DOSSIER IMOLA E LEGGE 180


Intervento di Dacia Maraini: https://www.youtube.com/watch?time_continue=335&v=S9HWr7IjKMc

Scritti di
Alberto Bonetti
Giuseppe Favati
Dacia Maraini
Gianni Tadolini

A cura di G. Favati
Idea Book

 

INDICE


Giuseppe Favati, Dossier. 180 e seguenti – Antonucci: una pratica che disturba 5
Alberto Bonetti, Lettera a Giovanni Berlinguer 19
Delibera degli amministratori dell’Ospedale “S. Maria della Scaletta” 27
Gianni Tadolini, Attenti ai passi indietro 35
Gianni Tadolini, Psichiatria: come volevasi dimostrare 41
Dacia Maraini, Altre grida disperate dal manicomio 45
Documento CGIL, CISL,UIL ospedalieri e Amopi 53
Documento degli amministratori 57
Gianni Tadolini, Dei manicommi. Lettera aperta a Mario Tobino 59
Dacia Maraini, Un’orchestra esegue Mozart all’ex ospedale psichiatrico 65
Dacia Maraini, Imola, festa al Padiglione n. 10 73

 

DOSSIER


180 e seguenti

 

Ed è già un anno dalla legge 180 sull’assistenza psichiatrica in Italia, anticipo della riforma e conseguente servizio sanitario nazionale (sic). Anticipo forse stimolato e anzi frettolosamente concesso per paura del referendum abrogativo dei manicomi, ma pur sempre legge che – è stato detto da amici, compagni, generici e primi attori – porta il segno del lavoro di tanti anni, nasce dalla pratica e dalla storia reale degli uomini, storifica lotte e sofferenze. Credo però che nessuno abbia richiamato subito – e oggi a un anno di distanza il riferimento sarà percepibile – il caso costituzione, la legge “suprema” dello stato democratico, che portava – porta – i segni della storia reale, di tanti morti e torture e sangue, parole riecheggianti voci vicine e lontane ( così Piero Calamandrei), e molto prometteva: una costituzione programmatica cui si è opposto una costituzione materiale , il fascio e il fascismo di norme ( e rapporti sociali) tuttora operanti, vigentissime, spolveratissime. Sempre Calamandrei commentava che, nel riflusso del dopoguerra, ci era stata data, appunto con la carta costituzionale, una promessa di mutamento in cambio del mutamento.
Idem con la legge 180. Senza il lavoro di molti uomini e donne, di tanti gruppi rimasti “sconosciuti”, e ai quali non spetta neppure un veloce rimando in nessuna storia, in nessun ripensamento delle esperienze di psichiatria alternativa o non-psichiatriche (anche nel movimento, anche nei vari anti perdura il processo della nominazione, dell’identificazione rassicurante, del protagonismo trasferito e trasferibile in tutti i luoghi deputati all’informazione, video libro di grande editore foglio culturale di sinistra extra), senza quel lavoro la legge 180 non sarebbe mai venuta. Oggi vi è la possibilità di dimensioni diverse, il no al manicomio ha un suo punto di riferimento formale, e da qui può scaturire una maggiore e più dinamica articolazione del nostro fare, da qui può riprendere una carica di esperienze per sfondamenti della realtà segregata e segregante.
La lotta si è fatta più aperta e al tempo stesso più insidiosa. Proprio perché vi è una estensione di scacchiere, uno spostamento di piani, di livelli, un abbassamento e un’alzata di tiro, accompagnati – se mi è consentita questa metafora – da un eccesso di “citazioni”. Intendo dire che il bersaglio istituzionale manicomio sembra affatto scomparso, e che ospedale generale, territorio, ambulatorio, domicilio diventano parole in abbondanza sulla bocca dei potenti, incitano ad asserzioni spericolate, alla “scoperta” di nuovi paradigmi dell’intervento (socio-sanitario) e del comportamento (umano). Questo accumulo di “citazioni” passa ancora sulle teste della gente, stupefatta. Il relatore della 180, l’on. Orsini, afferma, quagliesco, in Tv: “Tutti i malati devono essere curati a casa”. E’ sempre la promessa di mutamento in cambio del mutamento che non si dà e che non si vuole. Infatti l’Orsini difende, offeso, medici e psichiatri allorchè Basaglia brontola, arcigiustamente e fascinosamente, che i medici vogliono conservare il loro potere mentre il corpo è nostro. Se sono mutati o sono divenuti più sofisticati i quadri teorici entro i quali si muove la classe dominante, nell’immagine di mondo trasmessa dall’alto agli strati inferiori nulla è cambiato dalla formalmente sepolta legge 1904, e regolamenti e ritocchi susseguenti. Un assaggio: art. 60 del R.D. 16 agosto 1909, n. 615, ”Regolamento sui manicomi e sugli alienati”: “Nei manicomi debbono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’Istituto. (…) L’uso dei mezzi di coercizione è vietato nella cura in case private”.
A sua volta Basaglia, alla madre angosciata perché non sa dove battere il capo con il figlio “malato di mente”, nessuno ora le dà una mano ( e chi, e come gliela dava prima?) risponde semplicemente e un po’ misteriosamente per la vastissima platea televisiva: “ ora ha una voce suo figlio, ora lei ha una voce”. Parafrasando e correggendo il manicheismo di Hendy: buono, ma soprattutto meno buono. In alcuni manicomi i “malati” avevano conquistato già una voce, il diritto alle assemblee, a criticare l’istituzione, i medici, gli infermieri, ecc. Nell’ospedale generale no, nell’”ospizio” no, negli ambulatori no. Non si ha diritto mai a una parola. Hanno invece diritto loro, di ignorarti, di usarti, di umiliarti in cento e diecimilauno modi. E non è che questo accada con i vecchi e basta. Il potere medico bada all’età: cambiano solo i tipi di umiliazione del vecchio istituzionalizzato o della giovane donna ricoverata (ad es. certi ginecologi sono tra i maggiori maestri di questo genio criminale, troppo spesso direttamente proporzionale ai loro appelli intenti nella camomilla dello spiritualismo, in difesa usque ad mortem del sacro diritto alla vita).
Lo stesso Basaglia definisce efficacemente l’ospedale generale “un grande manicomio di per sé”. E d’altro canto il cosiddetto territorio è interamente da costruire con i suoi “servizi”, con le sue “unità”, funzioni e plessi di funzioni. Cosicchè tutto resterebbe affidato al fatto che “il sociale – sottolinea Basaglia e non solo lui – entra per la prima volta nell’ospedale generale, e quindi vi entra la contraddizione”. Ma, allo stato, nella dimensione interna e nella dimensione esterna, i figli e le madri possono restare provvisoriamente e paradossalmente con minor voce di prima.
Si tratta di provvisorietà in fondo ineliminabili nelle condizioni date. L’argomento – che sembra tagliare la testa a tutti i tori – “prima le strutture poi la legge” – è sostanzialmente fasullo. Per strappare una legge – e la migliore delle leggi non sfuggirà mai alle ambiguità volute – ci vuole fatica e sangue. Per tradurla nei fatti, ci vuole molta più fatica e sangue. Le “strutture” poi devono essere un risultato in continuo divenire, oppure diventano nuove e più sinistre trappole. Insomma, se per l’aborto in Italia, anziché approvare una pur discutibilissima legge, avessimo atteso la disponibilità delle “strutture” (ossia, in primo luogo, i comodi proprio dei ginecologi suddetti) sarebbe scoccato il duemila.
Allora, finalmente, dovrebbe essere agevole l’accordo su uno dei cuori del problema: posto che la legge 180 è assai meglio ci sia che non ci sia, nessuna illusione sulla persistente segregazione istituzionale e sulle spinte e sui rischi della “dilatazione” psichiatrica. L’ospedale accoglie e cura press’a poco come il manicomio. Certo, se il “malato” rifiuta le cure lo si deve mandare a casa, ma il ricovero obbligato “rimane” una misura di polizia; e se il “malato”, dimesso, continua a disturbare un reato almeno di oltraggio non glielo leva nessun santo; e cos’ via. Sullo sfondo il manicomio giudiziario intoccato e intoccabile anche nominalmente.
Ma la tendenza alla “dilatazione” è irreversibile. Non è questione di prendere atto di una tendenza che lo stesso movimento alternativo ha incoraggiato e doveva incoraggiare, nel senso dell’uscita allo scoperto, esponendosi ai colpi di un uso, e di usi più complessi della catalogazione, della schedatura, della manipolazione, della repressione. Il manicomio, edificio fatiscente ma pur sempre in piedi, rischia di moltiplicarsi negli ospedali e nel territorio, metamorfosandosi. Ciò comporta la necessità – pena la disfatta- di coinvolgere non solo il momento psichiatrico con quello sanitario, ma quelli con tutti gli altri nel contesto sociale. Meglio: di “sciogliere” i primi nei secondi.
E’ quest’ultimo un passo che molti contestatori dei criteri nosografici tradizionali e dei meccanismi della violenza, persone ad elevato grado di qualificazione professionale e di riflessione teorica, stentano a compiere o si rifiutano di compiere. “Forse” – avverte Pirella – “costoro finiscono con il rispondere più ai loro bisogni personali di sopravvivenza culturale, di gruppo, di competizione intellettuale, chiudendosi ad ogni verifica sul reale e producendo nuove ideologie di ricambio” (Il corsivo e mio). E ancora: “… certamente gli scritti di Jervis hanno contribuito a favorire questo ritorno di riflessioni separate dai problemi reali e a produrre esercitazioni su ideologie contrapposte e in concorrenza tra loro (ad es. nel recente Normalità e deviazione di Di Leo – Salvini, editore Mazzotta). Non mi sembra tuttavia che possa essere soltanto il problema di un uomo per quanto intelligente e sofisticato esso sia…”: c’è una propensione abbastanza diffusa a lavorare teoricamente senza confrontarsi con “certe esperienze di lotta”.
Viceversa c’è bisogno di pratiche, e ogni pratica ha un suo costo personale elevato cui l’essere nel mondo da intellettuale tradizionale perennemente si sottrae. Non c’è alcun bisogno di ideologie di ricambio, quali la stessa Antipsichiatria, pur suggestiva e meritoria, d’importazione anglosassone. Pirella dice bene che non interessa una conoscenza psichiatrica ulteriore per confermare il ruolo dello psichiatra, del terapeuta decifratore del senso; “noi non dobbiamo essere esperti della follia…”. I problemi delle persone che chiedono una casa, un lavoro, ecc. “non sono uno spazio per la follia (vedi Amati e altri) ma uno spazio per la vita, il diritto di sopravvivere e comunicare, la libertà di rivendicare e, al limite, di lottare. Noi siamo espropriati della libertà di lottare …” Dove si potrà sospettare qualche fraintendimento: ad esempio, è anche questione di spazio per la “follia”, perché mai no? Certo, senza consentire affatto su Follia=Verità, Cammino verso il Centro della Terra (con un rovesciamento “spiritualistico” somigliante a quello di chi pretende di superare “materialisticamente” gli schemi crociani e post assiomatizzando Poesia=Bellezza, Bellezza=Realtà cioè Lotta di classe). Quel punto però è una discriminante assoluta. Il rifiuto, diciamolo chiaro e tondo, dell’intervento sanitario repressivo a piccola verso grande macchia, dunque della medicina gerarchica e manipolatrice, l’adozione di una pluralità di pratiche non-psichiatriche dentro e fuori l’istituzione.

Antonucci: una pratica che disturba


Fra i più tenaci, estremi, e paganti in proprio, sostenitori di questa modalità di essere e rapportarsi al mondo della segregazione vi è Giorgio Antonucci. Già a Cividale del Friuli, poi a Reggio Emilia, quindi a Imola. Dal reparto in ospedale civile affidato a Edelweiss Cotti nel 1968, trascorsi appena sei mesi fu cacciato, lui e i suoi compagni di lavoro, dalla polizia in pieno assetto operativo. E il reparto chiuso. Da Reggio Emilia, Centro di igiene mentale, fu costretto a andarsene non tanto per intervento determinante del “potere” (anche se collezionò denunce, ma tutte archiviate), quanto di “altro” su cui amici stanno portando in concreto la loro riflessione, una riflessione che mi auguro consentirà chiavi di lettura diverse da quelle di recente offerte per le esperienze reggiane post-68.. All’Ospedale psichiatrico “Osservazione” di Imola dove venne chiamato da Cotti, divenutone direttore, nel 1973, il suo lavoro ha richiesto di nuovo quel costo elevato cui accennavo sopra, e che era ed è inevitabile per chiunque si ponga completamente al di fuori della visualità psichiatrica, vecchia o nuovissima o futuribile, dei meccanismi repressivi-espulsivi come delle teoriche autogratificanti.
La scelta di Imola fu in buona misura obbligata, e quindi non scelta, ma Antonucci, da quel provocatore che è sempre stato, chiese il reparto più duro, quello degli “irrecuperabili”, degli “agitati”. Che era il 14, donne. Successivamente vi si aggiunsero i reparti 10 e 17, donne e uomini. Ricominciò la sua sfida all’ambiente, ai codici diffusi, ecc. e anche a se stesso, non solo nel senso della solita contraddizione vissuta e coscienzializzata (un non-psichiatra in manicomio), ma soprattutto per la resistenza fisica duramente messa alla prova come mai prima. Poiché qui non si scrive una biografia, né si confezionano santini o mezzi busti, né d’altra parte si narrano “miracoli” (è termine che ricorre sulla bocca dei gestori della nostra salute irridenti alla categoria del “socio-politico”), basterà accennare al turno di guardia di un medico il quale aveva eliminato tutti i mezzi di contenzione e i massicci psicofarmaci e si ritrovava, per ventiquattr’ore filate, in conflitto insanabile con la situazione di violenza degli altri reparti dell’O.P. Mentre i colleghi medici, a loro volta, in quei turni di guardia dormivano il sonno del giusto. Quanto al personale di cui c’era bisogno, ci hanno pensato tutti i governi e nella fattispecie Stammati con il suo decreto vietante assunzioni, supponiamo in ragione dell’austerità necessaria alla salvezza del paese e comunque della moralità amministrativa. Ma a onor del vero Stammati non avrebbe impedito di affiancare ad Antonucci un altro aiuto medico.
Disgraziatamente, infatti, la pratica di Antonucci dava risultati eccezionali. Non poche testimonianze informazioni al riguardo si ritroveranno qui di seguito, a cominciare della lunga puntuale lettera di Alberto Bonetti a Giovanni Berlinguer, indispensabile per la comprensione di ciò che è cominciato ad accadere ed è infine precipitato a Imola dopo la legge 180.
“In presenza” dei risultati sono venute le insofferenze e le aggressioni morali contro Antonucci. Quel “dottorino” mostrava, con il contributo determinante degli infermieri e delle infermiere, liberatesi anch’essi da un passato di terrore nei confronti dei “pazzi”, che quei poveracci potevano, ma guarda, ancora parlare, comunicare, camminare, perfino gioire; e via via crescevano le irrisioni di corridoio, le denunce, gli articoli, addirittura i manifesti sui muri della città. Il dottor Antonucci era spesso assente per malattia! Informavano responsabilmente dei sindacalisti, che però non pubblicavano nessun volantino, non affiggevano nessun manifesto per chiarire statisticamente quanti secondi dedicavano gli altri psichiatri all’ospedale e quante ore nei propri studi a contatto ben fruttifero con pazienti privati. Il dottor Antonucci aveva aggredito un medico! Il dottor Antonucci aveva maltrattato una infermiera! Anime pie.
Riassumevano i concetti essenziali i sindacalisti della UIL-Uisao, sciarpa littorio dell’aggressione ad Antonucci: La mafia è forse giunta all’Ospedale “Osservanza”? “…Non ci è possibile tacere ulteriormente di fronte ad episodi che denotano il costante sfacelo in cui il nostro Ospedale è direttamente investito…” e “Il Nuovo Diario”, settimanale cattolico emanazione della Dc di Imola, che coniugava fascismo mafia e compagni. Con gli stessi metodi 50 anni fa si instaurò il fascismo. Anzi codesti compagni (Cotti e Antonucci) sono peggio perché dai fascisti “li distingue solo l’ipocrisia che gli altri – pur fra tante malvagità – non ebbero”. Concludeva a caratteri di scatola il foglio dc: …manca solo la lupara! Che non avrebbero dovuto tardare visto che il potere era ormai nelle mani di “compagni di ferro”, “con licenza di uccidere”
Ma il pianeta terra sarebbe troppo bello se tutto fosse colpa di questa benedetta Dc, e di quei fior di galantuomini che si firmavano Uil. Che facevano nel frattempo gli amministratori locali? Che pensavano e facevano il presidente (socialista) e il consiglio di amministrazione (a maggioranza assoluta di sinistra)? Nel complesso qualcosa di molto simile alla tolleranza meditabonda, anziché all’attiva solidarietà; e in almeno un caso richamavano l’Antonucci in termini disciplinari.
Finale provvisorio. Dopo l’approvazione della legge (ora ex) 180, il consiglio ridistribuiva incarichi e direzione dei padiglioni, con un provvedimento (passato poi all’esame, senza intoppi, del comitato regionale di controllo) che obiettivamente incoraggia i medici ostili durante tutti questi anni alle misure innovative e punisce Antonucci, al quale sottrae la responsabilità dei reparti 10, 14, 17.Significativamente è su “Il Forlivese”, settimanale del PCI del comprensorio di Forlì, che il compagno Gianni Tadolini denuncia il fatto. Senza conseguenze. Alla fine di luglio Dacia Maraini intervista Antonucci per la “La Stampa” e il colpo viene accusato. CGIL, CISL. UIL (ahinoi) ospedalieri e Amopi (nientemeno che l’associazione dei medici di ospedali psichiatrici) richiedono che sia ristabilita la verità contro le calunnie. Il consiglio di amministrazione emana un comunicato parapìm parapàm (più avanti tutti i documenti citati, in versione integrale).
Il problema ha investito ormai la capacità di far politica del PCI forlivese ( e non). Sul versante PSI, in compenso, tutto è silenzio, salvo errori e omissioni; forse si sveglieranno domattina accusando i comunisti di Forlì di essere aggrappati alla ciambella del leninismo.




Sembrerebbe dunque che lo scandalo della riduzione della sofferenza cosiddetta psichiatrica, ribaltando i soliti e men soliti quadri teorici e clinici, disturbi troppo, sia intollerabili a troppi. Certo pretendere la parola nell’ospedale generale e aggiornare le esperienze di lotta sul territorio è ancora socialmente pericoloso. Ma ci rifiutiamo di abbassare il livello di guardia, e di credere che PCI e PSI (senza escludere affatto le responsabilità di raggruppamenti di sinistra di vario segno) siano eguali a certi loro comportamenti degli ultimi degli ultimi anni, inamovibili nelle loro tattiche settantottesche. La critica alle scelte compiute comincia a “tagliare” quelle organizzazioni e quindi tutti noi. Soffocarla, lasciarla cadere importerebbe la complicità senza più scusa alcuna nella degradazione politica generale.


GIUSEPPE FAVATI.
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1) Ciò non significa che, in fatto, le case di cura abbiano eliminato la violenza visibile e invisibile. Ma interessa qui non lo scarto rispetto alla norma giuridica (nei manicomi i mezzi di coercizione da assolutamente eccezionali hanno continuato ad essere assolutamente quotidiani) bensì l’angolatura ideologica degli addetti alla ripetizione del modello sociale esistente.
2)Intervista ad Agostino Pirella, Dal “no” al manicomio alla lotta sul territorio, “Libri oggi”, ottobre 1978.
3)Su Reggio Emilia cfr Giorgio Antonucci e Piero Colacicchi, Intervento popolare al manicomio di S.Lazzaro, “Il Ponte” novembre 1970; Comitato popolare di Ramiseto, Ancora sulle visite al S.Lazzaro, ivi, maggio-giugno 1971; S.Lazzaro. Documenti sulla repressione, a cura di Piero Colacicchi e Aldo Rosselli, ivi, ottobre 1971.
4)Facente parte dell’Ente ospedaliero “Ospedale S.Maria della Scaletta”, Imola.
5)Anche nel senso della sopravvivenza.
6) Cfr una mia nota, L’antimafia a Imola, “Il Ponte”, marzo 1976.
7) Mentre terminava la preparazione tipografica di questo Dossier, il consiglio ha “perfezionato” la sua opera. I medici con la qualifica di aiuto sono stati nominati aiuto-dirigenti. Con un’unica eccezione: Giorgio Antonucci.

 


Lettera a Giovanni Berlinguer

Alberto Bonetti



Onorevole
Professor Giovanni Berlinguer
Camera dei Deputati
ROMA


Firenze, 25 giugno 1978
Caro Collega,
Sono fisico presso la Facoltà di Scienze di Firenze: sento la necessità di segnalare un caso che mi sembra rientri assai bene nel quadro degli interessi che hanno ispirato la tua azione nell’ambito più generale delle applicazioni della scienza delle applicazioni della scienza, e in quello più particolare della medicina e della medicina sociale.
Circostanze personali mi hanno dato l’occasione di conoscere il dottor Giorgio Antonucci, e di seguire il lavoro dal 1967. Psichiatra che ha dedicato la sua azione quotidiana al rinnovamento delle idee e dei metodi in un campo così controverso e così pieno di sofferenza, non solo mi ha dato il suo aiuto nel caso che mi toccava direttamente, ma soprattutto mi ha introdotto alla conoscenza di situazioni e condizioni individuali e sociali che, come la maggior parte della gente, ignoravo sia nella loro sostanza, sia nel tipo di problemi che ponevano e pongono.
La situazione specifica che mi pare importante e urgente portare a tua conoscenza per un eventuale intervento presso la regione emiliana è la seguente.
Antonucci è da 5 anni aiuto (da 3 aiuto di ruolo) presso l’ospedale psichiatrico dell’Osservanza di Imola: è stato ivi chiamato da Edelweiss Cotti, con cui aveva lavorato nel passato (medico volontario nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Cividale, primo e unico reparto di questo tipo in Italia nel 1968, chiuso vergognosamente dopo pochi mesi con un’operazione di polizia).
Cotti, nonostante la grossa responsabilità chi gli ha posto la gestione di un O.P. tradizionale, dotato di personale medico e paramedico di formazione e abitudini tradizionali, ha intrapreso comunque un’azione diretta a modificare le strutture e il modo di operare dell’istituzione, ben prima che fosse iniziata una qualunque azione a livello legislativo. E’ a questo scopo che offrì ad Antonucci di unirsi a lui a Imola all’Osservanza, affidandogli dapprima un reparto (il 14), e, successivamente altri due (il 10 e il 17), a cui di recente ha fatto affluire anche un gruppo di dimessi dai manicomi giudiziari. Essendo egli stesso interamente preso dalle sue responsabilità di direttore, Cotti ha trovato in Antonucci un collaboratore preparato e convinto, che ha trasformato totalmente la situazione dei 3 reparti, come ben sa chi ha visitato l’Osservanza negli ultimi anni. Non solo, d’accordo con Cotti, ha in breve tempo dimesso pazienti con anni, anche decine di anni, di ricovero, creando innanzi tutto le condizioni del reinserimento nel loro ambiente; ma ha preso fin dall’inizio il provvedimento fondamentale, trasformando tutti i suoi degenti da coatti a volontari, facendo cioè riacquistare loro i diritti civili, ciò che dal 1969 era possibile fare perfino nell’ambito della vecchia legge, solo che lo si volesse fare. E’ sottinteso che sono stati aboliti tutti i sistemi di contenzione fisica, a cominciare da inferriate e chiavi, che è stato drasticamente ridimensionato il tipo e l’uso degli psicofarmaci, che è stata organizzata la libera uscita dei degenti, che sono state promosse attività creative e culturali: tutto questo reso possibile dal lavoro di preparazione e allenamento del personale infermieristico, che in tutti i reparti di Antonucci ha seguito con grande impegno le sue direttive.
Inutile dire che tutte queste iniziative e realizzazioni si sono scontrate con l’ambiguità e l’ostilità di tutti gli altri colleghi dell’Istituto, senza eccezione, con polemiche giornalistiche vergognose e azioni giudiziarie, e purtroppo anche con una grossa incomprensione da parte degli organi amministrativi.
Si spiega così il fatto che in 5 anni Cotti non è riuscito a mettere un’altra persona a livello di medico accanto ad Antonucci, che ha potuto contare unicamente sull’aiuto dei suoi infermieri, e ha dovuto difendersi continuamente dagli attacchi diretti e indiretti dei colleghi.
Arriva finalmente la nuova legge, che rappresenta sicuramente un mutamento sostanziale nel modo di concepire e applicare i concetti e le tecniche psichiatriche. Ma paradossalmente, è proprio l’applicazione della legge che sta portando a vanificare i risultati di anni di lavoro e, in buona sostanza, ad impedire ad Antonucci di continuare la sua attività.
Riassumo i fatti:
1) Coll’entrata in vigore della nuova legge (fine maggio), il Consiglio di Amministrazione dell’Osservanza ha proceduto alle nomine dei primari e degli aiuti dirigenti preposti ai dodici reparti + il reparto di osservazione (Villa dei Fiori).
L’organico attuale, evidentemente insufficiente, è il seguente:
1 direttore (Cotti)
5 primari (Pattuelli, Buti, Leoni, Cicognani, Cornacchia)
6 aiuti (tra cui Micco e Antonucci)
I 12 reparti contengono circa 700 degenti (dei circa 1300 presenti all’inizio della gestione Cotti); di essi 147, compresi 6 provenienti da manicomi criminali, sono presenti nei 3 reparti affidati da Cotti ad Antonucci. La situazione è aggravata dal fatto che, di fronte al disposto della legge che stabilisce il limite di 125 degenti per primariato (o dirigenza), il direttore diventa un direttore sanitario, e perciò non può più avere funzioni di primario presso i reparti.
2) Il Consiglio di Amministrazione provvede a riassegnare i reparti fra i primari e gli aiuti presenti, e in particolare incarica come dirigente l’aiuto dott. Micco (reparto osservazione Villa dei Fiori). Il lavoro viene completato nella seduta del 14 giugno scorso, assegnando al primario dott. Cicognani i 3 reparti di Cotti, da questi affidati ad Antonucci. Data la differenza di orientamento politico, culturale e terapeutico, questo significa, dopo 5 anni, la sconfessione del lavoro di Antonucci (e, implicitamente, di Cotti) e la pratica impossibilità di continuarlo, e perciò il ritorno di circa 150 degenti alle condizioni tradizionali di un ospedale psichiatrico.
3) Cotti ha immediatamente preparato una dettagliata lettera-esposto, che mette in evidenza le ragioni giuridiche e tecniche contro la decisione del Consiglio di Amministrazione, che non ha nominato Antonucci aiuto-dirigente e non gli ha conservato l’affidamento dei 3 reparti di cui si era occupato a pieno tempo e con piena responsabilità per 5 anni. La lettera deve passare davanti al Comitato di Controllo, che, a partire dal 14.6, ha 25 giorni per fare obiezione, senza di che allo scadere dei 25 giorni la delibera diventa operante. Ignoro gli orientamenti della C. di Controllo, la cui funzione in questo momento è particolarmente delicata, perché è l’organo che può stravolgere completamente lo spirito della legge.
4) Ho parlato di orientamento “politico”; è infatti ormai chiaro a tutti che il problema della psichiatria investe profondamente le strutture economico-sociali e le condizioni culturali e ambientali, e qualunque tipo di riforma o di controriforma è legato al modello di società e alle decisioni di tipo politico che ad esso si riferiscono.
E’ stupefacente perciò che un’amministrazione a maggioranza di sinistra (3 socialisti, fra cui il presidente Morozzi; 3 comunisti; 1 repubblicano; 2 democristiani) in una regione con una lunga tradizione di governo di sinistra mostri una così totale mancanza di comprensione del lavoro svolto da Antonucci (e perciò anche da Cotti), cioè da due suoi uomini (sono anche entrambi iscritti al partito comunista, se non bastasse il tipo e il metodo del lavoro svolto), e promuova ad aiuto dirigente il dott. Micco, e comunque accetti, e perciò incoraggi il gruppo di primari che, simpatie politiche a parte (tutte di destra), hanno dimostrato chiaramente in questi anni di non sapere o volere seguire i nuovi orientamenti, quelli che ora costituiscono lo spirito della legge.
5) Mi sembra solo giusto cercare di impedire che l’applicazione della nuova legge sia fatta in modo tale che per ragioni puramente formali si arrivi ad annullare il lavoro svolto contro le obbrobriose vecchie leggi, e contro una non meno obbrobriosa e vecchia < cultura>. Accettare decisioni come quella presa a Imola significa accettare che 150 persone che avevano ritrovato una qualche dignità di vita e si preparavano in gran parte al reinserimento, ricadano nello stato degli anni scorsi, vanificando la riacquisizione per legge dei loro diritti civili e politici. Accettare simili decisioni significa accettare che un gruppo di 60 infermieri venga sconfessato e umiliato, e ricondotto alla mansione di carcerieri, dalla quale si erano liberati con coraggio e con impegno.
Accettare simili decisioni significa infine colpire ingiustamente una persona, che da anni cerca di realizzare nella pratica di tutti i giorni quelli che ora sono diventati gli orientamenti ufficiali addirittura a livello di legge. O anche in questo caso dobbiamo dire che tutto deve cambiare perché nulla cambi?
6) Mi sembra infine giusto ricordare che prima di andare a Imola Antonucci aveva operato per alcuni anni a Reggio Emilia dove, nell’ambito dell’attività dei Centri di Igiene Mentale, si era occupato dei problemi del territorio, come ora si dice, studiando e operando presso le comunità montane da una parte, e presso le comunità di fabbrica dall’altra, dove ha stimolato la formazione di gruppi di operatori di alta qualità (cito il nome dell’infermiere Ivano Prandi); dove si è scontrato con le consuete grosse ostilità provenienti dai gruppi politici conservatori; e dove è stato difeso in varie occasioni dal sindacato comunista, attualmente senatore, Bonazzi.
Mi accorgo di aver scritto un documento lungo, ma mi è sembrato necessario fornire abbastanza dettagli da permettere, se lo ritieni conveniente un intervento che mi sembra pienamente giustificato: come ho ricordato al punto 3, la Commissione di Controllo può far riprendere in esame la decisione presa il 14.6, purché si esprima in tale senso entro il 5 luglio.
Sono a disposizione per chiarimenti e informazioni, il mio telefono è (055) 4378540 di giorno (Cattedra di Fisica dello Spazio) e (055)282845 di sera a casa.
Ringrazio vivamente per l’attenzione e saluto cordialmente.


Alberto Bonetti


 


Delibera degli amministratori



Oggi, giorno di giovedì 8 del mese di giugno dell’anno 1978, in Imola nella sede dell’Ente Ospedaliero “Ospedale S. Maria della Scaletta”, in seguito ad invito diretto a ciascuno dei componenti il Consiglio di Amministrazione si sono personalmente convocati i Signori:
Morozzi Celso —— Presidente
Masi Osvaldo —— Consigliere Anziano
Gaiani Giulio —— Consigliere
Manueli Elmo —— Consigliere
Scompacini prof. Ezio —— Consigliere
Tassinari geom. Silvano —— Consigliere
Valvassori p. a. Giorgio —— Consigliere
Zani dr. Illio ——Consigliere
Assente giustificato:
Villani dr. Luigi ——Consigliere


Riconosciuto che i presenti sono in numero legale per potere validamente deliberare, il Presidente
Signor Celso Morozzi
Assistito dal sottoscritto Direttore Segretario Generale dichiara aperta la seduta per trattazione dei seguenti argomenti. E’ presente il Direttore Sanitario dell’Ospedale Civile Prof. Riccardo Lucini per gli oggetti n.1 e n.2.
Omissis
n.182 OGGETTO II
INDIVIDUAZIONE DEI REPARTI DELL’OSPEDALE PSICHIATRICO DA ATTRIBUIRE ALLA DIREZIONE DEI MEDICI PRIMARI DELL’ISTITUTO PER EFFETTO DELL’ART. 9 DELLA LEGGE 13.5.1978, N.180.
IL CONSIGLIO
—— considerato che l’art. 8 della Legge 13.5.1978, n. 180, sancisce a carico dei primari ospedalieri delle divisioni psichiatriche specifici adempimenti sia in ordine ai degenti già ricoverati al momento dell’entrata in vigore della legge predetta per i quali ritengono necessario il proseguimento del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, sia in caso di dimissioni dei ricoverati, che di cessazione delle condizioni che richiedono l’obbligo del trattamento sanitario;
—— preso atto che presso i dipendenti Istituti Psichiatrici i vari reparti di degenza non sono tutti affidati alla responsabilità di Primari e che, pertanto, occorre provvedere in merito alla precisa attribuzione di tale responsabilità quale decisione preordinata all’esecuzione dei sopraccennati adempimenti, da espletarsi entro il 16.8.1978 con comminatoria di sanzioni penali, nonché per un definitivo assetto organizzativo conforme alla disposizione di cui all’art. 9 della Legge n. 180 prima richiamata;
—— tenuto presente che il dipendente Ospedale Psichiatrico è costituito attualmente da n. 13 padiglioni funzionanti che accolgono complessivamente circa n. 710 degenti, oltre all’Istituto Neuropsicodiagnostico “Villa dei Fiori” che ricovera attualmente circa n. 90 degenti;
—— constatato altresì che i medici con funzioni di Primario addetti all’Ospedale Psichiatrico risultano attualmente in numero di cinque (di cui quattro di ruolo ed uno incaricato) oltre a tre sanitari titolari di posti di Aiuto;
—— visto il riferimento – in atti al prot. N. 5085 – col quale il Direttore degli Istituti Psichiatrici, su conforme parere del Consiglio Sanitario, propone che la responsabilità della Direzione dei padiglioni psichiatrici sia affidata ai Primari e all’Aiuto sotto indicati, secondo i raggruppamenti di cui appresso:
Omissis
<< Dr. Patuelli, reparti 4 e 5; Dr. Cicognani, Villa dei Fiori e 11; Dr. Prof. Leoni, 7-8 e repartino dei tubercolosi; Dr. Cornacchia, 15-12 e repartino epatitici; Dr. Buti, 6-13-19; Dr. Antonucci, 10-14-17. Per il Dott. Antonucci aiuto se l’Amministrazione ritiene che come aiuto non possa tenere i reparti provveda a nominarlo aiuto dirigente: operazione giustificata dalla particolarità dei suddetti reparti >>;
—— preso atto che i padiglioni 10, 14, e 17 (per complessivi 138 posti) che secondo la precedente proposta del Consiglio Sanitario dovrebbero essere assegnati al Dott. Antonucci, costituiscono una Divisione di psichiatria che deve essere affidata alla responsabilità di un Primario a norma dell’art. 9 della L. 13.5.1978, n. 180 e del combinato disposto degli artt. 1 e 2 – I comma – della L. 18.3.1968, n. 431;
—— ritenuto inopportuno, nell’attuale fase di ridimensionamento degli Ospedali Psichiatrici, procedere alla copertura di un posto di Primario oltre le cinque unità in servizio con tale qualifica;
—— preso atto altresì dell’incompletezza delle predette proposte del Consiglio Sanitario in quanto non prevedono la sostituzione, in caso di assenza o di impedimento delle cinque unità mediche con funzioni di Primario, da parte delle tre unità mediche con qualifica di Aiuto in forza presso gli Istituti Psichiatrici;
—— ritenuto che, anche per quanto concerne l’Istituto “Villa dei Fiori”, è da prevedere, alla stregua di una Divisione Psichiatrica, l’affidamento della relativa responsabilità ad un Primario dell’Ospedale Psichiatrico, nella specie indicato nella persona del Medico Primario Dott. Cicognani, salvo il proseguimento dell’assolvimento da parte di tale Istituto delle funzioni di assistenza di ricoverati volontari acuti e di filtro rispetto all’Ospedale Psichiatrico con una prospettiva di contrazione della relativa attività correlativamente al potenziamento dei servizi psichiatrici extra ospedalieri nel territorio della regione, in coordinamento con le iniziative delle competenti Province di Ravenna e di Forlì;
—— ritenuto, altresì, con l’occasione, di prendere atto ad ogni conseguente affetto di legge e di regolamento, che a decorrere dall’entrata in vigore della precitata legge n. 180/1978, il Direttore dell’Ospedale Psichiatrico assume le funzioni proprio del Direttore Sanitario (funzioni igenico-organizzative) ex artt. 4 e 5 del D.P.R. 27.3.1969, n. 128;
—— preso atto altresì che per l’attuazione immediata della L. n. 180/1978 l’Amministrazione ha già emanato disposizioni per le vie brevi fin dal primo giorno di entrata in vigore della legge stessa;
—— sentito il Direttore degli Istituti Psichiatrici, il quale per i motivi evidenziati nel parere del Consiglio Sanitario è contrario alla ripartizione proposta dal Presidente;
—— raccolto il parere favorevole del Direttore- Segretario Generale;
—— previa ampia ed approfondita discussione;
—– a voti unanimi, espressi nelle forme di legge;
DELIBERA:
I. di assegnare, per i motivi contenuti nelle premesse, alla direzione ed alla responsabilità dei Primari di cui appresso i sotto indicati padiglioni dell’Ospedale Psichiatrico, nonché l’Istituto Neuropsicodiagnostico “Villa dei Fiori” e con la previsione della sostituzione all’occorrenza da parte dei seguenti Aiuti, con l’intesa che, nei casi di assenze impreviste contemporanee, il Direttore Sanitario degli Istituti Psichiatrici dovrà assumere a norma dell’art. 5 del D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, tutti i provvedimenti necessari per assicurare comunque le esigenze di servizio:
Primario
Padiglioni assegnati
Aiuto incaricato della sostituzione in caso di assenza o impedimento.


Dr Paolo Buti 6, 13 e 19 Dr. Giampaolo Finzi Vita
Primario di ruolo


Dr Eros Cicognani 10, 14, 17 e Villa dei Fiori Dr. Giorgio Antonucci
Primario di ruolo


Prof. Giorgio Leoni 7, 8 e Sez. T.b.c. Dr. Vincenzo Alvisi
Primario di ruolo


Dr. Alvaro Patuelli 4 e 5 Dr. Vicenzo Alvisi
Prmario di ruolo


Dottor Valentino Isolamento Dr. Giampaolo Finzi Vita
Cornacchia, 11, 12, 15 e Sez.
Primario incaric. Isolamento


II. di prendere atto, ad ogni conseguente effetto di legge e di regolamento, che, in base all’art. 9 della Legge 13.5.1978, n. 180, a decorrere dal 17 maggio 1978, il Direttore dell’ospedale psichiatrico ha assunto le attribuzioni proprio del Direttore Sanitario (funzioni igenico-organizzative) secondo il combinato disposto degli artt. 4 e 5 del D.P.R. 27.3.1969, n. 128;
III. il presente provvedimento ha effetto immediato, salvo gli effetti decorrenti dalla data di entrata in vigore della L. n. 180/1978 più volte citata, secondo le precisazioni contenute nelle premesse.
Omissis
Letto il presente verbale approvato e sottoscritto.
F.to Celso Morozzi
>> Osvaldo Masi
>> Giulio Gaiani
>> Elmo Manueli
>> Ezio Scomparcini
>> Silvano Tassinari
>> Giorgio Valvassorri
>> Illio Zani
IL DIRETTORE SEGRETARIO GENERALE
F. to dr. Mario Vagnozzi


 


Attenti ai passi indietro

Gianni Tadolini


La legge del 13 maggio 1978 n. 180, che stabilisce la nuova regolamentazione per il trattamento sanitario di persone con problemi psichiatrici, ha trovato le strutture socio-sanitarie, territoriali ed ospedaliere, fortemente impreparate a riceverla.
Questa normativa, a nostro avviso vale nel suo complesso in quanto prevede nettamente il superamento dell’istituzione psichiatrica manicomiale, è stata calata in quella situazione di grande arretratezza culturale e strumentale che, a livello giuridico, si esprimeva nella vecchia legge del 14 febbraio 1904 n. 36.
Con l’abrogazione di quest’ultima, anche nella nostra provincia, il problema dell’assistenza psichiatrica si è manifestato in tutta la sua intensità. Intanto, in base all’art. 6 della nuova legge, il numero dei posti-letto utilizzabili presso l’Istituto Neuropsicodiagnostico “Villa dei Fiori” (adiacente all’Ospedale Psichiatrico “Santa Maria della Scaletta”) di Imola, è notevolmente diminuito. “Villa dei Fiori” è una delle poche unità di ricovero esistenti in Romagna e dovrebbe coprire le esigenze delle province di Forlì e Ravenna; esigenze che, d’altro canto, sono di gran lunga superiori alle possibilità dell’Istituto stesso. Questa drastica riduzione dei posti-letto e dei tempi di degenza, se da un lato deve essere valutata in senso positivo, in quanto propone decisamente l’assistenza sanitaria territoriale e non istituzionale, viene ad evidenziare, dall’altro, la precarietà organizzativa delle strutture territoriali (C.I.M.) che non riescono a fronteggiare adeguatamente le richieste dell’utenza.
A questo punto solo una decisa volontà politica di creare un serio piano di intervento nel settore può impedire il caos in una situazione già esplosiva. Ben sappiamo che la risoluzione di questi problemi non dipende soltanto dalla decisione delle amministrazioni locali, ma piuttosto da una complessa elaborazione programmatica a livello nazionale. Ricordiamo ad esempio che il “Decreto Stammati”, tutt’ora vigente, vietando l’assunzione di un nuovo personale, costringe i consorzi alla precarietà numerica degli operatori.
Pur tuttavia una gestione qualitativamente diversa dell’assistenza, implicita nella legge del 13 maggio, può aprire notevoli prospettive; e significa gestione di base, non verticistica e settorializzata. La legge, sempre all’art. 6, impone che i servizi territoriali siano con quelli ospedalieri.


Nella nostra situazione ciò significa che a livello operativo occorre una stretta interrelazione tra l’ospedale di Imola, il C.I.M., e il Consorzio e gli assessorati competenti di Forlì.
Molti, compreso lo stesso direttore dell’Ospedale Psichiatrico prof. Edelweiss Cotti, lamentano la debolezza del rapporto tra gli amministratori dei territori e gli organi direttivi dell’ospedale di Imola. Vogliamo ricordare che se il piano di attuazione della nuova legge psichiatrica viene lasciato in mano a persone il cui modo di pensare e di essere si può definire solo se si considera questo termine in senso molto approssimativo, rischiamo che la situazione dell’Ospedale Psichiatrico di Imola retroceda di dieci anni. Sappiamo ad esempio che all’interno dell’ospedale sono assai pochi i medici che operano con criteri diversi da quelli della psichiatria tradizionale. Un ottimo lavoro è stato fatto nei reparti 14-10-17, dove ogni sistema coercitivo è stato soppresso, e un certo cambiamento positivo si è realizzato anche in qualche altro reparto, ma purtroppo, in molte realtà, esistono ancora i mezzi di contenzione, dosi altissime di psicofarmaci, tendenze fortemente autoritarie e repressive. Dato che le future attribuzioni in materia sanitaria del personale medico saranno stabilite secondo le norme del Decreto Presidenziale del 27 marzo 1969 n. 128 come previsto dall’art. 9 della nuova legge psichiatrica, vi sarà una ristrutturazione delle cariche. Ad esempio, la possibilità che assieme al dott. Antonucci (medico aiuto dei reparti prima citati) venga posto un primario con idee ben diverse dalle sue, è tutt’altro che remota.
Antonucci, dopo anni di durissimo lavoro in senso anti-psichiatrico, rischia di vedersi tornare in reparto le fasce di contenzione, le sbarre alle finestre, le porte chiuse a chiave ed una valanga di psicofarmaci. Al momento attuale sembra che l’amministrazione dell’ospedale di Imola non voglia considerare questo aspetto del problema.
Appare dunque assolutamente necessaria la presa in esame della situazione da parte delle varie componenti politiche del territorio. Rivolgiamo pertanto l’invito agli amministratori, agli operatori sociali ed ai compagni, a farsi promotori di iniziative atte ad impedire lo snaturamento dello spirito della legge del 13 maggio 1978. Non dobbiamo dimenticare che nel manicomio di Imola sono ancora più di 400 nostri concittadini.
GIANNI TADOLINI
(Il Forlivese, 1° luglio 1978)


 


Psichiatria: come volevasi dimostrare


Gianni Tadolini

Egr. Signor Direttore,
in un mio articolo, apparso sul numero del 1° luglio 1978, invitavo i compagni ad una riflessione su alcuni gravi problemi manifestatasi con l’entrata in vigore della nuova legge psichiatrica del 13 maggio 1978 n. 180. In particolare sottolineavo il pericolo di una situazione involutiva nell’Ospedale Psichiatrico “Santa Maria della Scaletta” di Imola, che ospita i ricoverati della nostra provincia, quindi la necessità di iniziative atte ad impedire lo snaturamento della nuova legge. Invio la presente perché credo doveroso informare i lettori che i gravi episodi, ipotizzati come possibili nel mio precedente articolo, si sono puntualmente verificati in questi giorni. Infatti è stata decisa la nomina del Dott. Cicognani come primario dei reparti “10, 14, 17” che fino ad oggi erano gestiti dal Dott. Giorgio Antonucci.
Nonostante la stima ed il rispetto che ho per il Dottor Cicognani, ritengo che tale provvedimento possa danneggiare notevolmente il durissimo lavoro anti-psichiatrico portato avanti per anni dal Dott. Antonucci, per le profonde diversità ideologiche e metodologiche dei due medici. I reparti “10, 14, 17” che Antonucci ha impostato in maniera radicalmente diversa dai restanti padiglioni dell’Ospedale, rappresentano, nella storia della psichiatria italiana, un valido e coraggioso esempio di de-psichiatrizzazione e di valutazione realmente alternativa della cosiddetta “malattia mentale”. Il Dott. Cicognani, pur essendo indubbiamente un medico valido ed onesto, è uno psichiatra tradizionale, e assai difficilmente potrà condividere l’impostazione fino ad ora seguita. Il pericolo di veder stroncata un’esperienza di alto valore politico e scientifico come quella condotta dal Dott. Antonucci ha indotto i compagni Alberto Bonetti, docente di “Fisica dello Spazio” all’Università di Firenze, Giovanni Berlinguer, deputato al Parlamento, ed il Senatore Bonazzi del gruppo senatoriale del PCI, ad interessarsi della vicenda, fino ad ora, senza esito positivo.

GIANNI TADOLINI
(Il Forlivese, 29 luglio 1978)



ALTRE GRIDA DISPERATE DAL MANICOMIO

DACIA MARAINI
Gli istituti psichiatrici chiusi sono dei luoghi di tortura, delle sepolture….
Giorgio Antonucci non ha niente del medico tradizionale, indaffarato, autoritario, privo di abbandoni che siamo abituati a conoscere. La sua faccia triste esprime una dolcezza morbida, acuta, quasi dolorosa. I suoi occhi sono pieni di una timida assorta attenzione.

-Ma la nuova legge, la riforma ha cambiato qualcosa?-, gli chiedo.
Certo, ha cambiato in meglio…Ma i medici sono sempre gli stessi di prima e hanno un’idea punitiva e inquisitiva della psichiatria.
-Quindi è un po’ come l’aborto: fatta la legge non si riesce ad applicarla per l’ostruzionismo di chi tiene il potere negli ospedali-.
E’ così infatti… Nel mio caso quei sepolti vivi che dopo cinque anni di lavoro durissimo avevo riportato alla vita, rischiano di tornare in stato di prigionia.
-Puoi raccontare cosa è successo?-.
L’ospedale in cui lavoro, l’Istituto psichiatrico di Imola, sta cambiando struttura in seguito alla riforma. E il lavoro che abbiamo fatto coi degenti rischia di saltare per aria per l’ostilità dei nuovi dirigenti.
-Ma prima chi ti appoggiava?-.
Io sono stato chiamato a Imola da Cotti (direttore dell’Istituto) che voleva cambiare le strutture tradizionali. Ma presto ci trovammo tutti contro, medici e personale.
-Cosa facevi di così scandaloso?-.
Per prima cosa chiesi di lavorare nel reparto dei più pericolosi, i cosiddetti “irrecuperabili”.
-Irrecuperabili cioè non guaribili, è questo che vuol dire?-.
Per i medici tradizionali queste persone hanno un difetto nel cervello, quello che viene chiamato malattia mentale, un difetto che non gli permette di avere una vita sociale accettabile. Secondo la legge, che ora è stata abolita, erano segregati perché pericolosi a se stessi e agli altri, propensi a creare scandalo pubblico.
-Malattia mentale quindi qualcosa di fisiologico, di interno?-.
Sì, più o meno un guasto al cervello, derivante da una debolezza congenita. Secondo me invece i degenti non hanno assolutamente niente di diverso dagli altri, solo che si sono trovati in situazioni sociali difficili, di svantaggio nei riguardi del potere.
-Quindi per te la cosiddetta malattia mentale è esclusivamente un prodotto sociale?-.
E’ nel ’68 che si è cominciato a discutere pubblicamente sull’esistenza o meno della malattia mentale. Io ho lavorato con Basaglia nel ’69. Lui la malattia mentale la vede come una cosa dinamica che investe le persone meno resistenti. Per me la psichiatria è un’ideologia che nasconde i problemi reali delle persone ricoverate. Freud stesso diceva che occupandosi dei conflitti nevrotici aveva smesso di fare il medico e si era messo a fare il biografo.
-E cosa pensi di quei conflitti arcaici che si pensa superino i problemi sociali e mettano radici nel profondo dell’inconscio?-.
Non si possono applicare le categorie di Freud ai braccianti calabresi perché Freud analizza i borghesi dell’Ottocento.
-Quindi non credi all’universalità del complesso di Edipo, per esempio?-.
No, decisamente… Il complesso di Edipo nasce in un certo tipo di famiglia, in una data situazione, in una data cultura.
-E quali sono i tuoi metodi di lavoro a cui i medici sono così ostili?-.
Ti faccio un esempio: quando arrivai a Reggio Emilia incontrai una donna, Santina, di 40 anni, che lavorava nelle montagne reggiane, era moglie di un muratore, aveva tre figli, era stata ricoverata molte volte. Per i medici aveva qualcosa di guasto da curare. Le facevano l’elettroshock. Io andai a parlare con la famiglia, con lei, col marito. Venne fuori una storia drammatica; Santina era figlia di contadini, giovanissima aveva fatto la domestica a Genova subendo una serie di esperienze traumatiche. Poi era tornata al paese, si era sposata. Ma ogni volta che aspettava un figlio stava male e il marito l’accompagnava all’ospedale. Qui la riempivano di psicofarmaci e le applicavano gli elettrodi. Per la famiglia quel suo uscire e entrare dall’ospedale era normale.
-E’ guarita poi Santina?-.
Sì… Intanto ho eliminato gli psicofarmaci e l’elettroshock, poi ho parlato col marito, col sindaco del paese, coi vicini. Col marito ho avuto una discussione dura, una lite. Ma dopo le cose sono cambiate. Santina non è più stata ricoverata e quando è rimasta di nuovo incinta non è stata più male.
-Quindi analisi della situazione reale in cui vive la persona che sta male più che del suo inconscio-.
L’atteggiamento del medico è importantissimo. Non si può avere rapporti di fiducia con persone che non consideri uguali a te. I medici trattano i ricoverati come degli inferiori e loro rispondono con la violenza o l’apatia.
-Mi dicevi che hai lavorato soprattutto in reparti di donne…-.
Le donne spesso sono dentro per ragioni di costume, per aver trasgredito la morale comune. A Imola ho liberato una donna che era stata internata perché ragazza madre. Da 26 anni stava legata al letto. Le ho chiesto perché l’avevano chiusa. E lei mi ha detto: “Perché sono schizofrenica”. Ho insistito chiedendole perché secondo lei era stata chiusa. E alla fine mi ha detto: “Perché mi piacciono gli uomini”. Testuale. Dopo un anno di lavoro l’ho dimessa. Il problema spesso è di trovare qualcuno che le accolga. Lei per fortuna aveva un fratello che l’amava e l’ha accolta in casa”.
-Da un libro che è uscito nelle Edizioni delle donne infatti risulta che la maggior parte delle donne vengono internate per trasgressioni ai doveri sessuali o casalinghi, cioè per rifiuto del ruolo tradizionale-.
Quando io entrai nel reparto delle irrecuperabili i medici mi ridevano dietro. C’erano donne legate da dieci, venti anni, che non erano più capaci di parlare, di camminare, di mangiare. Io le slegai. Tutti si aspettavano la catastrofe. Fra l’altro c’era stato il precedente di un medico che aveva dato l’ordine di slegarle e poi se n’era andato. Le donne abituate alla costrizione, con tutta l’angoscia che avevano dentro, appena slegate hanno cominciato a picchiarsi. E subito naturalmente le avevano rilegate.
-E tu come hai fatto?-
Io le ho slegate, ma non tutte insieme, due per volta e poi stando presente, parlando con loro, con le infermiere. Poi feci aprire le porte, levare le inferriate. Il reparto era chiuso come una fortezza. Infine fra lo scandalo dell’istituto, le feci uscire nel arco. Il lavoro più duro era, giorno per giorno, ridare fiducia in sé, la capacità di essere indipendenti.
-E ci sei riuscito?-.
Dopo tanti anni di letto, legate mani e piedi da cinture di pelle, la camicia di forza e qualche volta, come ho visto addosso a una contadina che aveva l’abitudine di sputare, una specie di museruola di plastica che le chiudeva la bocca, si faceva tutto addosso, non volevano vestirsi, non camminavano. Non riuscivano neanche a mangiare – molte avevano i denti davanti spezzati sia per gli elettroshock che per l’uso dello scalpello quando si rifiutavano di aprire la bocca – avevano i muscoli atrofizzati. Era come fare rivivere dei morti.
-E il personale come reagiva?-.
Le infermiere prima avevano paura: paura delle malate – abituate ad essere legate come cani quando venivano slegate in effetti mordevano – paura dei medici che le consideravano delle serve e anche le usavano come terreno di caccia. Da principio quindi hanno fatto difficoltà ma poi credo che sia stato un sollievo anche per loro.
-E quanti reparti hai aperto con questo sistema?-.
Dopo il 14, il più difficile, ho aperto il 10 e poi il 17 maschile, anche quello considerato irrecuperabile. Nel frattempo è cambiato qualcosa, altri reparti provavano ad aprirsi, anche se a metà.
-E ora?-.
Ora con la riforma, Cotti non è più direttore dell’Istituto psichiatrico, le sezioni dipendono dal primario. E questo primario non crede assolutamente ai metodi che uso io. Lui è per i vecchi sistemi dell’elettroshock, della camicia di forza, degli psicofarmaci i 147 degenti che ora stanno slegati rischiano di tornare in cattività.
-Cosa si può fare per evitarlo?-.
Parlare, fare sapere alla gente come stanno le cose. Quando io ho detto alla madre di quella donna che stava legata da 20 anni che sua figlia non avrebbe mai dovuto essere legata, si è messa a piangere: “A me nessuno ha mai detto una cosa simile”. La gente non sa, si affida ai medici e non immaginava che la maggior parte dei casi sono dovuti a conflitti facilmente risolvibili. I medici, anziché guarirli, li puniscono, li legano, li rendono inoffensivi….
-Fanno i poliziotti insomma anziché i guaritori-.
Legare una donna per venti anni a un letto vuol dire ucciderla….
-Quindi queste donne dimostrano una grande forza non facendosi distruggere del tutto…-.
Infatti… Se le avessi viste quando sono uscite nel parco la prima volta… Rovinate come sono, coi denti rotti, i muscoli atrofizzati, la lingua inarticolata… Erano felici ed esprimevano questa felicità con grande vitalità. Tornare a legarle sarebbe un crimine.

Credo che non ci sia bisogno di commenti a questo dialogo con Antonucci. Io stessa l’anno scorso qui a Roma ho seguito un esperimento di un gruppo di ragazzi che hanno “liberato” degli handicappati. Costoro prima (chiusi e rimpinzati di pillole) non parlavano, non mangiavano da soli, e non potevano uscire. Dopo un anno di lavoro in comune giravano il quartiere da soli, andavano a lavorare, discutevano, partecipavano, decidevano come gestire i soldi, ecc… E non si tratta di beneficenza ma di una migliore convivenza di tutti. Rinchiudere e legare chi appare diverso è come chiudere e legare una parte di noi, forse la migliore, certamente la più carica di originalità e di sensibilità.
DACIA MARAINI
(La Stampa, 26 luglio 1978)


 


DOCUMENTO CGIL, CISL, UIL OSPEDALIERI E AMOPI
DOCUMENTO DEGLI AMMINISTRATORI



Le scriventi OO.SS. unitamente all’AMOPI sono venute solo ora a conoscenza di una intervista rilasciata dal Dr. ANTONUCCI al quotidiano “LA STAMPA” di Torino il 26.7.78.
Tale intervista contiene insinuazioni offensive nei riguardi del personale di assistenza e dei Medici, e falsa quella che è la realtà dell’Ospedale Psichiatrico “Osservanza”.
L’Osservanza è un Ospedale quasi completamente aperto già prima della Legge 180, per cui l’intervista rilasciata ha travisato completamente la realtà agli occhi dei lettori.
A parte alcune affermazioni dalle quali traspaiono malafede e dubbio gusto, le OO.SS. firmatarie condannano il metodo scandalistico scelto dal Medico summenzionato per denunciare una falsa situazione del nostro Ospedale Psichiatrico.
Le scriventi OO.SS. chiedono alla Direzione dell’Ospedale ed alla Amministrazione dell’Ente Ospedaliero di rilasciare un comunicato circa le dichiarazioni rilasciate dal Dr. ANTONUCCI al quotidiano torinese.
Infine invitano a Imola l’inviato che la <> riterrà opportuno affinché, attraverso l’esperienza diretta, possa rendersi conto della realtà e quindi chiarire all’opinione pubblica la reale situazione del problema psichiatrico e assistenziale del nostro Ospedale che è stata alterata ad arte.
Imola, 27 settembre 1978

CGIL-CISL-UIL ospedalieri e AMOPI
Al Sig. Dott. EROS CICOGNANI – Sede
e p.c.
Al Sig. Dott. GIORGIO ANTONUCCI- Sede

Il Consiglio di Amministrazione nella seduta del 28 settembre u.s. ha preso in esame l’intervista del Dott. Giorgio Antonucci, apparso su la <> di Torino del 26.7.1978, contenente giudizi pesantemente negativi nei confronti degli istituti psichiatrici amministrati da questo Ente, nonché insinuazioni offensive non rispondenti a verità nei confronti dei medici e del personale di assistenza dei predetti istituti.
Contestualmente il Consiglio ha preso in esame la successiva lettera aperta in data 4 settembre 1978 della S.V. che, si dà atto, con obbiettività di giudizio e tolleranza, verso un interlocutore che con la citata intervista ha dimostrato una notevole scorrettezza, ristabilisce la verità dei fatti e dei meriti nell’attività svolta in favore dei degenti.
Il Consiglio ritiene che atteggiamenti superficiali, improntati ad esibizionismo personale e presunzione non possono certamente in alcun modo sminuire i meriti che Ella ha acquisito nel processo di liberalizzazione e di umanizzazione dei predetti istituti.
Tale processo, lungi dall’essere una acquisizione recente, è iniziato da circa un decennio con il concorso della stragrande maggioranza degli operatori medici e non medici, in corrispondenza all’elevarsi del tenore civile della società italiana.
I metodi scandalistici che ipotizzano una situazione non rispondente a verità all’unico scopo di una sopravvalutazione di meriti personali, vanno giudicati negativamente non solo sul piano dei rapporti interpersonali, ma soprattutto in rapporto al fine, da tutti condiviso, di un superamento definitivo dell’istituto manicomiale.
Il Consiglio difatti ritiene che tali meriti vadano principalmente attribuiti a coloro che, con lavoro paziente e costante, hanno ottenuto la collaborazione dei colleghi e della cittadinanza per l’estensione in modo duraturo del processo di liberalizzazione e di umanizzazione a tutti i reparti fino a diventare patrimonio stabilire dell’istituzione, anziché di singoli operatori.
Distinti saluti.
IL DIRETTORE SEGRETARIO GENERALE (dr. Mario Vagnozzi)
Il PRESIDENTE (Celso Morozzi)
Imola, 4 ottobre 1978


 


Dei manicomi. Lettera aperta a Mario Tobino
GIANNI TADOLINI
Caro Tobino,
il tuo articolo “Vedo il ghigno della follia” apparso sul “Resto del Carlino” di domenica 7 maggio, mi ha indotto a scrivere questa lettera aperta, perché ritengo doveroso fornire al lettore alcune valutazioni critiche e qualche spunto di riflessione.
Tu affronti il problema della follia nel tuo stile consueto. Per te la follia è sempre qualcosa di misterioso ed arcano che ad un dato momento si scatena: è, tutto sommato, una malattia. Da queste premesse, logicamente, passi a difendere i manicomi, gli psicofarmaci, il sistema, e così ti accusano di essere strumento del potere dominante.
Caro Tobino, credo che non basti andare a <> con i ricoverati per sentirsi giustificati; per essere contro quel potere che, direttamente o indirettamente, è responsabile dell’emarginazione di tanti individui. Però vedo in te un sentimento di grande umanità, che apprezzo moltissimo, e non voglio entrare nei soliti (anche se sacrosanti) discorsi politico-sociali che negli ultimi quindici anni hanno sorretto i temi antipsichiatrici. Desidero solamente raccontarti la mia piccola esperienza che comunque mi ha condotto a conclusioni diverse dalle tue. Ho lavorato nell’istituzione psichiatrica nell’era della psicofarmacologia. Non ho conosciuto i manicomi di una volta (non “psicofarmacologizzati”), se non dai racconti dei colleghi più anziani. Nonostante gli psicofarmaci ho udito “quei gemiti, urla, imprecazioni, implorazioni” di cui tu parli, ma che spesso, troppo spesso, non mi sono sembrati il frutto del delirio, ma la risposta, impotente e disperata, ad una situazione umana ed ambientale inaccettabile.
E veniamo pure al “delirio” a questo linguaggio che tu senti tremendo e misterioso, ma che si fa così chiaro e logico quando riesci a cogliere la struttura interna che lo muove; struttura fatta di emarginazione e sfruttamento sociale e culturale, di drammi familiari ed affettivi. Te la prendi con Basaglia quando dice che i <>. Come mai sul frontespizio del 90% delle cartelle cliniche che mi sono passate davanti si legge:
“condizione sociale: povero
cultura: analfabeta
professione: bracciante, disoccupato, casalinga”?
Se impariamo a cogliere il messaggio del delirio ed i suoi simboli ritroveremo una storia drammatica, tutt’altro che misteriosa ed oscura.
E gli psicofarmaci? Tu scrivi: “(…) poi nel 1952 arrivarono gli psicofarmaci che riescono a velare, a intorpidire, a rendere apparentemente molli molti segni della pazzia. Ecco allora per me il vero interrogativo: se non si scoprivano gli psicofarmaci si sarebbero potuti liberalizzare i manicomi?”. Permettimi di rispondere in modo paradossale (ma non troppo): i manicomi hanno potuto seguire un processo di reale liberalizzazione solo dove l’invasione farmacologica è stata di molto ridimensionata. E qui mi vengono alla mente decine di persone inebetite dagli psicofarmaci; ridotte a livello quasi vegetativo da dosi massacranti di cloropromazina e di aloperidolo. Voglio raccontarti una storia; la storia di un reparto dove “vivono” queste persone.

Storia del Reparto 14
Dell’Istituto psichiatrico
“Osservanza” di Imola


Era il “reparto agitate”, considerato il più pericoloso dell’ospedale. Le pazienti stavano quasi sempre legate. Unico diversivo delle giornate: lì elettroshock. L’ambiente era tetro, con robuste sbarre alle finestre e tutto circondato da mura. Nessuna poteva uscire, ma gli psicofarmaci entravano a valanghe. Quando una infermiera veniva inviata al “14” le si raccomandava di fare attenzione: era un ambiente pericoloso, vi erano persone violente. Era insomma un reparto di manicomio, credo non molto diverso da quelli del tuo ospedale di Lucca qualche anno fa.
Poi le cose cambiarono; venne un direttore nuovo, ed il padiglione fu affidato ad uno di quei medici con cui non sei d’accordo: un “antipsichiatra”: il dottor Giorgio Antonucci. Il lavoro fu difficilissimo. “Il dottore è un po’ matto” – si diceva. I mezzi di contenzione uscirono dal reparto assieme agli psicofarmaci. Il medico stava vicino alle pazienti molte, molte ore al giorno; parlava con esse, penetrava nei deliri e nelle angosce; comunicava, essere umano vicino ad esseri umani. Quei volti muti o urlanti, segnati dalla disperazione, iniziarono a raccontare una storia: la storia della loro emarginazione, della loro condanna; la storia di una sofferenza enorme. Il prezzo e la fatica di quel lavoro è conosciuta solo dal medico che l’ha compiuto. Comunque oggi il “14” è un reparto aperto, nessun mezzo coercitivo è usato, neppure la “contenzione psicofarmacologica” tanto a te cara. Le pazienti, sebbene ormai distrutte dagli elettroshock e dai neurolettici, hanno riappreso a comunicare, passeggiano liberamente nel parco, partecipano alla gestione del reparto.
Teresa, ad esempio, per vent’anni ha vissuto chiusa in un camerino, legata al letto mani e piedi, con una mascherina di cuoi sulla bocca, fino ad intorpidirsi in posizione fetale. Oggi cammina, esce nel parco, parla, si veste, si pettina. Alcune donne sono state addirittura dimesse e reinserite socialmente. Sembra paradossale, ma il “14” è oggi il reparto forse più tranquillo dell’ospedale.
Mi dispiace, caro Tobino, forse sei rimasto indietro, perché ti sei fossilizzato sul sintomo. Sei rimasto ancora prima di Freud: sì, perché già Freud ci insegnava che il sintomo è solo l’epigono di una storia, e solamente dalla conoscenza di questa nasce quel sapere che decifra il delirio e che può spaccare e distruggere il sintomo stesso.
Cordialmente,
GIANNI TADOLINI
Centro di psicoterapia, Forlì

(Il Ponte, settembre 1978)


 


UN’ORCHESTRA ESEGUE MOZART ALL’EX OSPEDALE PSICHIATRICO
DACIA MARAINI



Imola – E’ un sabato freddo. La neve spalata ai bordi della strada si scioglie lentamente colando acqua nera. A Imola ci sono tre gradi sotto zero. Le gomme della macchina scivolano sopra uno strato di brina ghiacciata. Chiedo dell’ospedale della Scaletta. Mi indicano un alto muro dietro al quale si alzano dei blocchi gialli. Chiedo del padiglione 10. E’ laggiù, mi dicono. Imbocco un vialetto corto e largo fiancheggiato da grossi ippocastani e posteggio accanto ad un autobus celeste.
Una volta aperta la porta del reparto mi trovo in una sala lunga e stretta affollata di gente. In fondo sotto un affresco di mari ondosi su cui navigano barche dalle vele rosse, ci sono i ragazzi dell’Aquila venuti qui per suonare. Fra l’orchestra e la porta tante sedie con tanti ricoverati, donne e uomini. La festa l’hanno organizzata loro, con l’aiuto del dottor Antonucci e degli infermieri.
Una donna vestita di giallo e di lilla mi abbraccia e mi bacia sulle due guance. Un’altra donna magra, senza denti, i capelli scarmigliati, gli occhi splendenti, un sorriso mesto, si siede accanto a me e mi spiega, con gesti e parole scombinate ma piene di entusiasmo, cosa ha sognato la notte scorsa. La musica di Mozart con la sua armonia esplosiva dilata gli spazi, entra in queste facce contratte segnate dalle torture trasformando la bruttezza, si fa liquido delicato piacere.
I ragazzi dell’orchestra con le loro barbe, i loro blue jeans, i loro capelli lunghi suonano, impetuosamente brandendo i corni, i violoncelli, gli oboi. Alcuni dei degenti si mettono a ballare. Alcuni ascoltano a bocca aperta, facendosi cullare dalla meraviglia di quelle note. Una donna mi invita a ballare. E’ bassa, robusta, ha i capelli neri ispidi che le circondano la faccia dai tratti marcati. Le mancano i denti davanti, come a tante altre; ha gli occhi brillanti, un’espressione di testarda ilarità che la rendono infantile nonostante i suoi anni.
Balliamo come due orsi, in un abbraccio goffo e pesante. Più tardi saprò che questa donna è stata legata per anni, e che quando il reparto era chiuso non riusciva a parlare, a mangiare da sola, sputava addosso a chiunque le si avvicinasse, rifiutava i vestiti e le scarpe. Ora balla, parla, cammina come una persona qualsiasi.
Nessuno aveva pensato in tanti anni che proprio nel suo sputare stava il segno della sua integrità: anziché diventare un vegetale come volevano i medici, si accaniva a protestare, nel solo modo che le era ormai possibile, contro la prigionia. Sottoposta agli elettroshock (ne ha fatti più di 50), piena di psicofarmaci, legata mani e piedi col bavaglio sulla bocca, era oggettivamente una . Ora è tornata a essere una persona intelligente.
Passa una infermiera con un vassoio pieno di paste. Gli occhi dei ricoverati si fissano avidi su quei pasticcini. Come per tutti i reclusi il cibo è diventato sacro: nel cibo si cerca affetto, soddisfazione sessuale, magia. Il cibo, soprattutto i dolci, ricordano al recluso che il suo corpo esiste anche per provare dei piaceri, che la sua pancia non è solo un sacco in cui si cacciano le minestre e le medicine per mantenersi in vita, ma è anche un posto dove lasciare scivolare qualcosa di assolutamente inutile, forse anche dannoso, ma quanto capriccioso, tenero e amabile!
Un ricoverato che stava per uscire torna indietro, posa religiosamente la giacca su una sedia e aspetta con pazienza che il vassoio arrivi da lui. Una donna si asciuga la bocca con cura meticolosa, posa il bicchiere di carta pieno di aranciata sotto la sedia, si sporge in avanti, pronta a ricevere la sua parte.


Piero Colacicchi, uno degli artisti che collaborano col dottor Antonucci, mi chiede se voglio fare un giro per gli altri padiglioni. Dico di sì. Usciamo nel freddo di un crepuscolo celeste e argento. Camminiamo in mezzo agli ippocastani, ai tigli, alle acacie profumate fra i fabbricati tutti uguali dell’ex ospedale psichiatrico. Molte finestre sono illuminate. Dietro le finestre si intravedono delle facce bianche, attonite.
Bussiamo a una porta. Ci viene ad aprire una infermiera con un grosso mazzo di chiavi. Nella sala ci sono una quarantina di donne chiuse dentro grembiuli grigi tutti uguali. Ci assale un tanfo di disinfettante, misto a cibo ordinario e sudore che dà il capogiro. Tre infermiere robuste, pratiche, piene di buon senso e di allegria ci mostrano il dormitorio con i letti perfettamente puliti, allineati uno accanto all’altro, il refettorio con le tavole coperte da tovaglie di plastica a quadri. Qui dormono, qui mangiano, qui si riposano. Tre grandi sale in cui convivono quarantacinque donne di tutte le età. I gabinetti sono 4, i bagni due, i lavandini 6. La porta di ingresso è chiusa a chiave. Le finestre sono sbarrate.
La differenza coi reparti aperti si sente subito. Lì i ricoverati si sentono padroni di sé, qui sono proprietari di coloro che li controllano, li puniscono. Lì sono vestiti di tutti i colori con roba che hanno scelto loro; qui portano divise che mortificano i loro corpi e li rendono tutti uguali. Lì sono ascoltati come persone che hanno avuto delle difficoltà con l’ambiente in cui vivevano ma non per questo hanno perso la capacità di capire e sentire: qui sono trattati con la bonomia paternalistica di chi decide per loro, agisce per loro, pensa per loro.
Le infermiere non possono non fare ciò che i medici dicono loro di fare. La loro personalità viene fuori clandestinamente nei rapporti a tu per tu con le degenti, e sono rapporti fatti di crudeltà e di dolcezza come tutti i rapporti non liberi. Esse si fanno volentieri mamme, a volte tenerissime e cordiali, a volte violente e sadiche. Non possono, perché non gli è permesso e nessuno gliel’ha insegnato, avere un rapporto da pari a pari.
In un altro padiglione chiuso di soli uomini noto che il movimento avviene tutto per linee orizzontali. Mentre le donne girano in cerchio gli uomini vanno su e giù tracciando delle parallele sul pavimento logoro. Un ragazzo mi mostra una scatola di cartone in cui tiene chiuso il suo segreto. Vuole che tocchi la scatola ma non devo aprirla. Ha le orecchie come due riccioli di carne. E’ sordo e muto. E guarda con due occhi dolorosi e lontani. Un altro si presenta, compito, saluta, si ravviva i capelli, dice alcune frasi cerimoniose, risaluta, si allontana. Hanno qualcosa di spettrale, di spento che, ora capisco, è dovuto soprattutto agli psicofarmaci.
Dal padiglione maschile chiuso passiamo a quello aperto. L’atmosfera è subito diversa: confusione, vocio, disordine, colori. Ci viene incontro un uomo mezzo nudo che si muove a quattro zampe. Il peso del corpo gravita tutto sulle due grosse mani callose. Le spalle sono da lottatore; le gambe, atrofizzate, molli e rattrappite, se ne stanno ciondoloni senza forza. Quest’uomo è stato chiuso e legato da quando aveva otto anni. Oggi ne ha quaranta e solo da poco è libero di muoversi come vuole. Si guarda intorno torvo e risoluto; il candore gli illumina le guance. Nello sguardo c’è il ricordo truce di chi è stato costretto a farsi scimmia per sopravvivere.
DACIA MARAINI

(<>, 29 dicembre 1978)


 


Imola, festa al Padiglione n. 10
DACIA MARAINI


Imola – Torniamo alla festa nel padiglione aperto delle donne. Ora molti dei ricoverati chiacchierano con quelli dell’orchestra facendo ressa attorno agli strumenti, toccandoli, provandoli. La maggior parte delle seggiole sono vuote. Il pavimento è cosparso di bicchieri di carta. C’è un’atmosfera di eccitazione languida di fine festa, un calore diffuso che appanna i vetri e lustra le guance dei ricoverati.
Prima di andare via, ormai è l’ora di cena, visitiamo il dormitorio dove alcune donne sono rimaste a letto perché malate. Ci accolgono con battute scherzose, salvo una che soffre di acuti dolori alla pancia e mugola piano rannicchiata nel suo cantuccio. Le pareti sono coperte di stampe colorate, disegni, fiori, stelle. Una ragazza in vestaglia va e viene portando dei dolci.
Mentre i ragazzi del Gruppo da camera dell’Aquila rinfoderano i loro strumenti e i pittori che collaborano alle iniziative culturali (fra cui Luca Bramanti che ha dipinto molti degli affreschi qui) si preparano a tornare a casa, faccio qualche domanda ad Antonucci. Per prima cosa gli chiedo perché, visto il buon risultato che lui ha ottenuto, non si fa la stessa cosa negli altri padiglioni.
Prima di tutto perché è molto faticoso – risponde Antonucci con la sua voce quieta, dolce – mi ci sono voluti cinque anni di lavoro durissimo per ridare fiducia a queste donne; cinque anni di conversazioni, di presenza anche notturna, di rapporto a tu per tu. Però non si tratta di una tecnica, ma di un diverso modo di concepire i rapporti umani.
– In che consiste questo metodo nuovo per quanto riguarda i cosiddetti malati psichici?
Per me significa che i malati mentali non esistono e la psichiatria va completamente eliminata. I medici dovrebbero essere presenti solo per curare le malattie del corpo. Storicamente da noi la psichiatria è nata nel momento in cui la società si organizzava in modo sempre più rigido, e aveva bisogno di grandi spostamenti di mano d’opera. Durante queste deportazioni fatte in condizioni difficili, ostili, molte persone rimanevano disturbate, confuse, non producevano più bene e quindi c’era l’esigenza di metterle da parte. Rosa Luxemburg dice: “Con l’accumulazione del capitale e lo spostamento delle persone si allargano i ghetti del proletariato”. Nel ‘600 in Francia quando si forma la monarchia assoluta (lo Stato), i manicomi venivano chiamati “luoghi di ospizio per persone povere che disturbano la comunità”. La psichiatria è venuta dopo come copertura ideologica. Nel trattato di psichiatria di Bleuler che è l’inventore del termine schizofrenia è detto che schizofrenici sono coloro che soffrono di depressioni, che si immobilizzano o girano intorno ossessivamente per il cortile. Ma che altro potevano fare così reclusi? Infine Bleuler conclude, senza volere, comicamente: “Sono così strani che alle volte assomigliano a noi”.
-Insomma tu dici che la malattia mentale non esiste ma esistono dei conflitti sociali di fronte a cui alcune persone più fragili o più oppresse soccombono.
Sono i medici spesso che fanno il malato. Ti faccio un esempio che mi è capitato recentemente a Firenze. Un bambino mancino viene sgridato dalla maestra perché “diverso” dagli altri. Il maestro di musica fa notare che l’allievo non batte bene il tempo. Il bambino comincia a sentirsi inferiore agli altri, si rifiuta di andare a scuola. La madre ne parla con la maestra che le dice: “Suo figlio è anormale, lo faccia vedere da un medico” e la manda al Centro di igiene mentale. Lì uno psichiatra le dice che il figlio ha dei disturbi di “lateralità”, che va curato. Per caso a questo punto vengono da me. Dico alla madre che il bambino è sanissimo e ha il diritto di scrivere con la mano che vuole. Così lei va dalla maestra e finalmente difende i diritti del bambino.
-Era un bambino ricco o povero?
Il fatto è proprio questo: il bambino era di una famiglia che non conta e gli insegnanti avevano un atteggiamento di discriminazione sociale. Ti faccio un altro esempio: una donna sposata con un operaio, ha due bambini, fa la casalinga, non si intende bene col marito; comincia a soffrire di insonnia, di angosce, di paure. Sta male, dimagrisce, è nervosa. Il medico le consiglia di andare al Centro di igiene mentale. Lei si rifiuta di prendere gli psicofarmaci che le propongono; e allora la mandano all’ospedale civile dove gli psicofarmaci è costretta a prenderli per forza. Il trattamento sanitario è una violenza, non serve a niente.
-Alla Scaletta si fanno ancora gli elettroshock?
Non più. Da quando Cotti è entrato come direttore sono stati eliminati l’elettroshock e altre forme più vistose di tortura.
-E gli psicofarmaci e il letto di contenzione?
Gli psicofarmaci sono ancora usati largamente. In quanto al letto di contenzione, se il ricoverato non disturba viene lasciato a se stesso, ma se disturba lo si lega. Nei miei reparti (sono tre) ho abolito da tempo sia gli psicofarmaci che la contenzione. Da me se due litigano, li si lascia litigare. Da dieci anni che lavoro non ho mai fatto un ricovero obbligato, per me il ricovero obbligato è una deportazione.
-E la nuova legge in che modo ha cambiato le cose qui dentro?
Di fronte alla legge ora si verificano tre situazioni diverse: la prima riguarda quelli che già sono dentro le istituzioni psichiatriche, i lungodegenti; verso costoro la legge permette l’uso di vecchi metodi repressivi (quasi ovunque si usano elettroshock, corsetti, detenzione e psicofarmaci); la seconda riguarda le persone al centro di conflitti nel territorio, per le quali la legge ammette l’uso degli psicofarmaci per renderle innocue (vedi le ragazze che vengono rimpinzate di tranquillanti perché non escano la sera o perché non si droghino, o non pratichino il sesso); la terza riguarda le persone che non si riescono a controllare con psicofarmaci e per cui la legge prevede che vengano mandate all’ospedale civile dove saranno sottoposte al trattamento sanitario obbligatorio. In tutti i casi la linea del metodo psichiatrico è di tenere le persone sottomesse, sotto controllo.
-Qual è secondo te l’alternativa?
L’alternativa sta nell’identificare i diritti individuali delle persone nella situazione sociale e storica in cui vivono e nell’ottenere il consenso e la partecipazione attiva della comunità attraverso i comitati di quartiere, i consigli di fabbrica, le scuole.
-Insomma sei d’accordo con Pirella quando dice “bisogna adottare iniziative precise per la formazione professionale dei ricoverati, occorre garantire loro il diritto di avere una casa”?
Certo sono d’accordo. Però mi sembra che il discorso di Pirella non è del tutto chiaro. Mi sembra di capire che lui comunque vuole mantenere un certo tipo di assistenza psichiatrica. Mentre io sono per abolirla del tutto.
DACIA MARAINI


(La Stampa, 30 dicembre 1978)

Pubblicato il: 2 March, 2017
Categoria: Libri, Presentazione, Testi, Testimonianze

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo