LA PAURA DEL DIVERSO – Psichiatria e razzismo
Renato Curcio intervista Giorgio Antonucci
Questa intervista è stata raccolta per il volume “Contrappunti” di Giorgio Antonucci, pubblicato dalla Cooperativa Editoriale “Sensibili alle foglie”.
Vi sono singolari e insidiose analogie tra il giudizio psichiatrico sulle presunte patologie della mente e la paura del diverso che è alla radice dei più nascosti razzismi contemporanei. Ma come criticare queste realtà usando lo strumento di per sé “autoritario” che è la lingua?
Come fondere in un nuovo crogiolo liberante i linguaggi muti e quelli parlati, quelli del corpo e quelli dell’immagine?
Renato Curcio ne ha discusso con Giorgio Antonucci, uno dei più lucidi anti-psichiatri italiani.
Renato Curcio: Sempre più in questi anni e in questo periodo si leggono sui giornali episodi relativi al rapporto fra cittadini italiani e quelli di altri paesi del mondo, cittadini che vengono chiamati con vari nomi: emigranti, extracomunitari, vù cumprà. La relazione così difficile, che spesso diventa violenta, tra cittadini italiani e cittadini di altri paesi del mondo, quali anteceddenti ha nel pensiero psichiatrico?
Giorgio Antonucci : Forse è più giusto dire che il pensiero razzista e il pensiero psichiatrico hanno radici comuni. Il vero e proprio pensiero psichiatrico comincia a formarsi nel Seicento e poi si accresce e si rafforza durante e dopo l’Illuminismo, e cerca una veste scientifica specialmente con i positivisti. Comunque bisogna dire subito, per non cadere in equivoci, che la dottrina psichiatrica nasce esclusivamente da giudizi sul comportamento, come risulta anche dalla lettura di qualunque testo specialistico.
Renato Curcio: Come gli psichiatri?
Giorgio Antonucci: parliamo un po’ di esperienze dirette. Nel 1970- 71- 72 io lavoravo nel Centro di Igiene Mentale di Reggio Emilia e negli ultimi due anni dirigevo il Centro Territoriale della montagna reggiana. Così mi sono trovato davanti ai problemi dell’emigrazione.
Molte persone emigravano dal territorio della montagna reggiana, che è economicamente sottosviluppato, nelle grandi città vicine, come Genova, Milano, Torino e Bologna, oltre che nella stessa Reggio.
Spesso disorientate dalla vita differente, ostacolate dalle difficoltà pratiche, e indifese per la posizione sociale debole, giungevano all’internamento in manicomio. Questo poteva succedere anche dopo il ritorno nella terra, nei paesi e nelle famiglie d’origine.
Ma vi sono anche altre situazioni, più grottesche.
Quando lavoravo a Cividale, sono andato in visita al manicomio di Udine, dove ho sentito il racconto di storie della prima guerra mondiale. Molti a quel tempo, furono prelevati dal manicomio come soldati di guerra, arruolati per la patria, e dopo l’esperienza del fronte e della trincea, o per la tragica solitudine dei reduci in un’epoca di crisi economica e di disoccupati. È da notare che gli internati tornarono in manicomio, quando fa comodo, vengono rilasciati e utilizzati, sia pure come carne da macello, ma in ogni caso inseriti insieme agli altri che non hanno avuto internamenti.
Ugualmente negli Stati Uniti durante e dopo la guerra del Vietnam sono avvenuti moltissimi internamenti psichiatrici di reduci che stentavano a riadattarsi alla vita civile oppure che si ribellavano alle regole. Alcuni sono finiti negli istituti giudiziari perché pensavano che avrebbero potuto uccidere per motivi personali dopo che lo avevano fatto senza scopo proprio per lo Stato contro individui di un popolo lontano e sconosciuto.
Qui si ritrova il problema della doppia morale che noi insegniamo ai bambini che uccidere o far violenza non vale a livello personale, ma può essere obbligatorio per motivi di Stato.
Anche Machiavelli nota che quello che è vizio nella vita privata diventa virtù nel commercio, per esempio, o negli affari politici e nella vita militare, quando intervengono gli interessi di Stato e i conflitti di potere.
Noi viviamo dopo la bomba atomica e dopo Eichmann. Quando Eichmann fu arrestato, dopo molti anni di ricerche, al processo in Israele i periti psichiatrici consultati lo dichiararono sano di mente e capace di intendere e di volere e i giudici gli inflissero la condanna a morte per i delitti compiuti come funzionario del governo tedesco. Dunque anche un genocidio è saggio se è al servizio dello Stato.
Diversa è la storia del maggiore dell’aviazione militare americana Claude Eatherly, comandante dello “Stright Flush”, l’aereo meteorologico che aveva guidato il bombardiere di Hiroshima. Eatherly non accettò mai di essere divenuto strumento involontario e inconsapevole di un macello senza precedenti. Ma alle sue proteste e alle sue provocazioni fu risposto con le cliniche psichiatriche, nonostante l’interessamento di grandi personaggi della cultura internazionale come Bertrand Russel e Thomas Szasz, e nonostante il suo dialogo epistolare con il filosofo tedesco Gunther Anders, interessato ai problemi che la vicenda suscitava.
È chiaro che la psichiatria è sottomissione ai costumi e fa continuamente da sentinella.
Renato Curcio: Se la differenza fa paura, come abbiamo in qualche modo già visto, l’ “altro” è una costruzione di questa paura?
Giorgio Antonucci: La paura e la differnza fanno dell’altro una maschera o addirittura un mostro, come se i mali si raccogliessero tutti dentro di lui o in quelli del suo popolo. Vedi cosa succede con l’antisemitismo.
Renato Curcio: Allora possiamo dire che la paura dell’altro è la paura di una parte di sé?
Giorgio Antonucci: Questa è un’osservazione essenziale. Torniamo subito alla tradizione psicologica e alla tradizione psichiatrica e vediamo cosa succede. Il moralista, la persona perbene, il conformista, il borghese, hanno paura prima di tutto di se stessi, della propria complessità e ricchezza interiore, delle possibilità che fanno continuamente capolino da ogni parte. Lo strano caso del Dr. Jekill e di Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson esprime questo dramma sul conflitto tra la morale e quella che Dostoevskij chiama “la vastità interiore dell’uomo”.
Si deve dire: queste cose, anche sconvenienti, anche terribili succedono, ma io sono un altro, io non c’entro niente.
Freud questo fatto lo chiama “rimozione” e “inconscio”, Sartre lo chiama “malafede”. Se poi si legge Krafkt-Ebbing, autore di una famosissima Psicopatologia sessuale, non c’è nulla della attività sessuali e amorose che non sia, come lui dice, “perversione”.
Per esempio, perfino i guardoni sarebbero casi di patologia, concetto che è stato ripreso anche nella Firenze di questi anni in rapporto alle indagini sul famoso omicida delle coppie, di cui in questi giorni si celebra il processo.
È addirittura ridicolo pensare che la naturale curiosità di vedere lo spettacolo degli amanti sia un fenomeno patologico e un problema da psichiatri. Ma gli psichiatri hanno bisogno di ridurre tutti a potenziali clienti, riservandosi il diritto di intervenire in ogni caso, quando sia loro richiesto per problemi di potere, di interesse o di ordine pubblico.
Di recente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che l’omosessualità non è una malattia di mente, così ora i costumi sono, almeno in parte, cambiati e si tenta di cambiare anche i giudizi psichiatrici.
Ma non è molto che si sottoponevano gli omosessuali a elettrochoc e ad altri trattamenti traumatici o costrittivi.
C’è da dire che già Freud e alcuni suoi contemporanei avevano capito che per la sessualità siamo tutti potenzialmente disponibili a ogni esperienza e le differenze pratiche ed esteriori derivano dalle abitudini, dalle usanze, dalle scelte e dalle morali, che variano nel tempo e nello spazio e che cambiano da individuo a individuo.
Dunque per la psichiatria tutto quello che non è strettamente convenzionale sarebbe un difetto del cervello. Ed ecco che le allucinazioni o le illusioni che fanno parte della nostra naturale creatività, ed appaiono quando sono utili, vengono prese a pretesto di internamento, mentre in altre culture, ad esempio in quelle sciamaniche, sono motivo di sacralità, di potere religioso e morale, di ascendente spirituale sugli uomini desiderosi di trascendenza.
Si trascura che il nostro cervello è percezione e fantasia e immaginazione e creatività e possibilità di vedere e di pensare quello che c’è e quello che non c’è, altrimenti la nostra specie sarebbe già scomparsa, o comunque non sarebbe così interessante e singolare e unica e capace di costruire mondi e imporre novità e di aver uomini come Leonardo, come Masaccio o come Mozart.
Renato Curcio: Alla radice del razzismo c’è dunque un blocco delle potenzialità della specie, delle possibilità umane?
Giorgio Antonucci: Infatti la vera ricchezza della specie, sia a livello interiore e psicologico, sia a livello sociale e culturale, è l’accogliere e coltivare tutte le ricchezze.
Ci dovremmo sentire come il mare che ci ha generati e che si compiace continuamente della sua ricchezza. Le sue onde si congiungono col sole. La nostra specie è vasta più di tutte le altre ed è l’unica che guarda verso l’alto e conosce l’andamento delle stelle. Questa è la specie nella sua struttura effettiva, sia nel male che nel bene, sia nella gioia che nel dolore, sia nel vivere che nel morire. D’altro lato è difficile che un’artista si sottragga al giudizio negativo dello psichiatra. Per i musicisti c’è una pubblicazione recente dello storico della medicina John O’Shea da cui risultano tutte le diagnosi psichiatriche arbitrariamente applicate ai compositori di diverse epoche, in modo veramente diligente e sistematico.
Io, per esempio, ho avuto molte occasioni di occuparmi delle vicende singolari della vita di Robert Schumann, un musicista che amo e che ascolto con passione. Schumann ad un certo punto aveva disturbi dell’udito. Era capitato anche a Beethoven, sia pure per motivi diversi. Allora Beethoven aveva scritto il Testamento di Heiligenstadt con propositi di suicidio. Schumann, che forse aveva un tumore cerebrale, tentò di uccidersi buttandosi nel Reno. Ma fu salvato e rinchiuso in clinica psichiatrica, dove fu isolato e ucciso.
Il vecchio Rossini, tormentato nella vecchiaia dai disturbi della prostata e dalla probabile diminuzione di potere creativo fu giudicato depresso.
Di Mozart si diceva fosse malato di mente perché temeva la solitudine degli ultimi mesi e perché presagiva la morte incombente. Figurarsi Paganini, che era addirittura un demonio e Chopin, un solitario di carattere difficile, sicuramente nevrotico. Chopin poi era malato di tubercolosi polmonare e i medici del tempo ritenevano che i tubercolotici fossero anche nevrastenici o in ogni modo psicologicamente sospetti.
La vasta storia dei pregiudizi psicologici dev’essere ancora studiata in tutta la sua micidiale estensione, come l’ideologia inquisitoria dei secoli più recenti. Beethoven era un personaggio di straordinaria potenza creativa, certamente non solo della musica. Di lui si diceva che fosse seminfermo di mente, con un concetto meccanicistico e assurdo, perché era antimilitarista e la sera nelle birrerie a volte leticava con i militari in divisa.
Campana, Van Gogh, Ligabue sono morti in manicomio. Antonin Artaud, a cui lo psichiatra voleva insegnare a scrivere le poesie, invidiava Van Gogh perché almeno non aveva conosciuto l’orrore dell’elettrochoc. Ma lo stesso Van Gogh aveva assimilato il giudizio degli psichiatri e si era ucciso convinto di essere senza futuro.
Ma da L’uomo di genio di Cesare Lombroso, alla famosa Storia della pazzia del giurista Bruno Cassinelli, fino alle dichiarazioni di Giovanni Battista Cassano e perfino nelle psicologiche di Sigmund Freud su Michelangelo e Leonardo, gli artisti nella loro distanza da ogni norma e convenzione psicologica sono considerati sotto le categorie arbitrarie della psicopatologia, cavallo di battaglia di psichiatri e giuristi.
L’artista impone mondi vasti e inafferrabili e inquieta le persone non creative che tentano inutilmente di omologarlo con tutti i mezzi di cui dispongono e di cui si servono per acquietare la coscienza nella loro sospettosa nullità quotidiana.
Renato Curcio: L’incontro tra differenze, quindi chiede un pensiero creativo; ma un pensiero creativo nasce, e chiede a sua volta, delle parole? Queste parole, oggi quali sono?
Giorgio Antonucci: Ora la ricerca di parole e linguaggi creativi è divenuta più elaborata e difficile; spesso il linguaggio è organizzato in schemi precostituiti, che sono affidati ai mezzi di comunicazione collettiva. Difficile ritrovare il linguaggio singolo, quello vivo e genuino della poesia o dell’espressione personale e interiore, spesso si finisce nel linguaggio standard, forse ancora una volta per paura di essere diversi.
È il timore della morte dell’arte di cui parlano Adorno e gli altri maestri della scuola di Francoforte. Queste per le parole come per la musica e per le arti figurative.
La televisione avrebbe potuto essere uno stimolo e invece risulta un livellamento. Si finisce per esprimersi tutti allo stesso modo come spot pubblicitari, o come retoriche cronache sportive o con un vuoto di parole come i politici preoccupati di risultati immediati e ormai lontani da ogni contenuto di pensiero reale.
Renato Curcio: Quello che mi pare interessante mettere a fuoco a questo punto della discussione è la difficoltà che si ritrova nell’incontro con le differenze, poiché il linguaggio usuale è espressione di quella cultura che ha in odio i diversi. Così non elabora e non porta a quest’incontro parole soddisfacenti.
Allora è utile o necessario superare questo linguaggio, non solo quello psichiatrico, ma tutto il linguaggio che si parla per una nuova fase creativa. È necessario superare il linguaggio dei media.
Giorgio Antonucci: E’ vero ma c’è anche di più. Ci sono i discorsi generici e le astrazioni sommarie che divengono pratica politica e persecuzione sociale. Allora si dice “gli italiani”, “i toscani”, “i lombardi”, “i tedeschi”, “gli americani”, “gli ebrei” con concetti generici vuoti di contenuto, ma spesso ricchi di pregiudizi e di conseguenze. Così sul concetto vuoto di “ebreo”, che non vuol dire nulla, si è costruito l’olocausto e sul concetto di “meridionale” si prova magari a disunire l’Italia, ancora per scopi precisi di potere e di controllo legati a pregiudizi razzisti.
E si ignora la ricchezza degli individui che sfuggono a ogni tentativo di definizione comprensiva e si beffano di ogni burocrazia e parlano la lingua dell’invenzione.
Il singolo non è un numero da computer, né un materiale da sfruttamento, né un oggetto di consumo, né una macchina parlante, né uno strumento da addestrare. Non è uno strumento dello Stato, come per Hegel o per Gentile, ma un protagonista singolare di libertà e di scelta e di scommessa come per Pascal o per Kierkegard o per Sarte.
Renato Curcio: Ronald Barthes diceva che la lingua è di per sé autoritaria. Si può dire che il linguaggio è un deposito di filosofie, come quella illuminista o quella positivista o altre, ed è pertanto un deposito di pregiudizi. E allora noi abbiamo un problema di critica del linguaggio per arrivare ad impostare incontri con la differenza che siano creativi, che accedano al terreno della creatività. Perché solo in questo salto di esperienza e in questa costruzione di linguaggio ci può essere un’avventura che, diciamo così, parli le esperienze che si fanno in maniera diversa.
Giorgio Antonucci: Ma forse nella lingua vi sono molti aspetti strettamente intrecciati e uniti tra loro. E’ più preciso dire che in ogni momento vi sono molte lingue. Già nell’antichità c’era la lingua dei burocrati, quella dei popoli, quella dei poeti. In Palestina c’era il linguaggio dei Farisei, quello dei Romani, ma anche quello di Gesù e degli Apostoli e delle folle che li seguivano.
Nel Medioevo c’era il linguaggio dei signori feudali, ma anche quello dei contadini, e poi quello degli eremiti, quello dei poeti di corte, quello dei “trovatori”, quello dei monaci, per non parlare delle differenze di terra in terra. C’è la lingua degli editti imperiali e delle bolle papali, ma anche Il Cantico delle creature.
E poi tutti i linguaggi parlati che non lasciano un ricordo scritto. Ci sono Dante e Cecco Angiolieri.
Voglio dire che anche ora c’è un pozzo, sia pure per costruire nuovi significati e aprire nuove vie di comprensione.
Renato Curcio: Che importanza hanno allora in questo contesto di discorso i linguaggi non verbali?
Giorgio Antonucci: Anche qui il problema è molto complicato. Per molto tempo nelle classi colte è stato dominante il linguaggio parlato e scritto, ma poi c’è stato il diffondersi del cinema e ora il dominio della televisione. Ora poi ci sono i computer e la telematica. Ma a me interessa soprattutto sottolineare il pericolo terribile delle semplificazioni e delle imposizioni autoritarie. E queste si trovano in ogni contesto linguistico. Molti ragazzi a scuola rischiano perché tardano a parlare la lingua imposta dagli insegnanti, ma anche non abbastanza disciplinati o sufficientemente attenti e sottomessi. Di recente in alcune città degli Stati Uniti la polizia arresta gli studenti che marinano la scuola. Vengono anche somministrati psicofarmaci per rendere gli allievi più docili.
Ma per parlare dell’importanza trascurata dei linguaggi non verbali voglio dirti di un giovane, ora di trentasette anni, che ho tolto con le mie mani da una camerata manicomiale, dove stava rinchiuso e legato da circa vent’anni, divenuto anche cieco, non si sa per quali vicende o per quali cause (malattia degli occhi trascurata o maltrattamenti?).
Lui da piccolo era molto vivace e si esprimeva in molti modi però tardava a parlare. Era parte di una famiglia di contadini del forlivese. Fu il veterinario che consigliò di mandare il ragazzo in un istituto. Così passò da un istituto per bambini al manicomio, dove io l’ho trovato dopo molti anni in quelle condizioni, con in più la perdita della vista. Detto per inciso, anche ora molti bambini, specialmente se la famiglia si disgrega, vengono chiusi in istituti simili.
Io, per liberarlo, ho comunicato con lui attraverso il tatto e così si regola, oggi, il personale del reparto Autogestito, anche se lui è in grado di udire e ascoltare.
Raccontano alcune biografie di Albert Einstein che da bambino tardava a parlare, ma evidentemente è stato più fortunato perché apparteneva a una famiglia meno esposta.
Renato Curcio: Un numero sempre maggiore di persone di altri paesi del mondo finiscono nei manicomi o nei manicomi giudiziari. Come vedi tu questo problema?
Giorgio Antonucci: Devo dire prima di tutto che la maggioranza dei detenuti dei manicomi giudiziari di Castiglione delle Stiviere, di Reggio Emilia e di Montelupo Fiorentino, solo pochi sono dentro per reati gravi. Vi sono molti giovanissimi, vittime del proibizionismo sulla droga che sono internati per piccoli furti o offesa al pubblico ufficiale.
Per esempio uno, arrestato per furto di autoradio, ha sputato sulla faccia del poliziotto e, siccome si droga con l’eroina, gli viene fatta la perizia psichiatrica. Così entra nel manicomio giudiziario e la sua vita è rovinata. Sparisce ogni futuro.
Chi viene dalle classi subalterne è favorito in questa direzione e tanto più chi fa la parte di un’altra cultura. L’immigrato è sempre più esposto, per le ragioni che si son dette.
A Firenze, di recente, un uomo che aveva passato dieci anni in manicomio giudiziario, dopo il rilascio, si è ripresentato perché non sapeva come vivere.
Renato Curcio: C’è a Roma uno psichiatra con il tuo cognome: Antonucci. In un’intervista a “Noi donne” sostiene che gli utenti degli istituti psichiatrici sono in gran parte adolescenti, disoccupati, cassaintegrati…
Giorgio Antonucci: Qualche anno fa una donna che aveva condotto una ricerca al Santa Maria della Pietà, il grande Ospedale Psichiatrico di Roma, ha pubblicato un libro con indagini, anche statistiche, da cui risultava che la maggior parte degli uomini internati in manicomio avevano avuto problemi di lavoro, mentre la maggioranza delle donne sono internate per problemi di moralismo sessuale. Ora si aggiunge il problema della droga. Però gli psichiatri, invece di chiacchierare, farebbero bene a fare una critica del loro pensiero. Ragionano come se la dottrina psichiatrica di cui sono i rappresentanti non fosse responsabile di questi disastri.
Renato Curcio: Io ho visto nelle carceri un grande mutamento di composizione sociale, in particolare negli ultimi anni. La fascia di persone che venivano da altri paesi del mondo è cresciuta e oggi in un carcere come Rebibbia ed in un carcere come San Vittore questa fascia rappresenta un terzo dei detenuti. Mentre cresceva questa fascia, crescevano però anche le differenziazioni interne di trattamento tra i detenuti cittadini italiani e i detenuti cittadini di altre parti del mondo. Una delle forme di discriminazione più dirette alle quali io ho assistito è la richiesta a queste persone di parlare la nostra lingua. “Tu sei in Italia, devi parlare italiano!”.
Giorgio Antonucci: Al di là della comodità del carceriere questo, a mio parere, vuol dire “O rinunci a quello che sei, o ti demolisco”.
Integrazione significa farsi niente della propria esperienza e diventare l’altro. E il solo modo per essere accettati dai costumi dominanti secondo gli scopi del potere costituito. Sarebbe più chiaro e preciso dire “incorporazione”.
Renato Curcio: Nel manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino c’è un settore che è chiamato “settore dei negri” e che comprende extracomunitari di ogni provenienza.
C’è l’appiattimento di tutti gli stranieri in una sola parola e in una sola definizione…
Giorgio Antonucci: Ma non si tratta solo degli stranieri. Nel centro e nel nord d’Italia, a Firenze, a Bologna, a Venezia, a Udine, a Torino, a Milano, si dice “marocchino” per dire uomo venuto dal sud, non importa se da Napoli, da Lecce, da Siracusa o da Palermo.
È un unico termine dispregiativo che per i razzisti, che ora sono di moda anche in Parlamento, unisce l’Africa all’Italia, in un’unica ostilità irragionevole e pericolosa.
Renato Curcio: Nelle scuole italiane c’è un numero sempre crescente di figli o di persone che vengono da altri paesi del mondo. Una bambina che vive a Roma, che fa il primo anno delle medie, ha fatto questa domanda al professore di storia: “Visto che parli di Mazzini, mi dici chi è il mio Mazzini?”. Ma il professore di storia le ha risposto: “Non mi interessa sapere chi è il tuo Mazzini, perché qui parliamo della storia italiana”. Allora la bambina ha replicato: “Ma io non sono italiana”. In questo dialogo che radici ci vedi?
Giorgio Antonucci: Gli storici e i professori stabiliscono ad arbitrio quello che conta e quello che non conta.
Per questo la storia che si insegna a scuola vale così poco e diffonde ignoranza invece che sapere. Leone Tolstoj, in Guerra e Pace, parlando dell’invasione francese, fa notare che la storia risulta da milioni di contributi individuali e non, come si insegna, dalle voglie di qualche condottiero assetato di potere. Ma i nostri ricercatori fanno la storia secondo temi ristretti e pregiudizi personali. E’ una storia astratta, senza rapporto con la realtà.
Renato Curcio: Quello che è importante e quello che non è importante, quello che conta e quello che non conta nella storia sociale può essere riferito anche alla storia dei singoli individui. Io penso che la psichiatria entri in gioco per stabilire questa punteggiatura di importanza.
Giorgio Antonucci: Come si è detto la psichiatria impone il rispetto dei costumi.
Renato Curcio: Quindi c’è un nesso preciso tra l’imposizione di costumi e il razzismo?
Giorgio Antonnucci: Non so se sai che in Bosnia gli stupri di Stato e altre operazioni feroci imposte dagli aggressori sono guidate da un gruppo di psichiatri.
Non a caso lo psichiatra quando vuole definire i suoi pazienti col concetto di malattia di mente usa la parola “disadattati”. E poi per adattarli usa la lobotomia, gli elettrochoc, l’intossicazione con psicofarmaci, il coma insulinico e altri mezzi lesivi dell’integrità biologica. E per far questo è autorizzato a intervenire con la forza.
Renato Curcio: Hai ora parlato di una tecnica di controllo psichiatrico che è fondato sull’uso di sostanze chimiche e non solo sull’uso di parole o di muri o di chiavi. Che significato ha questo uso di psicofarmaci per controllare le differenze?
Giorgio Antonucci: La medicina in generale, e la psichiatria in particolare, proponendo la soluzione dei problemi morali e delle malinconie dell’esistenza con l’offerta della pillola della felicità, sono responsabili di quella cultura illusoria e superficiale che è alla base dell’uso delle droghe. Il giovane che prende l’eroina per superare le angoscie deve questa illusione alla cultura della medicina ufficiale. Con il proibizionismo poi il guaio diventa completo. Ci guadagnano solo le case farmaceutiche e la mafia.
Renato Curcio: A Rebibbia, io ho assistito più volte a dialoghi di questo genere; persone incarcerate per aver rubato si sono scagliate violentemente contro detenuti di altri paesi del mondo dicendo: “Questi vengono a portarci via lo spazio vitale, uno spazio necessario”. I ragionamenti erano di questo tipo. Gli immigrati sono persone molto povere e quindi finiranno per andare a rubare; in questo senso sono dei concorrenti e da questo spirito di concorrenza nasce anche la rivalità e il rifiuto: Tornino a rubare nel loro paese o comunque se ne vadano.
Alla Pantanella, che è stata la più grossa concentrazione di immigrati di Roma, si è sviluppato un tentativo di rapporto tra queste tremila persone di cinquanta paesi e i quartieri della città. Ma i quartieri di Roma, sostanzialmente, li ha rifiutati.
Allora la domanda è: deriva dall’ignoranza questo tipo di scontro tra differenze etniche e culturali, deriva dalla cultura egemone?
Giorgio Antonucci: La cultura egemone è forte perché riesce a diventare la cultura delle classi subalterne. Entra dentro alle vittime. Troppi schiavi erano contro Spartaco.
Questo conflitto che tu hai veduto in carcere è simile a quello che si verifica all’esterno tra lavoratori indigeni e lavoratori immigrati. Sono gli uni contro gli altri: è quella che si chiama “guerra tra poveri”. Gli operai tedeschi della Repubblica di Weimar furono in gran parte per Hitler e votarono per lui. Ma anche i capi rivoluzionari spesso impongono i valori della tradizione preparando il fallimento del loro stesso discorso e rendendo provvisoria o addirittura inutile la loro fatica per cambiare il mondo.
Basta pensare che quasi tutti i paesi del socialismo reale avevano riproposto i lavori forzati e la condanna a morte senza parlare dei campi di concentramento, dei campi di rieducazione e dei manicomi.
Renato Curcio: Un atteggiamento comune a chi manifesta comportamenti fascisti o a chi fa discorsi razzisti è quello di premettere: “Però io non sono razzista, anche se non vorrei che mia sorella sposasse un negro”. Perché questa esitazione a dichiararsi razzisti?
Giorgio Antonucci: Dopo il genocidio di Hitler e di Eichmann non è più possibile far finta di nulla anche se per la verità alcuni ci hanno provato e ci provano.
I medici dei campi di concentramento nazisti, tra cui non pochi erano psichiatri, avevano dichiarato di essere obbedienti al giuramento di Ippocrate, perché con il bene della Germania ritenevano di essere utili alla specie. Aveva ragione Nietzsche a consigliare di guardarsi soprattutto dai benefattori. In ogni modo ora il razzismo è più grave e sospetto di prima, e forse Richard Wagner, se vivesse ora, sarebbe più cauto nei suoi giudizi sugli ebrei o in altri sommari giudizi sociologici, e con lui molti altri personaggi illustri, come per esempio Dostoevskij.
Però il razzismo reale è sempre più feroce e aumenta di continuo a tutti i livelli sociali e in tutte le parti del mondo. Il fatto che a volte sia mascherato rende il problema più complesso. Non bisogna dimenticare, per vedere con chiarezza l’argomento, che il razzismo attuale si presenta in tre forme differenti che sono: il razzismo biologico e pseudo-scientifico, il razzismo mistico di derivazione romantica come quello di Himmler o di Evola e il razzismo culturale, che è più ambiguo e isidioso, perché è il più difficile a identificarsi.
Questa intervista è stata raccolta per il volume “Contrappunti” di Giorgio Antonucci, pubblicato dalla Cooperativa Editoriale “Sensibili alle foglie”.