Violet Gibson e “il mito della malattia mentale” – Eugen Galasso
Violet Gibson, “pazza”, secondo molti storici: la signora Gibson, anglo-irlandese, un tempo adepta di “Christian Science”, nel 1926, vivendo a Roma, dopo un periodo iniziale di entusiasmo per Benito Mussolini, attentò alla vita del “Duce”, finendo praticamente in manicomio per il resto dei suoi giorni, in specie in Inghilterra, definita appunto quale “paranoica” et similia. Diagnosi anche un po’ discordanti, ma tutte convergenti nello stigma di pazzia. Tra l’altro, seguendo un documentario sul tema di prima mattina, vengo a scoprire che esiste ancora (tutto sommato abbiamo superato l’anno 2000 da un decennio e più) un “Centro per lo studio della mente”, accreditato come semi-ufficiale, che si basa su criteri grosso modo inquadrabili tra l’antica frenologia (il cervello e quindi le sue malformazioni quale fonte della “malattia mentale” e le tesi, non molto più “moderne” di uno psichiatra quale il prof.Cassano).
Ora, di Violet Gibson (non sono un biografo del personaggio, non ho letto tutto ciò che si è scritto in merito, ma qualcosa spero di aver capito) si potrà dire che era una “fanatica” religiosa, nell’accezione letterale: da “fan” inglese, inteso come “ventaglio”, ossia qualcosa che oscilla, ma anche “fanatic”, dove “fanatici” lo si può essere di una moda, di una squadra (di calcio o altro), di un partito, di una religione. Forse bisognerebbe dire che la Gibson, figlia di un importante esponente del Partito Conservatore inglese e afferente a quell’ambito di pensiero, culturale e politico, era mossa dalle spinte contraddittorie dell’epoca, oscillanti tra conservazione e rivoluzione. Fascismo e anche nazismo esercitarno un’attrazione “fatale” su molti intellettuali dell’epoca, come anche su personaggi diversi, non definibili “intellettuali” , come anche la Gibson, con tutte le sue contraddizioni e le sue “incoerenze”. Non si vuol certo proporla come ideale e/o come modello emblematico, ma probabilmente, anzi certamente (al di là della valutazione sull’atto compiuto: penalmente colpire il “cavalier Benito” era un reato, in quanto primo ministro, eticamente, secondo chi scrive, era un tentativo di tirannicidio) la reclusione in manicomio le rovinò la vita, dove invece una reclusione di breve durata avrebbe condotto a un compromesso tra i due governi (nel 1926 i rapporti anglo-italiani erano lungi dall’essere completamente rovinati, ben diversi da quelli di un decennio dopo, pur se il carteggio Mussolini-Churchill ci narra un’ “altra storia” ), che forse avrebbe condotto a una liberazione, in patria, della Gibson, persona forse “difficile”, in specie per il milieu nel quale era vissuta e nel quale avrebbe continuato a vivere, ma non “pazza”. Ancora una volta il “mito della malattia mentale” funziona ai poteri, per giustificare determinati comportamenti repressivi, che i poteri stessi vogliono perpetuare… Eugen Galasso
Pubblicato il: 3 January, 2011
Categoria: Notizie