Reflecting:il silenzio – Eugen Galasso


Ogni volta che mi capita di parlare in pubblico di reflecting mi accorgo che il tema e il metodo (ma in realtà è di più; potrebbe essere, se realmente praticato, una concezione di vita) coinvolgono tutte le persone che partecipano a questi incontri. Cerco di riassumere quanto mi pare emerga da due incontri bolognesi, svolti in periodi differenti, a distanza di quasi mezzo anno (novembre 2010-metà aprile 2011), oltre che dagli incontri fiorentini e da quelli svolti altrove, in circostanze e periodi differenti:  A) il reflecting non dà risposte, pone domande formulate insieme (cioè tra reflector e persona coinvolta), quindi , per chi vorrebbe “soluzioni rapide”, queste certamente non le dà;

B) Inserito in un percorso di formazione svolto insieme (tra formatore/formatrice o meglio operatrice/operatore e persona, dove sarebbe meglio dire tra due persone), il reflecting, che non è adatto per persone in condizione di crisi estrema e di disperazione (non faccio qui alcun uso di tassonomie psichiatriche, si tratta solo di fotografare una condizione), ma certamente in tutti gli altri casi (meglio, in ogni altra condizione possibile), può ritenersi non un “passe-partout”, ma senz’altro un metodo che serve a far riflettere la persona su decisioni da prendere, purché non si forniscano consigli (rischiando magari di dare il cattivo esempio…); C) Nella nostra cultura logocentrica, razionalistica, europea, di funzionalismo imposto (l’essere umano o persona è in funzione di…società. produzione, stato etc., non viceversa… una forma “raffinata” di stravolgimento di quanto natura e cultura vorrebbero, sempre che questi  due  termini non vengano assolutizzati) ci “impone” la parola, il lògos-discorso- non tollera il silenzio. Da qui le pur nobili teorie di Jacques Lacan del parlant-e^tre (parlantessere, traducendo in italiano, ma qui la letteralità della resa rischia proprio di essere fuorviante…) e di Victor Frankl (Logoterapia), mentre il silenzio, in specie se prolungato, è “out”. In realtà mistica di ogni religione e gnosi prevedono la  Sighè (silenzio come scelta di vita), ma il produttivismo in cui siamo calati impone di parlare, magari imponendo di dire-ripetere sciocchezze. Con il reflecting l’operatore (operatrice) deve saper non solo tollerare il silenzio, ossia la non-parola (si può “dire” molto senza “parlare”, con la mimica, la gestualità, espressione  paralinguistiche, come borbottii, un”ah…”, “Bah”, “Buh”etc.), ma certo il silenzio può anche essere un rifiuto di dire e allora un buon operatore deve saper far ricorso a metodi non verbali per ristabilire la relazione-comunicazione, senza in alcun modo voler “costringere” e “indurre a parlare” le persone…  Infine un’autocritica: parlerei per ore di reflecting per ore e giornate intere, “divulgandolo” e “trattandone”, ma decisamente più efficaci sono le simulazioni, sono gli esempi di una “messa in scena” del reflecting, che pure non sostituiscono l’originale, ma certo gli si avvicinano, non “pericolosamente”, ma con indubbia efficacia creativa e di riproduzione di una situazione reale. La prossima volta cercherò di fare meglio, proprio in questo senso, cercando di diminuire il carico di parole messe in campo…”Parole che fanno parole…parole che fanno rumore”: erano i versi di una canzone e poesia di parecchi anni fa, di cui non ricordo l’autore. Spero solo di non aver fatto questo, perchè sicuramente non è opportuno fare ciò.

Eugen Galasso

Pubblicato il: 3 May, 2011
Categoria: Testi

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo