Psichiatria e cultura – di Giorgio Antonucci – Atlantica Grande Enciclopedia Universale – 1991
Psichiatria e cultura
di Giorgio Antonucci
Parte prima
Dopo l’accettazione delle idee di Galileo e
di Newton, essenziali nei campi scientifici
da loro considerati, si è creduto che alcuni
principi della fisica classica, così convincenti
ad esempio nello studio del moto dei
pianeti e del ritorno delle comete, dovessero
essere modello e punto di riferimento di
tutte le conoscenze scientifiche possibili.
In altre parole, la fisica era divenuta il
tipo di conoscenza a cui anche la biologia e
la psicologia dovevano necessariamente fare
riferimento, imitandone la metodologia.
Non pochi studiosi avevano notato la difficoltà
e, in definitiva, l’improprietà di procedere
in questo modo, ma avevano ottenuto
di essere accusati di superstizione o di
misticismo.
Per quel che riguarda la biologia mi preme
ricordare l’opera intelligente e estremamente
scrupolosa di Hans Driesch, in un
momento in cui certi concetti erano difficili
da sostenersi.
Scrive Ludwig Wittgenstein nelle “Conversazioni
su Freud” pubblicate in italiano da
Adelphi nel libro “Lezioni e conversazioni
sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza
religiosa” (marzo 1982) pag. 122: «Quando
studiamo psicologia, possiamo provare
una certa insoddisfazione, un certo imbarazzo
nei riguardi dell’intera materia e dello
studio, perché’ consideriamo nostra
scienza ideale la fisica. E poi troviamo di
non poter usare lo stesso tipo “metrico”, le
stesse idee di misura che in fisica. Questo è
particolarmente evidente quando cerchiamo
di descrivere l’aspetto delle cose: le
differenze di colore meno percettibili, le
minime differenze di lunghezze, e così via.
Ci sembra qui, di non poter dire — Se A = B,
e B = C, allora A = C — per esempio, e questo
tipo di difficoltà permea tutta la materia».
Ora il meccanicismo, in fisica e fuori
della fisica, è considerato un metodo valido
solo nella descrizione e previsione di fenomeni
naturali in cui le piccole differenze
sono trascurabili o non contano.
E intuitivo che le piccole differenze e le
sfumature in psicologia sono l’essenziale.
«Volete dire, signori miei — diceva Freud
(ancora citato da Wittgenstein nelle “Conversazioni”
di cui si è detto) — che i mutamenti
nei fenomeni mentali sono retti dal
caso?».
In tutta l’epoca d’oro del Positivismo il
grande fallimento del metodo meccanicista
nelle scienze naturali era apparso soprattutto,
evidente, almeno ai cervelli più attenti,
nello studio delle varie branche della
biologia.
Come si sa dalla storia della scienza e da
quella della epistemologia, la spiegazione
meccanicistica dei fenomeni dello sviluppo,
del funzionamento e del comportamento
degli esseri viventi appariva problematica e
insufficiente anche ai suoi stessi sostenitori,
che si dovevano molto e costantemente ingegnare
per renderla sostenibile di fronte
alla pertinenza delle obbiezioni.
Però le si opponeva la teleologia, che è
un’altra forma di determinismo.
Quello che in ogni epoca appare meno
accettabile è appunto l’imprevisto, l’imprevedibile:
il caso, come dice anche Freud.
Scrive Nietzsche nei “Frammenti postumi
dell’Estate — Autunno 1881” a pag. 365 del
volume V, tomo 11, delle Opere dell’Edizione
di Giorgio Colli e Mazzino Montinari
(Adelphi), nell’aforisma II(256): «E’ meraviglioso
che, per i nostri bisogni (macchine,
ponti, e così via) siano sufficienti le ipotesi
della meccanica: sono appunto bisogni
molto rozzi e “i piccoli errori” non sono
presi in considerazione».
Si possono elencare le ipotesi possibili
che si trovano contenute in modo implicito
o esplicito nello studio e nella pratica della
psicologia.
I Il determinismo: — Il singolo agisce per
cause predeterminate.
II La teleologia: — Il singolo agisce per fini
prestabiliti.
III La libertà: — Il singolo agisce per scelta.
Si deve dire che, a parte la psichiatria,
che parla dei fenomeni della psicologia
umana in termini da orologiaio o da idraulico,
anche molti psicanalisti sono prigionieri
del meccanicismo, che non permette
alcuna possibilità di capire la molteplicità e
la ricchezza dell’esperienza dei singoli e
delle moltitudini, ma al contrario induce a
tentare di forzare gli individui angosciati
nei modelli più tragici del conformismo.
Il criterio è che la macchina che non dà
le prestazioni previste è guasta e deve esse-
re accomodata.
Anche nelle interpretazioni della storia e
nelle previsioni e nei programmi politici il
pregiudizio determinista appare ora avere
dato risultati disastrosi: del resto il determinismo,
come si sa, si accorda bene con le
concezioni sociali di tipo autoritario, che
non prendono in considerazione la libertà
dell’individuo se non quando devono perseguitarlo.
Infatti ora, in epoca di conformismo e di
sottomissione, considerare l’uomo come
una macchina è un concetto di moda.
Non mi sembra, per quello che so, che la
critica della conoscenza si sia interessata
sufficientemente dei fondamenti del pensiero
psicologico, che pure, con la sua distinzione
arbitraria tra saggezza e follia, è
così incisivo sulla sorte di molti uomini, e
così influente sulle qualità e i caratteri intrinseci
della cultura.
L’intera possibilità di capire l’uomo viene
limitata e ostacolata, se non addirittura
stravolta, dall’artificio della contrapposizione
tra normale e anormale.
Come ogni superstizione questa contrapposizione
viene data per scontata, e ogni
tentativo di metterla in discussione viene
respinto con furore, come se fosse di minaccia
alle basi stesse della sicurezza in cui
il senso comune, rispettoso delle autorità,
trova il suo rifugio.
Come scrive Baudelaire nei “Diari intimi”
nella parte “Il mio cuore messo a nudo” e
nella parte “Argomento dellibro sul Belgio”, i
popoli adorano l’autorità, e l’individuo, nel
nascondersi nel gruppo, cerca di sparire
come responsabile.
Interessante ricordare che la distinzione
tra normale e anormale è stata estesa anche
agli animali,e chi sa che non venga,
presto, applicata perfino alle piante.
Ora, giustamente, tutte le teorie scientifiche
vengono presentate dagli esperti come
ipotesi, settoriali e contingenti, mentre
gli psicologi si sentono sempre sicuri: infatti
la loro sicurezza non deriva dalla conoscenza,
che è sempre incerta, ma dai pregiudizi
di costume, che sono solidi e impenetrabili
come le pietre dure.
E’ intrinseco a ogni dottrina psicologica
contemporanea, in una cultura in cui il diritto
sembra servire in modo esclusivo da
sostegno alla legittimazione delle prevaricazioni
dei potenti, di essere in tutto e per
tutto teoria e tecnica dell’ordine pubblico,
mascherata da scienza obbiettiva dell’uomo.
Dichiarano Jean Laplache e Jean-Ber-
trand Pontalis nella loro “Enciclopedia della
Psicanalisi” (Vocabulaire de la psychanalise
— sous la direction de Daniel Lagache —
Presses Universitaires de France — Paris —
Edizione italiana Laterza 1989) alla voce
«Acting out» che il termine «è usato in
psicanalisi per designare le azioni che presentano
per lo più un carattere impulsivo
relativamente in rottura con i sistemi di
motivazioni abituali del soggetto, relativamente
isolabili nel corso della sua attività, e
che assumono una forma di auto — o etero —
aggressività. Nel sorgere dell ”Acting out”
lo psicanalista vede il segno dell’emergenza
del rimosso».
Tutti i termini usati sono da un lato meccanici,
come se si parlasse di computer o di
robot, dall’altro generici, in modo da potere,
quando serve, essere riempiti di volta in
volta dei significati più differenti e opposti.
Per esempio si può chiamare aggressività
qualsiasi cosa: l’amore, l’autocritica, la malinconia,
l’arte, il suicidio.
L’identificazione poi, quando fa comodo
dell’aggressività con la psicopatologia,
in una società come la nostra, ha valore
altamente umoristico.
Un ipotetico uomo meccanico che cambia
rotta certamente si può, con Laplache e
Pontalis, «prenderlo in carico» come «relativamente
in rottura con i sistemi di motivazioni
abituali».
Ma per un uomo in carne ed ossa occorre
ragionare diversamente.
La ricchezza di contenuti, di prospettive
e di possibilità di un cervello pensante giustifica
in ogni momento il comparire di decisioni
e di azioni apparentemente o sostanzialmente
imprevedibili o impreviste,
che possono avere effetti momentanei o
duraturi, e portare a cambiamenti superficiali
o profondi.
La camicia di forza delle convenzioni sociali
spesso nasconde o maschera la complessità
dell’individuo, dando l’apparenza
della monotonia e della regolarità, che si
propone rassicurante per chi ha interesse a
nascondersi la vastità del mondo.
La censura e la rimozione di cui parla
Freud sono l’espressione psicologica dell’oppressione
dei costumi.
«Come si deve agire? — scrive Federico
Nietzsche nell’aforisma 107 di “Aurora”
(Pensieri sui pregiudizi morali) — A che fine
si deve agire? Nei bisogni più immediati e
grossolani si risponde abbastanza facilmente
a queste domande, ma quanto più si sale
nei più delicati, estetici e importanti campi
dell’agire, tanto più insicura e di conseguenza
tanto più arbitraria sarà la risposta.
Ora è proprio qui che dovrebbe essere
esclusa l’arbitrarietà delle decisioni! Così
esige l’autorità della morale: una confusa
paura e venerazione deve, senza indugio,
guidare l’uomo proprio in quelle azioni, i
cui fini e mezzi sono per lui, meno che mai,
subito chiari! Questa autorità della morale
vincola il pensiero in cose in cui potrebbe
essere pericoloso pensare in modo errato:
in tal modo essa suole giustificarsi dinanzi
ai suoi accusatori. Errato: ciò significa qui
“pericoloso”, ma pericoloso per chi? Di so-
lito non è propriamente il pericolo di colui
che agisce, ciò cui guardano i detentori
della morale autoritaria, ma il loro pericolo,
la loro possibile perdita di potere e autorità,
non appena venga concesso a tutti il
diritto di agire, arbitrariamente e follemente,
secondo la propria ragione, grande o
piccola che sia…».
Si deve dire che la città è troppo ordinata
per accettare la libertà dell’individuo, e
l’individuo è troppo ricco per sottomettersi
all’ordine della città.
Allora la polizia non basta, così sono
necessari gli psicologi e gli psichiatri, funzionari
dello stato addetti a prevenire e
reprimere la trasgressione, che copre un
campo molto più vasto di quello previsto
dalla legislazione penale.
Ci vogliono poliziotti della strada anche
nelle vie dell’immaginario.
Famoso negli Stati Uniti il caso di Judi,
una giovane laureata di ventitre anni, con
un suo sogno mistico stroncato dagli specialisti.
«Una mattina in cui si era svegliata presto,
se ne stava alla finestra della sua stanza
a osservare le prime luci dell’alba. Un pianeta
insolitamente brillante era ancora visibile
in prossimità dell’orizzonte orientale.
Mentre essa stava ancora osservando, al di
sopra dell’orizzonte spuntò il bordo superiore
del sole ed essa vide un raggio di luce
arancione protendersi dal sole verso il pianeta.
Il pianeta scomparve e l’orologio del
campanile cominciò a battere le sei. Allora
seppe di essere stata prescelta». (Mervin E.
Lickey e Barbara Gordon — Drugs for Mental
Illness. A Revolution in Psychiatry — W.H.
Freeman, San Francisco 1983 pag. 52).
Ma i sogni devono essere autorizzati.
Accanto al sistema giuridico c’è il sistema
della moralità dei costumi.
E c’è la serietà del vivere civile. Infatti in
piena «Crisi del Golfo» con una possibile
nuova guerra alle porte, mentre Gorbaciov
ristabilisce l’ordine democratico con i paracadutisti
e i carri armati, come riferisce «La
Repubblica» del 9 gennaio 1991 nella rubrica
della pag. 12 di politica estera, esistono
riflessioni di alto livello morale da parte
delle autorità più responsabili visto che
«riuniti nell’austero palazzo di Washington,
nove grandi saggi americani, i nove
giudici a vita della Corte Suprema, con a
capo William Rehnquist, da ieri meditano
su un “angoscioso” problema costituzionale:
che cosa è lo spogliarello?».
«…Io sono uno con la schiuma alla bocca
— dice l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij
— ma datemi un bambolino, datemi una
tazza di tè con lo zucchero, e io magari mi
calmerò, mi intenerirò perfino, sebbene
poi certamente digrignerò i denti contro me
stesso e, dalla vergogna, patirò per parecchi
mesi di seguito l’insonnia. Son fatto a
questo modo.
Più su mi sono calunniato, quando ho
detto che ero un impiegato cattivo. L’ho
fatto per malvagità. Quella coi postulanti
non era che monelleria, ma in realtà non
mi è mai riuscito di diventare malvagio.
Sentivo continuamente in me una quantità
di elementi i più contrari a questo. Li sentivo
ribollire in me, questi elementi contrari.
Sapevo che per tutta la vita avevano ribollito
e reclamato di venire alla luce, ma io non
li ho lasciati venir fuori, non li ho lasciati, di
proposito non li ho lasciati. Essi mi hanno
tormentato fino alla vergogna, fino alle
convulsioni, e alla fine mi hanno seccato!
Ma non vi pare, signori, che abbia adesso
l’aria di pentirmi davanti a voi di qualcosa,
di chiedervi perdono di qualche cosa?….
Son sicuro che vi pare così… Del resto vi
testifico che non me ne importa niente anche
se vi pare così…
Io, non dico malvagio, ma niente son
riuscito a diventare: nè cattivo né buono,
né ribaldo né onesto, né eroe né insetto>>.
Il titolo con la metafora “Ricordi dal sottosuolo”
(Edizione italiana Longanesi 1971) è
molto espressivo perché rimanda all’eruzione
dei vulcani, quando ormai gli uomini
rischiano di divenire vulcani spenti.
I sotterranei dell’individuo sono incandescenti,
e i conflitti del singolo con tutti, e
di conseguenza anche con se stesso, che si
svolgono al centro della coscienza, sono
parte integrante dell’angoscia.
Poco dopo quello che si è riferito, l’uomo
del sottosuolo dostoevskijano afferma che
è indecoroso e volgare vivere oltre i quarant’anni,
esprimendo il fallimento dell’individuo
in una società come questa: «Lo
dico sul muso al mondo intero!».
Ognuno di noi ha una vita unica, nel
senso di una creatività singolare e irripetibile,
e il perderla è senza rimedio.
Kafka, nel racconto “Il prossimo villaggio”,
scrive: «Mio nonno soleva dire: — La vita è
straordinariamente corta. Nel mio ricordo
essa si restringe a tale brevità, che io per
esempio non comprendo come un giovane
possa decidersi a cavalcare fino al vicino
villaggio senza temere che, a parte qualche
disgraziato accidente, lo spazio di una vita
comune felicemente scorrente sia infinitamente
troppo breve per una simile cavalcata».
La paura della contingenza esteriore — il
caso — e il timore della creatività dell’individuo
innescano la ferocia degli uomini di
ordine.
Si racconta a Firenze, nelle storie del
Bargello, il capitano di polizia che controllava
la vita della città di giorno e di notte,
che la tortura era ritenuta esplicitamente
non una ricerca della verità, ma una ricerca
del capro espiatorio, come avvenuto anche
in tempi più recenti.
La subordinazione del cittadino, che
spesso ai nostri giorni viene chiamato genericamente
e in modo informe e dispregiativo
«la gente» o «l’uomo della strada», viene
coltivata ogni giorno con i mezzi di comunnicazione
di massa, tutti nello stesso
modo e con pari impegno, a cominciare
dalla televisione e a finire con i giornali,
con le riviste, e con gran parte dei libri.
Il cittadino è per definizione irresponsabile
e le autorità sono per definizione una
garanzia.
Il problema di questa concezione non
viene discusso da nessuno.
Non a caso le cronache sono prevalentemente
comunicazioni di reati e di operazioni
di polizia.
E’ superfluo dire che si parla anche della
corruzione e delle collusioni del potere,
per esempio con la mafia o con le logge, ma
non lo si fa mettendo in discussione il potere
come tale, ma lasciando intendere che il
potere va purificato, come del resto dicevano
anche i fascisti.
Ora il fascismo esplicito non è più necessario
perché le grandi corporazioni economiche
possono decidere la sopravvivenza o
lo sterminio dei popoli, con tutta tranquillità,
disponendo di altri strumenti.
Infatti ora anche i cittadini più ingenui
hanno capito di non essere in grado di decidere
nulla. Così i più giovani spesso preferiscono
le droghe alla politica, e a volte
anche il suicidio.
In ogni modo il ricatto macabro delle
cronache di tutti i giornali, sia indipendenti
sia di partito sia di corrente, sia di provincia
sia metropolitani, come il ricatto delle televisioni
pubbliche o private, si svolgono costantemente,
giorno per giorno, con lo stesso
linguaggio convenzionale e stereotipato,
e si fondano essenzialmente sui due concetti
base della sociologia di Lombroso, ancora
di moda anche se vecchia di un secolo,
e intrinseca alle concezioni psicologiche sociologiche
e giuridiche, e al senso comune e
alla mentalità generale, che sono il concetto
di delinquente e il concetto di pazzo.
Così il cittadino perbene e il cittadino
onesto restano incontaminati e sicuri, apparentemente
al di fuori di ogni implicazione,
e la società e la cultura non hanno
bisogno di essere discusse.
Il reato imbarazzante viene attribuito
contemporaneamente al delinquente e al
maniaco, così la coscienza individuale e
collettiva si giovano tranquillamente di una
doppia copertura.
In una società moralista e senza etica,
fondata essenzialmente sulla prevaricazione,
anche una piccola trasgressione trova
pronti sulla sua strada il carcere, il manicomio
e il manicomio giudiziario, tutti e tre,
sia pure in forme diverse, percorsi tragici
senza ritorno.
Si può prendere un giornale a caso, nel
giorno che si vuole, sicuri di trovare esempi.
Nel «Corriere della Sera» del 10 novembre
1990 si trova nelle «Cronache italiane»
a pag. 15 un articolo che è veramente caratteristico
e istruttivo. L’articolo comincia: «a
Peri (Verona) la gente è esasperata dagli
scherzi a tappeto del terrorista della cornetta»
e continua con il titolo a caratteri
grandi «Caccia al corvo sporcaccione», e
con il sottotitolo «Minacce e oscenità al
telefono, un intero paese nel mirino».
Ed ecco come continua l’articolo: «Il corvo
sporcaccione ama la vita comoda. Non spedisce
lettere anonime, come nel film di
Henry Clouzot. Troppo faticoso. No, alla
penna lui preferisce la cornetta del telefono.
Vomita oscenità e minacce di morte via
filo. E non lo fa di tanto in tanto, magari
per spezzare la noia, bensì tutti i giorni, con
diabolica sistematicità…».
Dopo una descrizione di Peri, paesino
tranquillo della Valdadige, dove Pertini faceva
il soldato durante la guerra, e Sara
Simeoni insegnava educazione fisica ai ragazzini,
si passa al parere illuminato della
farmacista, ex consigliere comunale, che dice:
«Spero tanto che lo smascherino, quel
farabutto. Anzi, meglio di no, perché se mi
dicono chi è, gli cavo gli occhi».
Già si è visto, l’articolo parla di diabolicità,
e usa la demonologia degli animali: il
corvo. Il medioevo culturale è pienamente
di moda.
Ma non basterebbe. Allora ecco la psichiatria,
a sentinella del perbenismo divenuto
immediatamente feroce.
«Psicopatico e accanito teledipendente
patito della “Piovra”».
Ma esce anche la criminologia lombrosiana
con «il terrorista della cornetta tempesta
pure il posto telefonico pubblico».
Il delitto, la pazzia: «…E la madre, abbassando
gli occhi: “bisbiglia cose sporche che
mi vergogno a ripetere”».
E così arriviamo alla conclusione del
giornalista, candido sostenitore della pubblica
moralità: «Ora però il corvo potrebbe
avere le ore contate: la SIP sta controllando
le bollette degli abbonati che pagano di
più. Ma forse l’uccello del malaugurio verrà
impallinato dai carabinieri».
Più che la condanna a morte si chiede
giustizia sommaria.
Già due volte quest’anno, con Piero
Colacicchi, che si occupa della difesa dei
diritti delle minoranze a Firenze, e con
Eugenio Melandri, deputato europeo di
Democrazia Proletaria, siamo stati in visita
al Manicomio Giudiziario di Monte-
lupo Fiorentino, dove sono rinchiuse circa
150 persone, tutti uomini, perché una
sezione donne si trova solo a Castiglione
delle Stiviere; questi istituti in Italia sono
6; per ora ne ho visti 4.
Molte sono le storie di sottoproletari
internati senza alcuna speranza di ritorno
per lo più per piccoli reati del tipo piccolo
furto o offesa a pubblico ufficiale.
Ho conosciuto in una delle celle un
uomo di cinquant’anni, pistoiese, di famiglia
contadina, ex bracciante, ex uomo di
fatica, ex operaio, che ha lavorato vent’anni
in Germania in miniera, dove è
rimasto invalido per un incidente che ha
interessato la colonna vertebrale, e ha
indebolito le gambe e le braccia, per cui è
ritornato in Italia e ora è in pensione, e in
attesa del riconoscimento dell’invalidità.
La moglie e le figlie sono ancora in Germania.
Lui, caduto per terra ai margini della
strada, camminava con le stampelle, ha offeso
a parole la polizia, chiamata ad intervenire
da una signora di passaggio.
Così ora è dentro, dove noi l’abbiamo
trovato.
Alla fine del ventesimo secolo sono ancora
storie da «Miserabili», come Hugo le
descriverebbe.
Un altro ha ucciso perché l’assistente sociale
gli ha tolto il figlio piccolo, giudicando
le condizioni in cui viveva non pertinenti.
La doppia definizione di «delinquente»
e di «pazzo» preclude qualunque possibilità
di ritorno.
Mentre sembrava che, negli anni passati,
dal 1960 in poi, si fosse cominciato un percorso
di rivalutazione delle esperienze rifiutate
e nascoste per motivi di costume o
politici, negli ultimi tempi è iniziata un’opera
intensa di consolidamento dell’emarginazione,
e di rafforzamento del carattere
autoritario e intollerante delle collettività
degli uomini, ormai ridotti a puro strumento,
senza più voce e senza più esistenza
reale, puri automi dalla coscienza infelice.
Così i lungodegenti psichiatrici di Imola,
ormai liberati dai vincoli fisici dell’istituzione,
per protesta contro le interdizioni della
Procura della Repubblica di Bologna, si
sono recati a Strasburgo, al Parlamento
Europeo, per rivendicare il loro diritto di
cittadini a tutti gli effetti, e, nella Commissione
Europea di Democrazia Proletaria,
presieduta da Eugenio Melandri, hanno
parlato a nome di tutte le vittime degli
psichiatri, in Europa e nel mondo, e non
solo a nome esclusivo di se stessi, come
hanno fatto purtroppo i dissidenti sovietici
deportati in manicomio, perdendo così
un’occasione preziosa.
L’introduzione di questo articolo propone
una discussione sui principi e un riferimento
alla critica della conoscenza e ai
problemi epistemologici, non tanto per arrivare
a scegliere una tra le ipotesi di teoria
generale gnoseologica, ma piuttosto per dimostrare
che la psicologia classica non si è
mai occupata delle proprie basi semplicemente
perché trova la sua garanzia, non
tanto nella sicurezza (o insicurezza) delle
conoscenze, quanto nella difesa delle regole
e convenzioni sociali, imposte con la forza
e con l’autorità, e tenute, come tutte le
superstizioni, al di sotto e al di sopra del pensiero.
Parte seconda
Forse Prometeo ci parla già di trasgressione:
il fuoco, l’origine del potere degli
uomini, il distacco dalla natura, la singolare
differenza della specie dell’uomo, ch’io
chiamerei la specie infelice; la nostra origine
dalle acque con un cammino stellare
verso un mondo senza ritorno. «Ho compiuto
un lungo viaggio / Prometeo per vederti/
su questo alato che la mia/mente reggeva
senza redini. / E la tua sorte sappi
m’addolora:/mi forza il sangue comune/».
(Così dice Oceano nel “Prometeo” di Eschilo).
«Lì distesa in forzosa contemplazione,
sentì la rabbia crescerle di nuovo dentro.
Odiava Geraldo e sentiva che il suo odio
era giusto. Prendersela con lui era diverso
che riversare la propria rabbia, il proprio
dolore, la perdita di Claud, in odio verso di
sé, in droghe e psicofarmaci, nelle sbronze,
nel vino, vedendo in Angelina un’altra
Connie e prendendosela con quell’altra se
stessa, venuta una seconda volta al mondo,
in questo sporco mondo.
Sì, questa volta era diverso. Non aveva
colpito se stessa, se stessa in un altro, ma
Geraldo, il nemico. Non aveva sbagliato a
cercare di difendere Dolly, la persona che
le era più vicina, il suo stesso sangue, quasi
sua figlia. Come poteva lasciare che Geral-
do massacrasse il corpo di Dolly? Sì, gli
aveva spiaccicato il naso e ora non sarebbe
più stato lo stesso. L’ultima volta che era
stata dentro aveva accettato il verdetto di
malattia; si era inchinata al pesante giudizio
che loro avevano emesso. Stavolta non
si vergognava. Ne sarebbe venuta fuori alla
svelta. Sarebbe risultata chiaramente integra,
sana, completamente in sé.
Da quanto tempo era stata legata al letto?
Giorno e notte erano uguali. Si erano
dimenticati di lei, sarebbe morta lì, nel suo
piscio. Alle volte le sembrava di non poterlo
più sopportare e urlava più forte che
poteva, implorando le pareti che si aprissero.
I minuti erano eterni. Era matta. I tranquillanti
la stranivano. L’avevano presa, l’avevano
incastrata. Si sentiva in trappola come
un embrione nell’alcool…». Così scrive
Marge Piercy nel libro “Sul filo del tempo”
(pag. 26-27 — Elèuthera Editrice — Giugno
1990) riportando le esperienze di una donna
internata in manicomio.
Un coro del “Prometeo di Eschilo” (“Le tragedie
di Eschilo” — a cura di Leone Traverso
— Vallecchi Edizioni — 1961) suona in questo
modo a commento: «Ahi, ahi, fermati,
ahimé! / Mai, mai pensavo colpissero sì
strane vicende il mio orecchio / né sì tremendi
a vedere, / sì tremendi a soffrire/tormenti,
ignominie, terrori / col pungolo a
duplice punta / ferissero l’anima mia».
Il grande mare della creazione umana
straripa di continuo con tutte le sue onde,
non c’è paura che lo possa arginare, né rive
che lo possano circoscrivere.
Anche se gli uomini d’ordine preparano
sempre di nuovo le loro forche o costruiscono
psicologie a misura di carcerieri.
Ma qua! è il rapporto di Edipo sia con
l’ordine sociale sia con l’ordine cosmico
che per i Greci sono pilastri di uno stesso
edificio? Per suggerimento di Freud, Edipo
diviene anche simbolo di psicologia.
La prima caratteristica di Edipo è la conoscenza:
il mistero della Sfinge si svela ai
suoi occhi. La seconda caratteristica è la
sventura: chi varca certi limiti è infelice.
Oppure muore come Ulisse. O viene ucciso
dal potere costituito come Socrate o Giordano
Bruno. O deve ripensare alle conseguenze
tragiche delle sue scoperte e delle
sue scelte come Einstein. Sia la conoscenza
filosofica, religiosa, mistica o poetica, sia la
conoscenza scientifica e tecnologica sembrano
rivolgersi contro l’artefice come nella
novella dell’apprendista. Edipo ha i piedi
feriti e la Sfinge ha corpo di leone e ali di
uccello. Eppure all’inizio Edipo sembra
avere la meglio. Poi la sua vittoria si rivolge
in maledizione. La tragedia è che Edipo
non sa quello che fa, perché il caso o il
destino rivelano solo dopo il contenuto e le
conseguenze delle sue scelte. Allora Edipo
si acceca perché i suoi occhi non servono.
Solo Antigone alla fine lo condurrà con
dolcezza verso la quiete. E la storia di Antigone
sarà lo scontro tra la creatività femminile
e la disumanità dei costumi. La creatività
comunque s’infrange contro la dittatura
dei costumi. Anzi, per il nostro tempo
Creonte è un piccolo uomo senza fantasia.
L’Unione Sovietica di Stalin e la Germania
di Hitler hanno legittimato il tradimento
come merito di Stato (denunciare i fratelli,
il padre, i figli). Nel sistema giuridico italiano
attuale la delazione comporta uno sconto
di pena in tribunale. Così mentre la mafia
punisce i traditori, la magistratura li premia.
La domanda essenziale è come mai alcuni
governi, che vivono di omicidio e di rapina,
di spionaggio e di sopraffazione, pretendono
che i cittadini si comportino bene, come
tenere colombe?
Ne «Il Venerdì di Repubblica» del 21
dicembre 1990 esce un articolo, un po’ alla
De Amicis un po’ alla Victor Hugo, sulla
realtà attuale della carcerazione sovietica,
accompagnato, come è di moda ora, con le
sentimentali adulazioni a Gorbaciov, dittatore
libertario. Si intitola “Angeli dannati:
rapporto segreto da un campo di prigionia
femminile”. Vi si racconta la storia grottesca
di un concorso di bellezza dietro le sbarre.
«Gli stranieri — dice il giornalista — non
entrano a Celjabinsk, una città di un milione
di abitanti, sulla catena montuosa degli
Urali, nel sud della Russia, lungo il confine
geografico che, indifferente alle divisioni
politiche, separa in linea verticale l’Europa
dall’Asia. Gli stranieri non entrano perché
Celjabinsk è una città chiusa, una delle tante
che, nonostante la liberalizzazione portata
da Gorbaciov, sono ancora giudicate
dal Cremlino un segreto da custodire gelosamente,
da nascondere, per una ragione o
per l’altra, agli sguardi indiscreti di chi non
è cittadino sovietico. Il segreto di Celjabinsk
è in realtà ugualmente trapelato a Occidente:
si tratta delle sue fabbriche civili, dei
suoi impianti militari e delle innumerevoli
colonie penali del suo territorio.
Ma mentre gli stranieri restano fuori, è
riuscita a entrare la perestrojka, portando
un soffio di democrazia e di umanità anche
laggiù in uno dei “buchi neri” che costellano,
densi di mistero, l’immenso universo
dell’Unione Sovietica. Ha portato lo spirito
di rivolta tra gli operai delle fabbriche
cittadine, insorti, proprio in questi giorni,
contro il progetto di costruire a Celjabinsk
una centrale nucleare. E la perestrojka ha
introdotto uno sprazzo di gioia, di giocosa
serenità nella colonia penale femminile che
sorge a pochi chilometri dalla città, coinvolgendo
le detenute in un concorso di bellezza,
una gara paradossale nel brutto
mondo in cui sono costrette a vivere, ma
ugualmente capace di distrarle, di aiutarle
a sorridere per qualche ora». Naturalmente
il direttore del carcere è stato subito
chiamato a rendere conto di questa iniziativa
rivoluzionaria: così«Il sogno del concorso
di bellezza è durato poco per tutte» e lo
scrittore Valentin Rasputin, consigliere
presidenziale di Gorbaciov, ha dichiarato
di essere convinto che la corruzione morale
e il seme di facili costumi nascono proprio
dai concorsi di bellezza.
«Non accettò la galera fin dal primo
istante. Disse “No!”. Disse “No” e nient’altro
— con tutta se stessa, con tutto il suo
corpo. Il primo giorno smise di parlare. Il
secondo chiuse col cibo. Al terzo toccò al-
l’acqua. Quando spuntò il sole del quarto,
fu la volta del movimento. Poi via via quel
poco che restava. Il decimo giorno morì. Il
cadavere fu rinvenuto durante una perquisizione.
Quel corpo di donna tutto chiuso,
chiuso nella decisione estrema di un “No!”,
per 240 ore passato inosservato tra occhi di
recluse e di guardiane. Invisibile, etereo,
trasparente. Come la libertà». “Nel Bosco di
Bistorco” di Renato Curcio, Nicola Valenti-
no, Stefano Petrelli, pag. 9—Edizioni “Sensi-
bili alle foglie” — Roma 1990.
Eppure, a cavallo di ogni secolo, le discussioni
sulle istituzioni totali, che sono
una realtà scottante, sono vivaci e serratissime.
Dopo la famosa decisione di Pinel di
togliere alcune catene, si era aperto a tutti i
livelli di discipline, studi e prassi psichiatriche
il dibattito sulla necessità o non necessità
di usare i mezzi di contenzione e siamo
appena tra il diciottesimo e il diaciannovesimo
secolo, mentre alcuni mettono già in
dubbio la validità e utilità delle classificazioni
di fronte alla varietà e ricchezza delle
esperienze individuali.
John Conolly (1794-1866) introdusse il
termine e la pratica della non restrizione, e
il suo allievo Robert Gardiner (1811-1878)
divenne un teorico tenace dell’abolizione
dei mezzi di contenzione.
Avevano contro, tra gli altri, Guillaume
Ferrus (1784-1861), della scuola di Pinel
ma favorevole alla contenzione, che al Bicetre
aveva introdotto il lavoro tra gli internati
e aveva fondato una fattoria per tenerli
occupati.
Ferrus era un grande ammiratore di Napoleone
e di lui fedele seguace.
Comunque il dibattito sulla contenzione
o non contenzione raggiungerà il livello più
alto, anche dal punto di vista dell’ironia, in
quella grande fucina di idee che sono gli
Stati Uniti.
Così racconta Gregory Zieboorg nella
sua famosa “Storia della psichiatria” (Edizione
italiana — Giangiacomo Feltrinelli Edi-
tore — Milano 1963) pag. 342: «La questione
fu dibattuta dovunque con calore. Considerazioni
umanitarie e pratiche si urtarono
con asprezza. Negli Stati Uniti una discussione
sulla non-restrizione fu così tempestosa
che, a una delle riunioni dell”Association
of Medical Superintendents”,
Isaac Ray espresse l’opinione che la mancanza
di restrizione poteva andare bene
con gli Europei che, sani di mente o no,
sono abituati a obbedire agli ordini; ma
non con gli Americani che credono nella
libertà e che, a meno di esservi costretti a
viva forza, cercano di far valere i propri
diritti anche in stato di alienazione».
Eppure Eichmann era ancora di là da
venire. Anche gli psichiatri continuano ad
avvolgersi nel loro circolo vizioso del controllo
sociale che è anche rispetto della
libertà. A paragone la quadratura del cerchio
è roba da ridere. Fra il secolo diciannovesimo
e il ventesimo, in piena estensione
dei manicomi, parallela alla formazione
delle metropoli, mi sembra utile mettere a
confronto alcune opinioni di illustri coetanei.
Eugen Bleuler (1857-1959), direttore
della Clinica Psichiatrica Burgholzli di Zurigo,
frequentatore di Freud e di Jung, introduce
il termine suggestivo di schizofrenia,
ancora così caro agli intellettuali di
ogni genere (anche Moravia lo adopera per
sé), che vorrebbe dire scissione o frammentazione
della personalità, quasi si parlasse
di un vaso di cristallo che si incrina o si
rompe.
Continua a essere il marchio che riempie
le istituzioni e invalida le persone, senza
che nessuno sappia che cosa vuol dire.
Ma ecco Anton Pavlovic Cechov, medico
scrittore (1860-1904). Ascoltiamolo. Seguiamo
questi brani de “La corsia numero 6”.
(I capolavori di Anton Cechov — Edizioni
Mursia 1969).
Il recinto: «Questi chiodi, con le punte
rivolte all’insù, e il recinto e lo stesso padiglione
hanno quello speciale aspetto che da
noi hanno soltanto le costruzioni ospedaliere
e carcerarie» (pag. 374).
Il custode: «Su questo mucchio di rifiuti,
sempre con la pipa tra i denti, sta sdraiato il
custode Nikita, vecchio soldato in congedo,
dai galloni diventati rossicci. Egli ha una
faccia dura, smunta, dalle sopracciglia spio-
venti, che danno al suo viso l’espressione di
un montone della steppa, e il naso rosso; è
di piccola statura, d’aspetto magro e muscoloso,
ma il suo portamento è imponente
e i suoi pugni solidi. Appartiene al numero
di quegli uomini semplici, positivi, buoni
esecutori e ottusi, che più di tutto al mondo
amano l’ordine e perciò sono convinti che
bisogna picchiare. Egli picchia sulla faccia,
sul petto, sulla schiena, su quel che gli capita,
ed è convinto che altrimenti qui non ci
sarebbe ordine» (pag. 374).
La corsia: «Le pareti vi son dipinte in
una tinta blu sporca, il soffitto è affumicato
come in una capanna senza camino, — è
chiaro che qui d’inverno le stufe fumano e
ci si sente asfissiare. Le finestre sono deturpate
all’interno da grate di ferro. Il pavimento
è grigio e tutto scheggiato. C’è puzzo
di cavolo acido, di stoppino fumoso, di
chimici e di ammoniaca, e questo puzzo nel
primo momento vi dà l’impressione di entrare
in un serraglio. Nella sala ci sono dei
letti avvitati al pavimento. Su di essi stanno
seduti o coricati degli uomini, con l’azzurra
veste da camera dell’ospedale e, all’uso antico,
coi berretti da notte. Sono dei pazzi»
(pag. 374).
Ed ecco uno dei pazzi e il suo discorso:
«Parla egli della bassezza umana, della violenza
che calpesta il diritto, della vita bellissima
che col tempo ci sarà sulla terra, delle
inferriate alle finestre che gli ricordano ad
ogni minuto la stupidità e la crudeltà degli
oppressori. Ne vien fuori un disordinato,
sconnesso guazzabuglio di motivi vecchi sì,
ma non ancora cantati fino in fondo» (pag.
376).
E dice poco dopo (pag. 377): «E necessario
che la società prenda coscienza di sé e
ne abbia orrore».
Mentre noi, alla fine del ventesimo secolo,
invece di discutere della minaccia
alla specie da parte di strutture sociali
autoritarie, capitaliste o socialiste che
siano, parliamo stupidamente della fine
dell’utopia.
Naturalmente ora tutte le strutture autoritarie,
con tanto di polizie di stato, tortura,
ergastolo, condanna a morte si mascherano
di formalità democratiche del tutto prive di
efficacia.
E anche la psichiatria, invece di sparire,
si definisce «democratica».
Il nostro secolo è eccezionale per la
trasformazione della conoscenza e per la vastità
delle prospettive, e, come si diceva
all’inizio, il vecchio meccanicismo da orologiai
è rimasto in un angolo.
«I cosmologi — si trova a commento di un
articolo de “Le scienze” del Dicembre 1990
“Cosmologi a convegno” di John Horgan —
continuano a rimettere tutte le cose al posto
che loro compete. Non contenti di averci
detto che il Sole non è che uno tra i
miliardi di stelle della Galassia, che a sua
volta è solo uno dei miliardi di galassie
dell’universo, alcuni cosmologi vorrebbero
farci credere che il nostro universo non sia
che uno in una moltitudine infinita di mondi».
E i biologi e i chimici sanno che il nostro
cervello è strutturalmente più complesso
dell’intero cielo stellato.
Così Anton Cechov racconta la storia di
un giovane professore che si smarrisce con
la sua navicella nel mare misterioso della
sua intelligenza, avido nello stesso tempo
di vivere e di conoscere, di sentire e di
immaginare.
Il monaco nero lo porta lontano, da un
miraggio all’altro, nella ricerca antica del-
l’immortalità. Però un giorno arrivano i
medici e le medicine e lo sprofondano nella
morte, dopo averlo ridotto in giorni desolati.
Prima l’aridità poi la fine. «Chiamava
Tànja, chiamava il grande giardino dai fiori
lussureggianti, aspersi di rugiada, chiamava
il parco, i pini con le radici pelose, il campo
di segala, la sua scienza meravigliosa, la sua
giovinezza, la sua audacia, la sua gioia,
chiamava la vita, che era così bella». «…e il
monaco nero gli sussurrava…». «Quando
Varvara Nikolàevna si svegliò e uscì da
dietro il paravento, Kòvrin era già morto e
sul suo viso era irrigidito in un sorriso di
beatitudine» (pag. 443 del libro già citato).
Cechov molto propriamente afferma che
se ci fossero stati i medici, le medicine e i
buoni parenti, uomini come Buddha, Mao-
metto e Shakespeare non avrebbero lasciato traccia.
«Se Maometto avesse preso del bromuro
contro i nervi, avesse lavorato soltanto due
ore al giorno e bevuto del latte, di questo
uomo eminente sarebbe rimasto tanto poco
quanto del suo cane» (pag. 438).
Il fatto è che, spesso, gli psichiatri sono
stati cultori attenti della mediocrità e hanno
considerano gli uomini creativi casi patologici.
Scrive Antonin Artaud (sottoposto lui
stesso a elettrochoc) nel libro “Van Gogh — Il
suicidato della società” (Biblioteca Adelphi
204 — Milano 1988 — pag. 60) che «aveva
ragione Van Gogh, si può vivere per l’infinito,
soddisfarsi solo d’infinito, c’è abbastanza
infinito sulla terra e nelle sfere per
saziare mille grandi geni, e se Van Gogh
non è riuscito ad appagare il desiderio di
irradiarne l’intera sua vita, è perché la società
glielo ha vietato.
Apertamente e consciamente vietato.
Ci sono stati un giorno gli esecutori di
Van Gogh, come ci sono stati quelli di Gérard de Nerval,
di Baudelaire, di Edgar
Allan Poe e di Lautrémont.
Quelli che un giorno gli hanno detto: “E
adesso basta Van Gogh, alla tomba, ne ab-
biamo abbastanza del tuo genio”.
Gli sembrava di essere una bocca di
troppo da sfamare» (pag. 61).
Ora invece è un godimento estetico per
miliardari.
Fa bene Gorbaciov a instaurare di nuovo
l’economia di mercato. Babel, prima di sparire
per mano di Stalin, rifletteva sulla fine
prematura di Guy de Maupassant, probabilmente
distrutto, come Nietzsche, da una
paralisi progressiva, naturalmente considerata
dai medici una forma di pazzia.
Anche Maupassant (1850-1893) è un
contemporaneo di Bleuler. In diversi racconti
parla di follia con il suo stile scarno e
incisivo che ne fa un maestro eccellente
della conoscenza psicologica, un ritrattista
di raro talento e di mano felice.
Gli scrittori profondi sfuggono agli schemi
della psichiatria per pura intuizione come
fanno Shakespeare e Cervantes.
Invece i filosofi non dogmatici vi sfuggono
per ragionamento. Scrive Bertrand Russell
nella “Storia della filosofia occidentale”
(Longanesi 1971 — Terzo Volume — pag.
879) «Lo scetticismo di Hume si basa interamente
sul rifiuto del principio di induzione.
Il principio di induzione, applicato alla
causalità, dice che se si trova che A è molto
spesso accompagnato o seguito da B o non
si conosce alcun caso in cui A non sia accompagnato
o seguito da B, è probabile
allora che alla prossima occasione in cui
sarà osservato A, questo sarà seguito o accompagnato
da B». Questi dubbi di Hume
oggi sono ancora più attuali che ai suoi
tempi. Il filosofo — diceva Nietzsche — farebbe
bene a camminare con un punto interrogativo
sulla schiena. «Ma — osserva
ancora Russell nella già citata pagina —
importante scoprire se esista una risposta a
Hume, rimanendo entro l’ossatura d’una
filosofia del tutto o per lo più empirica. Se
questa risposta non c’è, non c’è neanche
alcuna differenza tra la saggezza e l’insania.
Il pazzo che crede di essere un uovo in
camicia va condannato unicamente per il
fatto che è in minoranza, o piuttosto (dato
che non dobbiamo presupporre la democrazia)
per il fatto che il governo non è d’accordo con lui».
Ma è appunto dal governo che dipendono
le idee degli psichiatri, come abbiamo
potuto ripetutamente osservare. Anche il
protagonista del racconto di Maupassant
“Lettere di un pazzo” comincia il suo discorso
da considerazioni di filosofia della conoscenza,
partendo da una osservazione di
Montesquieu. Montesquieu dice: «Un organo
in più o in meno nella nostra macchina
ci avrebbe fornito un’altra intelligenza».
Molti di noi hanno fantasticato, da svegli
o nel sonno, sulla possibilità immaginaria
di essere una farfalla — come dice il saggio
cinese — o di essere un gabbiano che si ciba
sulle schiume del mare, o un uccello dei
monti che aspetta la sera annidato tra le
rocce, o una formica che si arrampica sulle
radiche degli ulivi, o un pesce degli abissi
dai grandi occhi, che coglie i pochi raggi di
luce che arrivano nei suoi rifugi, o un protozoo
che guizza nelle acque, o un pipistrello
che frequenta la notte: e allora chi
sa in quanti modi appare il mondo, quanti
gli universi che la vita si rappresenta.
Il personaggio di Maupassant riflette. I
nostri organi sono deboli e ingannatori, il
nostro cervello è particolare. Così noi ve-
diamo poche cose e a modo nostro. Molte
di più sono le cose che non vediamo.
E cerca la verità, e si smarrisce. «Vivevo
come vivono tutti, guardando la vita con gli
occhi aperti e ciechi degli uomini, senza
meravigliarsi e senza comprendere. Vivevo
come vivono le bestie, come viviamo tutti
noi, compiendo le funzioni dell’esistenza,
osservando e credendo di vedere, credendo
di sapere, credendo di conoscere quel che
mi circonda, quando un giorno mi sono
accorto che tutto è falso» (Lettera di un
pazzo — Romanzi e novelle — dal volume
intitolato “L’Horla” — Edizione italiana Ei-
naudi 1972 — pag. 253).
Ma, pensando, le presenze invisibili gli
appaiono sempre più reali, certamente
sempre più importanti.
«Mi sono detto: “Sono circondato da cose sconosciute”».
L’infinito di cui parla Artaud a proposito
di Van Gogh.
La necessità di superare la solitudine.
La ricerca del proprio significato. «Mi
sono detto: “Ogni cosa è un essere. Il grido
che passa nell’aria è un essere paragonabile
all’animale”» (pag. 256).
Poi trova nello specchio un essere invisibile
che gli nasconde la sua immagine. Lo
specchio è vuoto: cosa significa?
Ma è solo un’illusione, lo specchio ritornerà
a specchiare come prima. «Rimango
per ore, notti, giorni, settimane, davanti
allo specchio per aspettarlo! Non viene più.
Ha capito che l’avevo veduto. Ma io sento
che lo aspetterò sempre, fino alla morte,
che lo aspetterò senza posa, davanti a questo
specchio, come un cacciatore in agguato.
E in questo specchio comincio a vedere
immagini folli, mostri, cadaveri orrendi,
ogni sorta di animali paurosi, esseri atroci,
tutte le visioni inverosimili che devono tormentare
la mente dei pazzi. Ecco la mia
confessione, caro dottore. Ditemi, che devo fare?».
La risposta attuale sarebbe: «Gli
psicofarmaci, l’elettrochoc, e la casa famiglia».
Basta essere quieti, basta non trasgredire.
L’individuo deve soddisfare le sue esigenze
nei canali prestabiliti.
E a proposito di canali prestabiliti o moralità
dei costumi ecco, sempre con Maupassant,
la storia di un magistrato integerrimo,
un presidente di tribunale «la cui vita
irreprensibile era citata in tutti i fori della
Francia» (Romanzi e novelle — Volume
“Monsieur Parent” — Racconto dal titolo “Pazzo”
— Orpheus libri — Einaudi 1972 — da
pagina 81 pag. 88).
E un diario in cui il magistrato riflette
sulla gioia di uccidere e sulla doppia morale
dello Stato e dell’individuo.
Lui uccide, coperto dalla sua carica, e
per uno dei suoi omicidi fa condannare a
morte un innocente.
Questa ultima prodezza è il suo capolavoro.
«Lo Stato, lui sì può uccidere, perché
ha il diritto di modificare lo stato civile.
Quando ha fatto sgozzare duecentomila
uomini in una guerra, li cancella dal suo
stato civile, li sopprime per mano dei suoi
scribacchini. Ed è finita. Ma noi, che non
possiamo cambiare le carte dei municipi,
dobbiamo rispettare la vita» (pag. 84).
Il rapporto tra la morale individuale e la
morale politica, che è un problema millenario
non risolto, che nel Rinascimento impegna Machiavelli e
Guicciardini, e che è al
centro della riflessione kantiana nella
“Critica del Giudizio”, è anche il tema di fondo di
“Delitto e castigo” di Dostoevskij, e non si può
non affrontarlo senza cadere nel cinismo o
nella sottomissione passiva alle prevaricazioni
dei potenti.
Noi poi, alla fine del ventesimo secolo,
dopo le esperienze di Himmler e di Berija,
e le prodezze dei loro seguaci e imitatori,
sappiamo anche meglio del personaggio di
Maupassant cosa significhi essere segnati o
cancellati dall’anagrafe, oppure essere segnalati
come singoli cittadini o come interi
gruppi culturali nei registri di seconda categoria,
con diritti limitati o senza diritti. Il
nichilismo contemporaneo è la faccia filosofica
di questa burocrazia.
Comunque l’uso di squalificare quelli
che hanno meno potere prima di demolirli
è un costume antico di cui i dominatori
hanno una vasta esperienza lunga nel tempo.
Scrive Simone Weil nel libro “Sulla Germania
totalitaria” (Adelphi 1990) pagg. 238-
239: «I Romani ebbero quasi sempre nei
riguardi dei capi vinti queste maniere da
padrone legittimo che punisce la ribellione.
La cerimonia del trionfo, orribile istituzione
peculiare di Roma, nella quale Cicerone
scorgeva tanta dolcezza, contribuì a creare
questa illusione. Sembrava sempre, stando
ai suoi atti e alle sue parole, che Roma
punisse i suoi nemici non per interesse o
per piacere, ma per dovere. Giunse così,
per contagio, a far nascere in certa misura
nei suoi stessi avversari la coscienza di essere
dei ribelli, cosa che costituiva un vantaggio
inestimabile; perché, come osservava
Richelieu per esperienza, i ribelli, a par-
te tutto, sono sempre di gran lunga i più
deboli. In Erodoto si trova una storia secondo
la quale gli Sciiti, trovandosi a combattere
una truppa di bastardi nati dalle
loro donne e dai loro schiavi, avrebbero a
un tratto lasciato le armi per afferrare le
fruste e avrebbero così messo in fuga i loro
avversari; tale è, in guerra e in politica, il
potere dell’opinione. Il padrone deve aver
sempre ragione, e quelli che punisce sempre torto.
A tal fine è necessaria una notevole abilità.
Due opinioni sulla forza e il
diritto, ambedue errate, ambedue fatali a
a chi vi si affida, traggono in inganno gli spiriti
limitati; gli uni credono che la causa
giusta seguita sempre ad apparire giusta
anche dopo essere stata sconfitta, gli altri
che la forza basta da sola ad avere ragione.
In realtà la brutalità muta ha quasi sempre
torto se la vittima invoca il suo diritto, e la
forza ha bisogno di ostentare pretesti plausibili;
d’altra parte pretesti inficiati da contraddizione
e menzogna sono nondimeno
abbastanza plausibili quando sono quelli
del più forte. Se anche fossero troppo grossolani,
troppo trasparenti per ingannare
qualcuno, sarebbe un errore crederli per
questo inutili; bastano per fornire una scusa
alle adulazioni dei vili, al silenzio e alla
sottomissione degli sventurati, all’inerzia
degli spettatori e, per consentire al vincitore
di dimenticare che commette dei crimini;
ma niente di tutto questo accadrebbe in
mancanza di qualsiasi pretesto, e il vincitore
rischierebbe allora di andare in rovina. Il
lupo della favola lo sapeva». Nei giorni in
cui sto scrivendo si aggiunge il fatto che il
mondo, con i moderni mezzi di comunicazione,
è diventato piccolo e la cultura della
calunnia verso quelli che si vogliono dominare
e del ricatto verso i più deboli raggiunge
rapidamente quasi tutti gli angoli della
terra, distruggendo ogni originalità e rendendo tutto uniforme.
«Ci si possono a volte porre dei problemi
sul modo in cui sono presentati i grandi
avvenimenti politici — dice Henri Jean Martin
nel capitolo “Gli uomini e la libertà” del
testo “Storia e potere della scrittura” Laterza
1990 pag. 527— e sul modo con cui vengono
presentati i fenomeni sociali su catene televisive
apparentemente “neutre” in cui la
presentazione dei fatti non è mai disgiunta
dal commento che ne viene dato. D’altra
parte non va dimenticato che per molteplici
ragioni, in particolare perché l’indagine
sul posto è sempre lunga e costosa, la stampa
scritta e radio-televisiva tende sempre a
riprodurre le informazioni provenienti dalle
cinque grandi agenzie mondiali, tutte
strettamente legate a grandi Stati (Stati
Uniti, Urss, Gran Bretagna e Francia) e, in
mancanza di queste, da altre agenzie legate
a paesi minori, e anche a movimenti di
liberazione. Inoltre non va dimenticato che
l’informazione costituisce una materia particolarmente
plastica, in cui un titolo apparentemente
oggettivo può, in un giornale,
equivalere a un linciaggio, dove l’inquadratura
di un personaggio alla televisione non
sempre è innocente, dove il vocabolario
riveste un’importanza tutta speciale e dove,
per esempio, è molto differente annunciare
che un uomo è stato “assassinato” o “giustiziato”».
La dittatura dei costumi trova dunque
ora il suo massimo di potere con i mezzi
di comunicazione di massa concentrati in
poche mani. Così, in alcuni paesi, qualsiasi
strage, genocidio, bombardamento, uccisione,
tortura, sono normali dal punto
di vista della cultura ufficiale e della psicologia
scientifica, purché risultino al servizio
della ragion di Stato.
Invece un disoccupato col mal di testa
frequenta i centri di Igiene Mentale per
parlare con l’assistente sociale e lo psicologo,
una casalinga sospettata di infedeltà
viene ricoverata nei ricettacoli della psichiatria,
e un giovane che fuma lo spinello
deve andare a scusarsi dal prefetto.
Bernard Mandeville scriveva argutamente
che sia le virtù sia i vizi dell’uomo sono
utili ai governi, se politicamente ben inquadrati.
Ogni singolo, in complicità con gli altri,
rinuncia a se stesso in cambio di un ordine
repressivo e di una sicurezza apparente, e
tutti insieme rinunciano a usare il cervello
per capire: pare che questo sia il «contratto
sociale» più riuscito, almeno finora, per
quello che sappiamo. Il nostro vero problema,
forse, non è la sparizione della specie
come fatto fisico, ma una sopravvivenza
senza pensiero, come nell’incantesimo di
molte novelle, dove tutti dormono in attesa
del risveglio.
«Ma questo vecchissimo mondo — direbbe
Omar Khayyam — alla fine non rimane a
nessuno».
Le fotografie, riprese da Onorio Bianconi,
riguardano viaggi e iniziative culturali del
personale e dei degenti degli Istituti Psichiatrici
di Imola in diverse città d’Italia e d’Europa.-