La psichiatria non spiega nulla – Intervista a Giorgio Antonucci – ZeroInCondotta
Intervista a Giorgio Antonucci
Giorgio Antonucci, medico, per decenni impegnato allo smantellamento delle strutture manicomiali, e a lungo responsabile del Reparto Autogestito negli Istituti di Imola in una delle sue ultime pubblicazioni (Pensieri sul suicidio, Milano 1996, Elèuthera) chiarisce in modo esemplare alcuni concetti utili a capire cos’è il disagio mentale.
“Il cocetto di pazzo, e in seguito il suo equivalente pseudoscientifico, il concetto di malato di mente della dottrina psichiatrica, sono usati per impedire agli uomini di affrontare direttamente le scelte difficili e inquietanti che mettono in discussione le regole di costume…Le scelte non accettate sono considerate come una suppurazione.. e gli uomini che vi sono implicati sono oggetto di ferocia smisurata. Le scelte non ammesse sono attribuite a difetti di struttura o a errori genetici… Così quando uno non agisce o non pensa secondo gli schemi prescritti, viene requisito con la forza e costretto a dimorare nelle officine specializzate da cui dovrebbe tornare meccanicamente modificato e tutto rinnovato dall’azione redentrice della clinica degli psicofarmaci, della fisica degli elettroschock o del bisturi del chirurgo.”
Lo stesso volume espone “pensieri sul suicidio” percorrendone vari aspetti che attraverso il pensiero di Pitagora, Pirrone di Elide, Zenone e Epicuro, Filolao e Protagora, da Eraclito a Leonardo nonché Goethe, Mozart, Kraus, ed altri ancora. Penetrare nei perché del suicidio è cosa ardua, piena di risposte, ma tra queste qual è quella giusta? E poi perché si può uccidere?
“Se il suicidio fosse dovuto alla malattia di mente o alla incapacità di intendere e di volere, non sarebbe suicidio ma incidente… Ancora una volta la psichiatria non spiega nulla. Il problema di dare o di darsi la morte varia nei tempi e nelle culture.”
Antonucci fornisce ad ogni riga forti stimoli alla riflesione e nuovi elementi di conoscenza così come le sue semplici parle che spiegano l’inefficacia dell’atteggiamento medico degli psichiatri.
In riferimento ai due fatti di cronaca verificatesi a Bologna, pur non entrando nello specifico in quanto non informato a dovere, dice:
“Episodi come questi si sono sempre verificati, ora, come quando c’erano i manicomi, anzi allora se ne verificavano di più. I ricoveri non evitano queste tragedie, i manicomi nemmeno, chi chiede aiuto ha bisogno di risposte, non di farmaci e tanto meno di subire l’umiliazione di un ricovero. Ha bisogno invece di una intesa partecipazione da parte di chi lo segue. Nelle situazoni difficili quello che serve è essere disponibile, attento, tenere presente che il disagio della persona è fatta dalla sua storia, che è da conoscere e capire, dalla sua situazione attuale, ma soprattutto la sua disperazione presente è dovuta al proprio futuro. Per questo la legge da sola non basta, bisogna invece cambiare la cultura psichiatrica, a partire dall’Università, non bisogna insegnare le etichette e l’uso dei farmaci, l’elettroschock, ma bisogna insegnare ad affrontare chi ha dei problemi, a capire a fondo gli esseri umani quando sono in crisi, mettere in pratica quanto diceva Freud, smettere di fare il medico, che è colui che cura le malattie fisiche, e agire in profondità psicologica per capire gli altri. Grandi miei maestri in questo senso sono stati Oliver Sacks e Thomas Szasz. Le contraddizioni della vita umana affrontate con una comunicazione intelligente. La nostra società cambia molto in fretta, bisogna trovare sempre nuovi modi per intervenire, le persone sono tutte diverse e i loro disagi sono diversi, è necessario una profonda conoscenza della cultura che non è quella dello psichiatra”
Stefania De Salvador – ZeroInCondotta-quindicinale n°45 , 1997