RACCONTO METAFORICO DI GIORGIO ANTONUCCI – Il problema dei cervelli –
IL PROBLEMA DEI CERVELLI
Frigidaire, maggio 1994
Lui considerava la bellezza delle costellazioni e delle nebbie di luce diffusa, ma temeva in modo angoscioso gli abissi delle tenebre.
Ci sono abissi che ti divorano.
Aveva giorni di lavoro e notti di inquietudine.
D’altra parte ora si potevano studiare le astronomie senza guardare le stelle, ma soltanto con calcoli su osservazioni indirette, praticamente lavorando al computer in locali angusti, del tutto indipendenti dall’Istituto e dalle Cupole argentate dell’Osservatorio.
Era raro vedere il cielo anche dai giardini e dalle colline della metropoli. La sera tutto era giallo per le luci dei quartieri periferici e per i gas degli inquinamenti. Comunque a lui il cielo appariva come il fondo di un pozzo e con gli anni ne aveva tratto una condizione di timore sconvolgente.
Era un astronomo, ma aveva paura degli spazi.
Rapporti
Però era molto avido di conoscenze e frequentava i colleghi delle discipline più disparate.
Quel giorno veniva da una lunga visita ai laboratori dei colleghi di biologia, di medicina e di anatomia patologica, uniti insieme dagli studi sul cervello in rapporto alla storia e alle grandi scoperte. Ne mandavano poi relazione agli umanisti delle facoltà psicologiche, e ai sociologi antropologi ed economisti delle facoltà di studio dell’Università Principale dello Stato.
Poi i rapporti venivano esaminati anche dai gabinetti segreti del governo. E ne uscivano valutazioni e direttive. Un giornale aveva scritto: “Hanno lavorato per circa settant’anni in gran segreto, armati di ampolle, bisturi, provette, camici bianchi, e migliaia di cervelli umani depositati lì, in bella vista, nei grandi vasi di vetro di soluzione sterile”.
Cervelli
Lui pensava con preoccupazione all’esperienza di quel giorno durante la sua visita all’ ‘Istituto dei cervelli’.
Aveva assistito a un litigio feroce tra biologi in un salone sbieco e grigio tra organi sotto liquido e preparati microscopici.
Un casino così non l’aveva veduto nemmeno all’ippodromo.
Alcuni dicevano che era stupido ricercare l’intelligenza nel cervello come fosse il polline in un fiore o un uccello nel nido. Altri li accusavano di sospetto idealismo spirituale, teoria filosofica non autorizzata.
Il guaio era cominciato quando avevano capito che il capo della rivoluzione, l’uomo riconosciuto da tutti come il genio per eccellenza, aveva un cervello del tutto insignificante e in parte anche malato.
L’aveva ucciso la sifilide. Avevano poi veduto che uomini da loro considerati minori avevano strutture anatomiche più interessanti, apparentemente più articolate e, secondo i loro parametri, più indicative di funzioni di grado superiore. Così ora, mentre alcuni dubitavano della validità del metodo, molti altri preferivano discutere le premesse.
L’errore
Qualcuno diceva pure che forse l’errore era stato appunto la stessa rivoluzione come opera volgare di un mediocre toccato casualmente dalla fortuna del potere e reso immortale dalle chiacchiere viete degli adulatori e dai giudizi asfissianti dei funzionari.
La vita soffocante e paurosa di questi tempi e la totale mancanza di autonomia sociale delle nostre società post-rivoluzionarie ne erano dimostrazione abbondante per chiunque ne dubitasse.
E i campi di concentramento e le prigioni ne erano il suggello.
A questo punto alcuni avevano proposto l’intervento dei poliziotti. Altri invocavano la neutralità della scienza e altri la libertà di pensiero.
Ma uno aveva detto che riteneva più intelligenti i cannibali quando mangiavano il cervello dei rivali per inglobarne le qualità, che chi perdeva tempo a conservali in formalina come pappette inutili e disgustose, magari alternandoli a fegato e polmoni.
Cercare l’intelligenza col bisturi -gridava un altro- era proprio uguale a cercare l’amore nel cadavere di una fanciulla.
I boschi
Durante la diatriba lui, prima di andarsene, aveva guardato con curiosità le giunture ben ricucite del cranio che riposava sulla tavola del dirigente dell’Istituto.
Uscito all’aria, aveva preso la macchina per correre verso i monti, dove c’erano gli alberi che lui amava, antichi come le rocce ma freschi come la terra.
In quei boschi da solo, insieme alle betulle, era ancora capace di vivere e gli pareva di sentire il mormorio delle cose, come forse lo aveva sentito alle origini.
Firenze 22 gennaio 1994
Pubblicato il: 2 July, 2008
Categoria: Testi