realtà: la sua negazione della psichiatria è fondata su 200 certezze, tanti quanti sono i suoi attuali pazienti di Imola “liberati”.
Le cartelle cliniche
Contro la psichiatria c’è un’altra “prova documentale”, impressionante e inconfutabile nella sua nuda eloquenza: sono le cartelle cliniche riferite a persone, che attualmente vivono nei reparti “aperti” degli ospedali psichiatrici “L’Osservanza” e “Lolli” di Imola, affidati ad Antonucci.
Sono documenti che si commentano da soli e dimostrano nei fatti la funzione repressiva della psichiatria. Dietro le più assurde e immotivate diagnosi c’è sempre una storia fatta di emarginazione e di sfruttamento sociale e culturale, di drammi familiari ed affettivi. La malattia di mente o malattia mentale non va confusa con le malattie del cervello di pertinenza della neurologia. Ma la cura delle malattie reali, che hanno una spiegazione fisiologica, comincia appunto quando finisce la psichiatria, quando si supera il pregiudizio della malattia mentale.
Non è un caso che in apertura della maggior parte delle cartelle cliniche leggiamo: Condizione sociale: povero. Cultura: analfabeta. Professione: bracciante, disoccupato, casalinga. Gli emarginati in manicomio sono vittime proletarie della discriminazione e della violenza della società, sono “detenuti innocenti” che attendono una liberazione.
Le poesie
Fanno da contrappunto alle cartelle cliniche alcuni testi poetici di Antonucci, che . Il ricorso alla poesia, per Antonucci, è un “urlare dai tetti”, un modo per riacquistare il diritto di parola, per trovare un varco linguistico, uno spiraglio di libertà nell’universo manicomiale. E’ il caso qui di ricordare l’intervento di Ernesto Balducci al Festival dell’Unità di Firenze dell’’85 a proposito di “poesia della liberazione”: ‘Più l’uomo geme sotto il peso di una cultura che non è la sua, più si sente colonizzato dalla cultura imposta e più sente il bisogno della parola che liberi, sente dentro di sé il fremito delle ali della poesia che vorrebbero aprirsi..’. (cfr. “Collettivo R” n. 39, pp 46-49).
Saggi, testimonianze, interviste
Pubblicato il 2 April, 2018
Categoria: Notizie
Libertà vo’ cercando. Quando si dice no – Giuseppe Gozzini
Non me ne vorrà Gherardo Colombo se, per riflettere sul suo articolo, comincio dalla parabola evangelica del giovane ricco. Un tale si avvicina a Gesù, gli si inginocchia davanti e gli chiede: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna”. Gli risponde Gesù: “Osserva i comandamenti”. “Ma questo lo faccio fin dalla giovinezza!”. Allora Gesù gli dice: “Ti manca una cosa sola: vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e vieni e seguimi”. Ma il giovane se ne andò contristato perché aveva molti beni.
Siamo di fronte a un bravo giovane, contento di fare il proprio dovere, a posto con la sua coscienza. Si aspettava una benedizione di incoraggiamento – “continua così che vai bene” – e invece quello che gli propone Gesù è un capovolgimento di vita, a cominciare delle ricchezze da dare ai poveri. In sostanza gli dice: “Sei cresciuto nell’osservanza dei comandamenti, ma sei prigioniero delle tue sicurezze, non ti manca nulla salvo una cosa: la libertà. E allora pianta lì tutto e vieni e seguimi”.
Non ho trovato niente che meglio esprima il confine fra le antinomie volere e dovere, libertà e obbligo, scelta e obbedienza. Ciò che più interessa a Colombo è riflettere sulla percezione soggettiva di tale confine. In altre parole: due persone hanno lo stesso comportamento, ma l’una per dovere, l’ altra perché lo ha scelto; l’una per obbedire, l’altra perché ne è profondamente convinta. Il confine fra i due modi di dire “sì” è sottile ma tutt’altro che irrilevante.
Pubblicato il 17 May, 2010
Categoria: Presentazione, Testi