I GIOVANI PRIME VITTIME DELLA PSICHIATRIA – di Piero Colacicchi – il Giorno della Memoria

Inviato a Elisabetta Armiato da Piero Colacicchi:
 


Io credo ( o, piuttosto: spero) che in un tempo futuro, ma forse non troppo lontano da oggi, verrà istituito il Giorno Mondiale della Memoria in commemorazione delle vittime della Psichiatria e, se ciò dovesse davvero accadere, la data giusta sarebbe il 23 di novembre.

Il Giorno della Memoria in commemorazione delle vittime dell’Olocausto è stata indetta in ricordo del 27 gennaio 1945 quando le truppe russe entrarono ad Auschwitz e il mondo fu messo di fronte alle conseguenze del pensiero razzista. Il 23 novembre del 1971 avvenne la prima delle ‘Calate’, cioè la prima delle cinque visite popolari spontanee di controllo all’Ospedale Psichiatrico Statale San Lazzaro di Reggio Emilia. La visita era nata in seguito al lavoro svolto dal Dott. Giorgio Antonucci durante l’anno precedente nella provincia di Reggio per tenere in libertà coloro che erano in pericolo di ricovero obbligato in quell’ospedale. Parteciparono una sessantina di persone venute dai paesi della montagna reggiana ed alcune, io compreso, chiamate da Antonucci da altre città. Questa fu, per quanto ne so, la prima volta nella storia che un gruppo numeroso di cittadini sia entrato insieme, improvvisamente e senza preavviso, in un’istituzione chiusa come un ospedale psichiatrico con la dichiarata intenzione di vedere quello che veramente succedeva. Tutti i giornali locali ed alcuni tra quelli nazionali ne discussero per mesi. Ne parlarono anche all’estero. Ed è appunto perciò che il 23 novembre sarebbe la data giusta per ricordare gli orrori di cui è responsabile la psichiatria: la svalutazione totale e definitiva del pensiero di migliaia di persone e la lenta e metodica distruzione dei corpi.
Un resoconto di quella visita lo feci già anni fa nel capitolo che Antonucci mi chiese di scrivere per il suo libro “Critica al Giudizio Psichiatrico” edito da Sensibile alle Foglie nel 1993 (1), ma voglio qui riprendere la parte che descrive il momento in cui entrammo nel reparto ‘De Sanctis’, cioè nel reparto in cui erano rinchiusi le persone più giovani, tra cui anche bambini.
Eravamo passati da vari reparti per adulti, alcuni dei quali erano lì da venti, trenta e più anni, trovandoci di fronte a scene terribili come stanze con donne mezze nude legate ai letti e perfino alle inferriate delle finestre e uomini, coperti dei loro escrementi, messi in tutta fretta sotto violenti spruzzi d’acqua appena si era sparsa la voce che noi giravamo l’ospedale, ed avevamo i nervi a fior di pelle, ma non immagginavamo di poterci trovare di fronte a scene ancora più sconvolgenti.

Nel capitolo “Le calate di Reggio Emilia” del libro scrivevo:
Alla fine della mattinata ci dirigemmo verso l’edificio più lontano ed isolato, il reparto De Sanctis, dove vivevano rinchiusi i bambini.
Prima di entrare dovemmo sostenere un’animata discussione con le infermiere ed entrammo solo quando si furono assicurate che avevamo il consenso del direttore < consenso alla visita dell’Ospedale che era stato concesso di malavoglia, dopo molti tentativi di mandarci via con le buone, e soltanto perchè richiesto in modo sempre più pressante da gente determinata e convinta che il diniego nascondesse cose che nessuno doveva vedere >. Ancora un grande stanzone con panche lungo le pareti vuote, ma questa volte vedemmo ragazzi e bambini, alcuni dell’età di cinque o sei anni, di cui alcuni legati che piangevano e chiedevano di essere liberati. Ordinammo alle infermiere di scioglierli, ma loro si rifiutarono. Rimanemmo lì un pò di tempo e cercammo di parlare con i bambini, ma fu difficile, specialmente per l’atteggiamento chiuso e minaccioso delle infermiere che si intromettevano protestando ogni volta che si provava ad avvicinarsi.
Dopo un pò, mentre giravo per un corridoio, sentii qualcuno piangere disperatamente, ma non vidi nessuno. Mi sembrò che i lamenti provenissero da dietro una piccola porta metallica.

Pubblicato il 17 January, 2019
Categoria: Notizie, Video

Psichiatria e politica. Una notizia da Imola – Piero Colacicchi

Estratto dal <IL PONTE>
N. 11 – Novembre 1973





Ho cercato la mia libertà
nella libertà di tutti
( Bartolomeo Vanzetti)


Il primo maggio il prof. Edelweiss Cotti diviene direttore incaricato dell’Istituto psichiatrico di Imola dove vengono ricoverati cittadini delle province di Ravenna e Forlì. I ricoverati sono più di 1200. L’istituzione ha tutti i caratteri tipici della violenza psichiatrica e manicomiale.
Cotti uno dei protagonisti della lotta di Cividale del Friuli (1) inizia una decisa ed efficace politica di dimissioni. In agosto viene assunto Giorgio Antonucci, un altro dei medici di Cividale e l’organizzatore delle visite popolari al Manicomio S. Lazzaro di Reggio Emilia (2).
Antonucci, d’accordo con Cotti, decide di iniziare il suo lavoro nel reparto 14 donne  “delle agitate”: è ritenuto dai medici dell’istituto il reparto più difficile e più pericoloso, con persone “irrecuperabili”. Il reparto si può definire senza esitazione un modello di ferocia psichiatrica. Le 41 detenute sono paralizzate da quantità grandissime di psicofarmaci di ogni tipo. Sono in gran numero legate ai letti con cinture di contenzione. Le porte sono tutte chiuse. Il personale passa il suo tempo esclusivamente in opera di sorveglianza. Comunque si vogliano considerare queste persone, ci sembra di poter dire che neanche i leoni sono mai stati trattati in questo modo.
Dopo venti giorni dall’arrivo di Antonucci gli psicofarmaci sono stati eliminati quasi del tutto, le donne legate ai letti sono state liberate e i mezzi di contenzione tolti dal reparto. Aperte finalmente le porte, oggi le pazienti sono libere di muoversi nel parco dell’ospedale che non ha mura di recinzione. Il medico e gli infermieri del corrispondente reparto uomini detto “degli agitati” decidono di seguire l’esempio di Antonucci.
L’Istituto psichiatrico , dal momento che sono stati aperti i reparti ritenuti finora i peggiori, sotto la nuova direzione di Cotti è in piena trasformazione.

Piero Colacicchi

1) Cfr. Roberto Vigevani, Assalto a Cividale, <Il Ponte>  n.9 , settembre 1968.
2) Cfr. G. Antonucci e P. Colacicchi, in <Il Ponte>, n.11, novembre 1970; Comitato popolare di Ramiseto, ib., n. 5-6, 1971: P. Colacicchi e A. Rosselli, ib., n.10, ottobre 1971

Foto: Massimo Golfieri

Pubblicato il 30 January, 2016
Categoria: Testi

Paola Cooper, 16 anni, aspettava l’esecuzione della condanna a morte. – Piero Colacicchi

di:  Piero Colacicchi

Tra i tanti oggetti che inzeppano la mia stanza c’è un piccolo cucchiaio di legno il cui manico è malamente attaccato al fondo, il cui fondo stesso è spaccato in due, è mal incollato ed è mancante della parte davanti: malgrado ciò mi è particolarmente caro perché mi ricorda un episodio importante della mia collaborazione con Giorgio Antonucci. Il cucchiaio è intagliato a mano in legno di “òcchiule”, (come lo chiamano in Basilicata ) un legno duro, compatto e piuttosto pesante. Potrebbe esser stato fatto in Aspromonte o a Senise, in Basilicata, dai pastori. In realtà so soltanto che proviene dalla Calabria.

Mi fu regalato da Noris Antonucci parecchi anni fa con un commento scherzoso: ” Tienilo te: tanto, tra tutte la roba che hai, una cosa in più non ti fa differenza. Io non lo voglio, ma non voglio neppure buttarlo via. Sai, apparteneva ad una zia a cui ero molto affezionata, quella che per le feste mi mandava sempre i salamini piccanti e le altre golosità calabresi che anche a te piacevano tanto.”  Lo accettai sorridendo. Noris mi prende sempre in giro per tutte le cose che tengo in casa, lei che invece non sopporta di aver roba tra i piedi e che – scherzo io – uno di questi giorni butterà nella spazzatura anche il marito!
In quel periodo  passavo  più spesso del solito da casa di Giorgio e di Noris, e mi fermavo anche a mangiare. Eravamo, come ai vecchi tempi, continuamente in contatto perché seguivamo una questione importante in cui c’eravamo imbarcati e che ci  teneva con i nervi tesi.

Era cominciata così. Una mattina – per l’esattezza sabato 13 dicembre del 1986, verso le undici –  me ne stavo a casa mia a ciondolare in pigiama quando Giorgio Antonucci mi telefonò e mi lesse una lettera appena pubblicata su La Nazione, a firma di Maria Luigia Guaita. Non conoscevo personalmente la Guaita, ma  ne avevo molto sentito parlare, anche in casa. Era stata partigiana, aveva partecipato a varie attività (durante le quali aveva conosciuto anche i miei genitori), era stata amica di Enzo Enriquez Agnoletti (l’ex vice sindaco e direttore della rivista Il Ponte su cui anche noi scrivevamo ) e ora dirigeva una scuola d’incisione molto nota a Firenze, il Bisonte.
La lettera della Guaita, pubblicata col titolo “Per non far morire Paula” nella rubrica ” Parliamone insieme” tenuta da Laura Griffo, diceva: <<  In questi giorni che sanno già di Natale [ …] vorrei richiamare il ricordo della gente buona, ma forse distratta, su Paula Cooper. E’ una ragazzina nera che oggi ha sedici anni  e che, in una cella della morte del carcere di Indianapolis, sta aspettando di salire sulla sedia elettrica. Ha commesso un delitto orribile: riconosciuta mentre tentava un furto nell’abitazione della insegnante di catechismo, Ruth Pelke, l’ha assassinata con un coltello. L’opinione pubblica locale, emozionata e indignata, ha plaudito la pena di morte a cui è stata condannata. […] Figlia di alcoolizzati, violentata la prima volta dal padre davanti alla madre indifferente, cresciuta in un clima di violenza e di abiezione […] è fuggita più volte dall’inferno della famiglia e puntualmente restituita a casa dalla solerte polizia locale […] Dopo qualche negativa esperienza in orfanotrofio[…]  quando la madre e il padre si allontanano, […] resta affidata alle cure della sorella, maggiore di lei di soli tre anni.
< [ …] A pregare per lei oggi c’è solo la sorellina disperata. A battersi per lei solo l’avvocato difensore, che spera nella grazia. Che potrà essere ottenuta solo se l’opinione pubblica europea si organizzerà in ” movimento per la vita di Paula ” e chiederà per lei il perdono del popolo americano.[…] A te, Laura, chiedo di sollecitare una raccolta di firme a favore di un mutamento di pena e umana solidarietà verso questa ragazzina disperata e sola davanti alla morte che ormai si è già insediata, quasi entità palpabile in attesa paziente, nella sua cella .[ …] Si può scrivere al governatore Robert Orr, State house, Indianapolis 46204 USA. >>
Commentava Laura Griffo: << Raccolgo l’appello di Maria Luigia Guaita  con emozione.[..] A Firenze, nel 1786,il Granduca Pietro Leopoldo, sovrano illuminato, abolì la pena di morte ritenendola iniqua. Giusto, quindi, che da Firenze parta una iniziativa di solidarietà con Paula Cooper, che ha solo sedici anni e che dovrà morire fra poche settimane[…] Invitiamo Firenze a scriverci per intervenire in nome della sua tradizione civile: gli amministratori […] gli studenti […] e anche gli altri; il movimento per la vita […] i radicali[…]; chiunque voglia, per Natale, in uno slancio di altruismo, farsi il regalo della vita di Paula>>.
Giorgio, al telefono, mi proponeva di scrivere anche noi una lettera al governatore Orr. Dissi che era una buona idea e che bisognava studiare bene il testo. Decidemmo che ci saremmo risentiti più tardi, in giornata.
Riattaccata la cornetta mi misi a pensare alla questione: che glie ne interessava al governatore Orr se gli arrivavano alcune lettere dall’Italia? Niente! Tempo sprecato, o quasi. Meglio provare a pensare a qualcosa di più forte. Ma che cosa?

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Pubblicato il 25 May, 2011
Categoria: Testi, Testimonianze

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo