Archivio della Categoria: ‘Testi’

Cancrini: no elettrochoc – Eugen Galasso





In un volume di 22 anni fa, concepito in forma di “libro-intervista” dal titolo “Date parole al dolore”, edito da Frassinelli,  curato da Stefania Rossini nel 1996, Luigi Cancrini, psichiatra e psicanalista, un’autorità nella lotta contro le dipendenze, in specie da droga, un esponente – a suo tempo – della cultura di sinistra, segnatamente del PCI (Partito Comunista Italiano), quando questo esisteva. Incentrato sul tema della depressione, pur se non in modo esclusivo, Cancrini ne parla come di “quel gran mare di situazioni che oggi molti vogliono chiamare “depressione” (op.cit, pp.110-111), dove comunque Cancrini, a differenza della prospettiva “rivoluzionaria” (purché si intenda bene il termine) di Giorgio Antonucci, riconosce l’esistenza della “malattie psichiche” (non diremo, comunque, “mentali”) ma ne relativizza la porta, riconducendole, senza orientarsi dogmaticamente verso un indirizzo psicanalitico o psicoterapeutico (non potremmo classificarlo come “freudiano”, “adleriano”, “junghiano”, seguace del cognitivismo, della teorie sistemica o altro) determinato. Molto interessante la parte nella quale (capitolo sesto del volume) nega validità all’elettrochoc (o shock, all’inglese), “per ragione terapeutiche, non per ragioni di principio” (ibidem, p.92): “L’elettrochoc , come l’eroina, è uno strumento al servizio dei meccanismi di difesa basati sulla negazione…L’episodio depressivo può anche essere momentaneamente interrotto dalla scossa elettrica, ma (è una prima possibilità) tornerà presto, sarà più grave e sarà vissuto dal paziente come una maledizione , perché sarà diminuita la consapevolezza di sé e delle proprie esperienze. Oppure darà luogo (seconda possibilità) a un deterioramento progressivo della personalità”(cit., p.93). Cancrini ricorda inoltre la morte neuronale indotta da questa barbara pratica, tuttora in vigore soprattutto(ma non solo) nelle cliniche private, da un certo numero di anni anche nelle strutture pubbliche della sanità italiana, ma purtroppo ancora regolarmente praticata in paesi arretrati, su questo piano, quali Gran Bretagna e Austria oltre a i paesi, ovviamente, a struttura politica autoritaria o totalitaria. Un libro forse non attualissimo, da leggere con le avvertenze del caso anticipate in apertura di testo, ma estremamente critico anche verso gli psicofarmaci. Peccato che quanto rimane della “sinistra istituzionale” (PD ma anche “Liberi  e Uguali”) si disinteressi del tema e comunque oggi accolga il peggio dell’esistente…   Eugen Galasso 

Pubblicato il 30 July, 2018
Categoria: Presentazione, Testi

Aaron Esterson: un precursore di Giorgio Antonucci – Eugen Galasso





Tra gli antesignani delle teorie di Giorgio Antonucci ricordiamo abitualmente, a ragione, Michel Foucault a livello storico-epistemologico e gli antipsichiatri Ronald Laing e David Cooper, britannici  e naturalmente Thomas Szasz, statunitense, di origini ungheresi-ebraiche, senz’altro l’antesignano più diretto, anche perché in stretto legame con Antonucci.  Ma, in realtà, dovremmo fare anche un altro nome:  Aaron Esterson, britannico di origini ebraiche, vicinissimo a Laing e Cooper, ma ingiustamente meno famoso dei due autori citati. Eppure Esterson, in “The Leaves of Spring. A Study in the Dialectics of Madness” (1970), reso in italiano come “Foglie di primavera”(Torino, Einaudi, 1973), contrapponendo un approccio dialettico-esistenziale a uno meramente analitico, a partire dall’analisi, dialetticamente “smontata” della presunta schizofrenia di Sara Danzig, ragazza di famiglia borghese considerata prima “pigra” poi “matta” dai familiari, mostra come siano solo le proiezioni dei familiari ad etichettarla come tale. Ecco alcune proposizioni significative del testo: “Il semplice modo positivista di vedere le persone e di rapportarsi ad esse viene inculcato o rafforzato  nello psichiatra durante la sua preparazione. Gli si insegna a scoprire -a “diagnosticare”- le persone i cui pensieri e le cui azioni non si conformano alla norma istituzionale quasi allo stesso modo in cui una volta si insegnava ai preti a smascherare le streghe e ai nazisti e ai sudafricani a scoprire gli appartenenti a una razza inferiore” (op.cit, in traduzione, p.274). “Fantasie non verificate”, dunque, quelle degli psichiatri, cui però Esterson qui riconosce ancora il fatto che “credono di avere a cuore il bene della persona loro affidata” (ibidem).  Ma Esterson, quasi come clausola prudenziale, aggiunge che “la mia non è, naturalmente, un’argomentazione contro il fatto che ci siano delle persone folli” (cit., p.275), pur se dalla sua argomentazione complessiva sembra emergere che non ve ne siano – per cui ho parlato di “clausola prudenziale” almeno probabile. Chi però, con Szasz ma indipendentemente dalla riflessione dell’autore del “Mito della malattia mentale” sgombra completamente il campo dall’esistenza di malattie mentali è proprio Giorgio Antonucci, che, da medico con formazione psicoanalitica, dimostra la non scientificità della psichiatria in modo totale.   Eugen Galasso

Pubblicato il 19 March, 2018
Categoria: Testi

DOSSIER IMOLA E LEGGE 180


Intervento di Dacia Maraini: https://www.youtube.com/watch?time_continue=335&v=S9HWr7IjKMc

Scritti di
Alberto Bonetti
Giuseppe Favati
Dacia Maraini
Gianni Tadolini

A cura di G. Favati
Idea Book

 

INDICE


Giuseppe Favati, Dossier. 180 e seguenti – Antonucci: una pratica che disturba 5
Alberto Bonetti, Lettera a Giovanni Berlinguer 19
Delibera degli amministratori dell’Ospedale “S. Maria della Scaletta” 27
Gianni Tadolini, Attenti ai passi indietro 35
Gianni Tadolini, Psichiatria: come volevasi dimostrare 41
Dacia Maraini, Altre grida disperate dal manicomio 45
Documento CGIL, CISL,UIL ospedalieri e Amopi 53
Documento degli amministratori 57
Gianni Tadolini, Dei manicommi. Lettera aperta a Mario Tobino 59
Dacia Maraini, Un’orchestra esegue Mozart all’ex ospedale psichiatrico 65
Dacia Maraini, Imola, festa al Padiglione n. 10 73

 

DOSSIER


180 e seguenti

 

Ed è già un anno dalla legge 180 sull’assistenza psichiatrica in Italia, anticipo della riforma e conseguente servizio sanitario nazionale (sic). Anticipo forse stimolato e anzi frettolosamente concesso per paura del referendum abrogativo dei manicomi, ma pur sempre legge che – è stato detto da amici, compagni, generici e primi attori – porta il segno del lavoro di tanti anni, nasce dalla pratica e dalla storia reale degli uomini, storifica lotte e sofferenze. Credo però che nessuno abbia richiamato subito – e oggi a un anno di distanza il riferimento sarà percepibile – il caso costituzione, la legge “suprema” dello stato democratico, che portava – porta – i segni della storia reale, di tanti morti e torture e sangue, parole riecheggianti voci vicine e lontane ( così Piero Calamandrei), e molto prometteva: una costituzione programmatica cui si è opposto una costituzione materiale , il fascio e il fascismo di norme ( e rapporti sociali) tuttora operanti, vigentissime, spolveratissime. Sempre Calamandrei commentava che, nel riflusso del dopoguerra, ci era stata data, appunto con la carta costituzionale, una promessa di mutamento in cambio del mutamento.
Idem con la legge 180. Senza il lavoro di molti uomini e donne, di tanti gruppi rimasti “sconosciuti”, e ai quali non spetta neppure un veloce rimando in nessuna storia, in nessun ripensamento delle esperienze di psichiatria alternativa o non-psichiatriche (anche nel movimento, anche nei vari anti perdura il processo della nominazione, dell’identificazione rassicurante, del protagonismo trasferito e trasferibile in tutti i luoghi deputati all’informazione, video libro di grande editore foglio culturale di sinistra extra), senza quel lavoro la legge 180 non sarebbe mai venuta. Oggi vi è la possibilità di dimensioni diverse, il no al manicomio ha un suo punto di riferimento formale, e da qui può scaturire una maggiore e più dinamica articolazione del nostro fare, da qui può riprendere una carica di esperienze per sfondamenti della realtà segregata e segregante.
La lotta si è fatta più aperta e al tempo stesso più insidiosa. Proprio perché vi è una estensione di scacchiere, uno spostamento di piani, di livelli, un abbassamento e un’alzata di tiro, accompagnati – se mi è consentita questa metafora – da un eccesso di “citazioni”. Intendo dire che il bersaglio istituzionale manicomio sembra affatto scomparso, e che ospedale generale, territorio, ambulatorio, domicilio diventano parole in abbondanza sulla bocca dei potenti, incitano ad asserzioni spericolate, alla “scoperta” di nuovi paradigmi dell’intervento (socio-sanitario) e del comportamento (umano). Questo accumulo di “citazioni” passa ancora sulle teste della gente, stupefatta. Il relatore della 180, l’on. Orsini, afferma, quagliesco, in Tv: “Tutti i malati devono essere curati a casa”. E’ sempre la promessa di mutamento in cambio del mutamento che non si dà e che non si vuole. Infatti l’Orsini difende, offeso, medici e psichiatri allorchè Basaglia brontola, arcigiustamente e fascinosamente, che i medici vogliono conservare il loro potere mentre il corpo è nostro. Se sono mutati o sono divenuti più sofisticati i quadri teorici entro i quali si muove la classe dominante, nell’immagine di mondo trasmessa dall’alto agli strati inferiori nulla è cambiato dalla formalmente sepolta legge 1904, e regolamenti e ritocchi susseguenti. Un assaggio: art. 60 del R.D. 16 agosto 1909, n. 615, ”Regolamento sui manicomi e sugli alienati”: “Nei manicomi debbono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’Istituto. (…) L’uso dei mezzi di coercizione è vietato nella cura in case private”.
A sua volta Basaglia, alla madre angosciata perché non sa dove battere il capo con il figlio “malato di mente”, nessuno ora le dà una mano ( e chi, e come gliela dava prima?) risponde semplicemente e un po’ misteriosamente per la vastissima platea televisiva: “ ora ha una voce suo figlio, ora lei ha una voce”. Parafrasando e correggendo il manicheismo di Hendy: buono, ma soprattutto meno buono. In alcuni manicomi i “malati” avevano conquistato già una voce, il diritto alle assemblee, a criticare l’istituzione, i medici, gli infermieri, ecc. Nell’ospedale generale no, nell’”ospizio” no, negli ambulatori no. Non si ha diritto mai a una parola. Hanno invece diritto loro, di ignorarti, di usarti, di umiliarti in cento e diecimilauno modi. E non è che questo accada con i vecchi e basta. Il potere medico bada all’età: cambiano solo i tipi di umiliazione del vecchio istituzionalizzato o della giovane donna ricoverata (ad es. certi ginecologi sono tra i maggiori maestri di questo genio criminale, troppo spesso direttamente proporzionale ai loro appelli intenti nella camomilla dello spiritualismo, in difesa usque ad mortem del sacro diritto alla vita).
Lo stesso Basaglia definisce efficacemente l’ospedale generale “un grande manicomio di per sé”. E d’altro canto il cosiddetto territorio è interamente da costruire con i suoi “servizi”, con le sue “unità”, funzioni e plessi di funzioni. Cosicchè tutto resterebbe affidato al fatto che “il sociale – sottolinea Basaglia e non solo lui – entra per la prima volta nell’ospedale generale, e quindi vi entra la contraddizione”. Ma, allo stato, nella dimensione interna e nella dimensione esterna, i figli e le madri possono restare provvisoriamente e paradossalmente con minor voce di prima.
Si tratta di provvisorietà in fondo ineliminabili nelle condizioni date. L’argomento – che sembra tagliare la testa a tutti i tori – “prima le strutture poi la legge” – è sostanzialmente fasullo. Per strappare una legge – e la migliore delle leggi non sfuggirà mai alle ambiguità volute – ci vuole fatica e sangue. Per tradurla nei fatti, ci vuole molta più fatica e sangue. Le “strutture” poi devono essere un risultato in continuo divenire, oppure diventano nuove e più sinistre trappole. Insomma, se per l’aborto in Italia, anziché approvare una pur discutibilissima legge, avessimo atteso la disponibilità delle “strutture” (ossia, in primo luogo, i comodi proprio dei ginecologi suddetti) sarebbe scoccato il duemila.
Allora, finalmente, dovrebbe essere agevole l’accordo su uno dei cuori del problema: posto che la legge 180 è assai meglio ci sia che non ci sia, nessuna illusione sulla persistente segregazione istituzionale e sulle spinte e sui rischi della “dilatazione” psichiatrica. L’ospedale accoglie e cura press’a poco come il manicomio. Certo, se il “malato” rifiuta le cure lo si deve mandare a casa, ma il ricovero obbligato “rimane” una misura di polizia; e se il “malato”, dimesso, continua a disturbare un reato almeno di oltraggio non glielo leva nessun santo; e cos’ via. Sullo sfondo il manicomio giudiziario intoccato e intoccabile anche nominalmente.
Ma la tendenza alla “dilatazione” è irreversibile. Non è questione di prendere atto di una tendenza che lo stesso movimento alternativo ha incoraggiato e doveva incoraggiare, nel senso dell’uscita allo scoperto, esponendosi ai colpi di un uso, e di usi più complessi della catalogazione, della schedatura, della manipolazione, della repressione. Il manicomio, edificio fatiscente ma pur sempre in piedi, rischia di moltiplicarsi negli ospedali e nel territorio, metamorfosandosi. Ciò comporta la necessità – pena la disfatta- di coinvolgere non solo il momento psichiatrico con quello sanitario, ma quelli con tutti gli altri nel contesto sociale. Meglio: di “sciogliere” i primi nei secondi.
E’ quest’ultimo un passo che molti contestatori dei criteri nosografici tradizionali e dei meccanismi della violenza, persone ad elevato grado di qualificazione professionale e di riflessione teorica, stentano a compiere o si rifiutano di compiere. “Forse” – avverte Pirella – “costoro finiscono con il rispondere più ai loro bisogni personali di sopravvivenza culturale, di gruppo, di competizione intellettuale, chiudendosi ad ogni verifica sul reale e producendo nuove ideologie di ricambio” (Il corsivo e mio). E ancora: “… certamente gli scritti di Jervis hanno contribuito a favorire questo ritorno di riflessioni separate dai problemi reali e a produrre esercitazioni su ideologie contrapposte e in concorrenza tra loro (ad es. nel recente Normalità e deviazione di Di Leo – Salvini, editore Mazzotta). Non mi sembra tuttavia che possa essere soltanto il problema di un uomo per quanto intelligente e sofisticato esso sia…”: c’è una propensione abbastanza diffusa a lavorare teoricamente senza confrontarsi con “certe esperienze di lotta”.
Viceversa c’è bisogno di pratiche, e ogni pratica ha un suo costo personale elevato cui l’essere nel mondo da intellettuale tradizionale perennemente si sottrae. Non c’è alcun bisogno di ideologie di ricambio, quali la stessa Antipsichiatria, pur suggestiva e meritoria, d’importazione anglosassone. Pirella dice bene che non interessa una conoscenza psichiatrica ulteriore per confermare il ruolo dello psichiatra, del terapeuta decifratore del senso; “noi non dobbiamo essere esperti della follia…”. I problemi delle persone che chiedono una casa, un lavoro, ecc. “non sono uno spazio per la follia (vedi Amati e altri) ma uno spazio per la vita, il diritto di sopravvivere e comunicare, la libertà di rivendicare e, al limite, di lottare. Noi siamo espropriati della libertà di lottare …” Dove si potrà sospettare qualche fraintendimento: ad esempio, è anche questione di spazio per la “follia”, perché mai no? Certo, senza consentire affatto su Follia=Verità, Cammino verso il Centro della Terra (con un rovesciamento “spiritualistico” somigliante a quello di chi pretende di superare “materialisticamente” gli schemi crociani e post assiomatizzando Poesia=Bellezza, Bellezza=Realtà cioè Lotta di classe). Quel punto però è una discriminante assoluta. Il rifiuto, diciamolo chiaro e tondo, dell’intervento sanitario repressivo a piccola verso grande macchia, dunque della medicina gerarchica e manipolatrice, l’adozione di una pluralità di pratiche non-psichiatriche dentro e fuori l’istituzione.

Antonucci: una pratica che disturba


Fra i più tenaci, estremi, e paganti in proprio, sostenitori di questa modalità di essere e rapportarsi al mondo della segregazione vi è Giorgio Antonucci. Già a Cividale del Friuli, poi a Reggio Emilia, quindi a Imola. Dal reparto in ospedale civile affidato a Edelweiss Cotti nel 1968, trascorsi appena sei mesi fu cacciato, lui e i suoi compagni di lavoro, dalla polizia in pieno assetto operativo. E il reparto chiuso. Da Reggio Emilia, Centro di igiene mentale, fu costretto a andarsene non tanto per intervento determinante del “potere” (anche se collezionò denunce, ma tutte archiviate), quanto di “altro” su cui amici stanno portando in concreto la loro riflessione, una riflessione che mi auguro consentirà chiavi di lettura diverse da quelle di recente offerte per le esperienze reggiane post-68.. All’Ospedale psichiatrico “Osservazione” di Imola dove venne chiamato da Cotti, divenutone direttore, nel 1973, il suo lavoro ha richiesto di nuovo quel costo elevato cui accennavo sopra, e che era ed è inevitabile per chiunque si ponga completamente al di fuori della visualità psichiatrica, vecchia o nuovissima o futuribile, dei meccanismi repressivi-espulsivi come delle teoriche autogratificanti.
La scelta di Imola fu in buona misura obbligata, e quindi non scelta, ma Antonucci, da quel provocatore che è sempre stato, chiese il reparto più duro, quello degli “irrecuperabili”, degli “agitati”. Che era il 14, donne. Successivamente vi si aggiunsero i reparti 10 e 17, donne e uomini. Ricominciò la sua sfida all’ambiente, ai codici diffusi, ecc. e anche a se stesso, non solo nel senso della solita contraddizione vissuta e coscienzializzata (un non-psichiatra in manicomio), ma soprattutto per la resistenza fisica duramente messa alla prova come mai prima. Poiché qui non si scrive una biografia, né si confezionano santini o mezzi busti, né d’altra parte si narrano “miracoli” (è termine che ricorre sulla bocca dei gestori della nostra salute irridenti alla categoria del “socio-politico”), basterà accennare al turno di guardia di un medico il quale aveva eliminato tutti i mezzi di contenzione e i massicci psicofarmaci e si ritrovava, per ventiquattr’ore filate, in conflitto insanabile con la situazione di violenza degli altri reparti dell’O.P. Mentre i colleghi medici, a loro volta, in quei turni di guardia dormivano il sonno del giusto. Quanto al personale di cui c’era bisogno, ci hanno pensato tutti i governi e nella fattispecie Stammati con il suo decreto vietante assunzioni, supponiamo in ragione dell’austerità necessaria alla salvezza del paese e comunque della moralità amministrativa. Ma a onor del vero Stammati non avrebbe impedito di affiancare ad Antonucci un altro aiuto medico.
Disgraziatamente, infatti, la pratica di Antonucci dava risultati eccezionali. Non poche testimonianze informazioni al riguardo si ritroveranno qui di seguito, a cominciare della lunga puntuale lettera di Alberto Bonetti a Giovanni Berlinguer, indispensabile per la comprensione di ciò che è cominciato ad accadere ed è infine precipitato a Imola dopo la legge 180.
“In presenza” dei risultati sono venute le insofferenze e le aggressioni morali contro Antonucci. Quel “dottorino” mostrava, con il contributo determinante degli infermieri e delle infermiere, liberatesi anch’essi da un passato di terrore nei confronti dei “pazzi”, che quei poveracci potevano, ma guarda, ancora parlare, comunicare, camminare, perfino gioire; e via via crescevano le irrisioni di corridoio, le denunce, gli articoli, addirittura i manifesti sui muri della città. Il dottor Antonucci era spesso assente per malattia! Informavano responsabilmente dei sindacalisti, che però non pubblicavano nessun volantino, non affiggevano nessun manifesto per chiarire statisticamente quanti secondi dedicavano gli altri psichiatri all’ospedale e quante ore nei propri studi a contatto ben fruttifero con pazienti privati. Il dottor Antonucci aveva aggredito un medico! Il dottor Antonucci aveva maltrattato una infermiera! Anime pie.
Riassumevano i concetti essenziali i sindacalisti della UIL-Uisao, sciarpa littorio dell’aggressione ad Antonucci: La mafia è forse giunta all’Ospedale “Osservanza”? “…Non ci è possibile tacere ulteriormente di fronte ad episodi che denotano il costante sfacelo in cui il nostro Ospedale è direttamente investito…” e “Il Nuovo Diario”, settimanale cattolico emanazione della Dc di Imola, che coniugava fascismo mafia e compagni. Con gli stessi metodi 50 anni fa si instaurò il fascismo. Anzi codesti compagni (Cotti e Antonucci) sono peggio perché dai fascisti “li distingue solo l’ipocrisia che gli altri – pur fra tante malvagità – non ebbero”. Concludeva a caratteri di scatola il foglio dc: …manca solo la lupara! Che non avrebbero dovuto tardare visto che il potere era ormai nelle mani di “compagni di ferro”, “con licenza di uccidere”
Ma il pianeta terra sarebbe troppo bello se tutto fosse colpa di questa benedetta Dc, e di quei fior di galantuomini che si firmavano Uil. Che facevano nel frattempo gli amministratori locali? Che pensavano e facevano il presidente (socialista) e il consiglio di amministrazione (a maggioranza assoluta di sinistra)? Nel complesso qualcosa di molto simile alla tolleranza meditabonda, anziché all’attiva solidarietà; e in almeno un caso richamavano l’Antonucci in termini disciplinari.
Finale provvisorio. Dopo l’approvazione della legge (ora ex) 180, il consiglio ridistribuiva incarichi e direzione dei padiglioni, con un provvedimento (passato poi all’esame, senza intoppi, del comitato regionale di controllo) che obiettivamente incoraggia i medici ostili durante tutti questi anni alle misure innovative e punisce Antonucci, al quale sottrae la responsabilità dei reparti 10, 14, 17.Significativamente è su “Il Forlivese”, settimanale del PCI del comprensorio di Forlì, che il compagno Gianni Tadolini denuncia il fatto. Senza conseguenze. Alla fine di luglio Dacia Maraini intervista Antonucci per la “La Stampa” e il colpo viene accusato. CGIL, CISL. UIL (ahinoi) ospedalieri e Amopi (nientemeno che l’associazione dei medici di ospedali psichiatrici) richiedono che sia ristabilita la verità contro le calunnie. Il consiglio di amministrazione emana un comunicato parapìm parapàm (più avanti tutti i documenti citati, in versione integrale).
Il problema ha investito ormai la capacità di far politica del PCI forlivese ( e non). Sul versante PSI, in compenso, tutto è silenzio, salvo errori e omissioni; forse si sveglieranno domattina accusando i comunisti di Forlì di essere aggrappati alla ciambella del leninismo.

Leggi l’articolo completo »

Pubblicato il 2 March, 2017
Categoria: Libri, Presentazione, Testi, Testimonianze

Pavlov e le emozioni – Eugen Galasso




-Gustave Coubert-


Ivan Petrovic Pavlov (1849-1936), come studioso-pioniere e fondatore del “behaviorismo”, pur se avrebbe aborrito il termine, poi messo in auge da Watson e Thorndike e al di là di come si valuti poi il metodo, che è anche un orientamento , una “scuola” psicologica, fondata sullo schema (per dirla schematicamente) stimolo-risposta-rinforzo, si è cimentato, in un tardo scritto, “Il riflesso condizionato” (1935-cito dall’edizione italiana ne “I riflessi condizionati”, 2006, Roma, Newton Compton), nella tematica che aveva generalmente non affrontato, da fisiologo e neurofisiologo qual era (non psicologo), quella della psiche umana. A parte il fatto che parla della psicologia come “particolare branca della scienza”, condotta a suo parere “per migliaia di anni” (op.cit., p.232), quando invece bisognerebbe chiarire che: A)La psicologia quale scienza a sé stante nasce nell’Ottocento (Franz Gall, Wilhelm Wundt,  Pierre Janet, Jean-Martin Charcot,  Cesare Lombroso, e l’enumerazione è fatalmente limitata e riduttiva), al massimo troviamo singole intuizioni in autori del 1700 come John Locke, quando distingue, per es., tra qualità primarie (inerenti realmente alla realtà esterna) e secondarie (ossia dipendenti dall’individualità percettiva umana, come il caldo e il freddo, la percezione visiva e auditiva); B) Se parliamo di “psicologia” a colpi di intuizioni asistematiche e “rapsodiche”, ne è disseminata ogni fase delle creazioni culturali umane, scritte e non, dove allora varrebbe la considerazione pavloviana dei “millenni”; C) Pavlov è sostanzialmente convinto che la fisiologia (neurofisiologia, più correttamente) possa porsi come “clavis universalis” della psicologia, cioè risolverne i problemi. Una tendenza “meccanicistica” (Luciano Mecacci , curatore delle opere pavloviane, non sarebbe d’accordo, ma in sostanza si può dire così), che ri-vive oggi, con una strumentazione scientifica e  tecnologica ben diversa, negli studi di neuroscienze: una parte dei neuroscienziati è cauta, riconoscendo che molto è ancora da fare-scoprire, altri ritengono che tutto o quasi possa essere spiegato… Per dare solo un’idea del procedimento di Pavlov nello scritto citato, per non dilungare troppo l’argomentazione, egli, distinguendo tra “nevrosi ossessiva” e “paranoia”, afferma che nella seconda: “i gruppi di cellule colpiti saranno quelli preposti alle ricezione delle sensazioni e all’elaborazione dei concetti”, mentre per “stereotipia, perseverazione e iterazione esistono a causa di un’inerzia patologica dei processi eccitatori a livello delle cellule motorie”(cit., p.254). In altri termini: A 1) le definizioni della patologia psichiatrica per Pavlov sono intoccabili, valgono quali postulati  a priori, quando da decenni nonpsichiatria , apsichiatria, antipsichiatria (eventualmente con i trattini, se vogliamo e volete…); B1 ) Tutto sarebbe spiegabile in termini meramente biochimici e “organicistici”, pur se…forse, sentimenti e emozioni hanno un loro “specifico” che non è da ricondurre tout court a queste spiegazioni…   Certo, Pavlov scriveva quasi un secolo fa, pur se da pioniere, era imbevuto di una cultura e di uno “spirito del tempo” (espressione di cui abuso, lo so, ma scuserete chi trova efficace l’espressione hegeliana per dire di una particolare fase della cultura), mentre chi ancora, come allora Pavlov (che, da non-medico, si limitava a proporre l’elemento chimico in questione quale risolutivo di  determinate “patologie”, bisogna precisarlo) cura “paranoia” e “nevrosi ossessiva”, con il bromuro, forse non ha riflettuto, al di là della teoria, neppure sulle conseguenze di certe diagnosi e soprattutto sulle loro implicazioni terapeutiche.      Eugen Galasso  

Pubblicato il 18 September, 2016
Categoria: Testi

Psichiatri critici sull’uso dei farmaci e perseveranti nelle diagnosi – Eugen Galasso



Su “Ideas”, supplemento domenicale di “EL Paìs”, giornale di prestigio della sinistra “radical chic” (è meglio dire le cose come stanno; idem vale per “Le Monde” e “Repubblica”, che chi scrive sappia, magari anche – con qualche distingue per la “Frenkfurter Allgemeine”, da tempo si è sviluppato un dibattito sulla psichiatria: se domenica 7 febbraio il giornalista USA Robert Whitaker aveva parlato di “crisi della psichiatria” stessa, negando l’origine biologica delle “crisi” che vengono definite come “malattie psichiatriche” e quindi l’efficacia degli psicofarmaci: ma Wihitaker, lungi comunque dal negare tout court la psichiatria, si riferisce alla situazione “gringa”, che separa, anzi dicotomizza il normale dall’anormale, attribuendo i “disturbi minori” agli psicoanalisti, i “gravi” (leggi “pazzi”) all’assistenza pubblica, dunque con bombardamenti di psicofarmaci; la domenica successiva interviene Miguel Gutiérrez Fraile, già Presidente della Società Spagnola e Psichiatria e docente di psichiatria nell’Università dei Paesi Baschi, ribadendo il valore comunque positivo della psichiatria (“Psiquiatrìa sì, naturalmente”, il titolo, affermando il valore positivo anche dell’esperienza USA, con la “psichiatria comunitaria” introdotta da Kennedy, ma poi, venendo in Europa (Spagna), afferma anche che “Finalmente il malato psichiatrico iniziò ad essere trattato come il resto dei pazienti” et similia. Non solo: ribadisce che “Abbiamo l’onore dubbio di essere l’unica specialità medica ad aver un movimento “anti” “. Due assunti-postulati indimostrabili qui: A)che la psichiatria sia effettivamente una scienza; B)che essa sia parte della medicina. Per Giorgio Antonucci, per es. (ma non solo, penso a Thomas Szasz) ciò non è vero. Più critico, poi, MIkel Munzarriz Ferrandis, presidente dell’Associazione Spagnola di Neuropsichiatria, che saluta l’apertura del dibattito e afferma che gli psicofarmaci sono utili come “coadiuvanti”, ma non sono la soluzione. Manuel Desviat, psichiatra ed ex-presidente della citata Associazione Spagnola di Neuropsichiatria, è ancora più critico verso gli psicofarmaci. Un dibattito certamente salutare, importante, ma i termini della questione non si spostano di molto (o per nulla?) se non si mettono in discussione i due postulati citati sopra. Ma forse non si vuole né può fare, vista la rilevanza e potenza degli interessi in campo…    Eugen Galasso 

Pubblicato il 7 March, 2016
Categoria: Testi

Psichiatria e politica. Una notizia da Imola – Piero Colacicchi

Estratto dal <IL PONTE>
N. 11 – Novembre 1973





Ho cercato la mia libertà
nella libertà di tutti
( Bartolomeo Vanzetti)


Il primo maggio il prof. Edelweiss Cotti diviene direttore incaricato dell’Istituto psichiatrico di Imola dove vengono ricoverati cittadini delle province di Ravenna e Forlì. I ricoverati sono più di 1200. L’istituzione ha tutti i caratteri tipici della violenza psichiatrica e manicomiale.
Cotti uno dei protagonisti della lotta di Cividale del Friuli (1) inizia una decisa ed efficace politica di dimissioni. In agosto viene assunto Giorgio Antonucci, un altro dei medici di Cividale e l’organizzatore delle visite popolari al Manicomio S. Lazzaro di Reggio Emilia (2).
Antonucci, d’accordo con Cotti, decide di iniziare il suo lavoro nel reparto 14 donne  “delle agitate”: è ritenuto dai medici dell’istituto il reparto più difficile e più pericoloso, con persone “irrecuperabili”. Il reparto si può definire senza esitazione un modello di ferocia psichiatrica. Le 41 detenute sono paralizzate da quantità grandissime di psicofarmaci di ogni tipo. Sono in gran numero legate ai letti con cinture di contenzione. Le porte sono tutte chiuse. Il personale passa il suo tempo esclusivamente in opera di sorveglianza. Comunque si vogliano considerare queste persone, ci sembra di poter dire che neanche i leoni sono mai stati trattati in questo modo.
Dopo venti giorni dall’arrivo di Antonucci gli psicofarmaci sono stati eliminati quasi del tutto, le donne legate ai letti sono state liberate e i mezzi di contenzione tolti dal reparto. Aperte finalmente le porte, oggi le pazienti sono libere di muoversi nel parco dell’ospedale che non ha mura di recinzione. Il medico e gli infermieri del corrispondente reparto uomini detto “degli agitati” decidono di seguire l’esempio di Antonucci.
L’Istituto psichiatrico , dal momento che sono stati aperti i reparti ritenuti finora i peggiori, sotto la nuova direzione di Cotti è in piena trasformazione.

Piero Colacicchi

1) Cfr. Roberto Vigevani, Assalto a Cividale, <Il Ponte>  n.9 , settembre 1968.
2) Cfr. G. Antonucci e P. Colacicchi, in <Il Ponte>, n.11, novembre 1970; Comitato popolare di Ramiseto, ib., n. 5-6, 1971: P. Colacicchi e A. Rosselli, ib., n.10, ottobre 1971

Foto: Massimo Golfieri

Pubblicato il 30 January, 2016
Categoria: Testi

Theodor Reik: sono i poeti l’avanguardia della psicologia – Eugen Galasso



Secondo Theodor Reik (1888-1969), psicoanalista austriaco-americano di ovvie origini ebraiche, di formazione freudiana, ma “dissidente” rispetto a Freud o meglio rispetto a varie sue tesi,  in “Of love and Lust” (1957), sostiene che “Sono i poeti, non gli psichiatri né i medici l’avanguardia della psicologia del profondo. I poeti possiedono bacchette da rabdomante che mostrano loro dove son nascosti i più preziosi segreti dell’umana natura” (dalla trad. italiana, con il titolo scioccamente moralistico, “Amore e lussuria”, Milano, Longanesi, 1968, p. 177) Cita il “Faust” goethiano, Shakespeare, Delaleddin Rumi, grande poeta persiano, molti altri poeti (e idem nelle sue opere sul rito e la ritualità), lui, non di formazione medica, ma filosofico-letteraria (intervenne Freud per difenderlo da accuse “corporative” in merito) oltre naturalmente all’esperienza analitica. Credo sia, al di là delle tesi reikiane spesso criticabili (come lo è ogni teoria; a proposito di Reik mi permetto un’aggiunta: nulla a che vedere con Wilhelm Reich, le cui tesi riguardo a amore e sessualità sono,  diremmo, antitetiche rispetto a quelle di Reich ), un’affermazione di indubbio coraggio e di modestia non da poco: contro chi crede di avere la verità in tasca, estendendola a ogni ambito dello scibile e soprattutto della vita, Reik parte dall’esperienza, che però è quella detta “clinica” ma anche quella di chi, genialmente e spesso con il linguaggio in genere contratto, sintetico, paratattico, della poesia, ci dice sui sentimenti e sul “sentire” umano più di quanto non ci dicano (spesso) magari lunghissimi trattati di psicologia, per non dire di quell’ambito che si presume e anzi pretende “scientifico” che è la psichiatria, che pretende di giudicare e sanzionare, ossia punire, ogni comportamento umano giudicato non conforme a una presunta “norma”: i poeti, da Omero a Saffo, da Virgilio (sì, persino, il “pacato” Virgilio ci parla senza problema della naturale bisessualità umana) a Baudelaire, da Ariosto a Rimbaud a Campana, da Rumi ad Artaud come a Bigongiari, da Villon a Ginsberg a Pasolini, da Hoelderlin a Brecht, da Calderon de la Barca a Arrabal ci parlano di ogni esperienza umana, senza mai permettersi di “sanzionarla”.  Come non fanno per nulla neppure, come noto, Szasz e Antonucci, per fare solo due nomi cruciali…         Eugen Galasso

Pubblicato il 23 January, 2016
Categoria: Testi

Il business della (falsa) malattia mentale – Eugen Galasso

Purtroppo non c’è più da stupirsi di nulla: uno dei migliori quotidiani europei, pur se schierato su posizioni quasi sempre neo-liberiste e “centiste”, “El Paìs” dell’edizione speciale domenicale del 15 novembre scorso, a p.18 (in “Negocios”, ossia nella sezione economica) ospita l’intervento di un notevole (per la considerazione di cui gode, beninteso) economista spagnolo, docente a Londra, Luis Garicano, dal titolo inequivocabile: “La salud mental, una inversiòn prioritaria”(La salute mentale, investimento prioritario). Anche rifacendosi agli studi di Lord Richard Layard, economista della “Lord School of Economics” (sorta di “Bocconi” inglese, più quotata ma altrettanto orientata in senso neo-liberista e conservatore), Garicano afferma, richiamandosi a uno studio del 2002 dell’OMS (Organizzazione mondiale della Salute, quella dell’ “apocalisse” sulle carni) che la “malattia mentale” (assunta a priori come tale, si noti!) comporterebbe da sola il 50% delle disabilità (diversabilità sarebbe meglio, come espressione) esistenti. Naturalmente qui si parla, da buoni economisti conservatori (Galicano, sia detto non sottovoce, si candida alle prossime elezioni parlamentari spagnole, con “Ciudadanos” (Cittadini), il pendant conservatore del progressista Podemos), di costi elevati, sempre assumendo come datità assoluta e indiscutibile che la malattia mentale esista. Poi, Garicano, che non riteniamo troppo competente in materia, reclamizza, assumendola come altro valore indiscusso, che la terapia cognitiva (cognitivista-behaviorista, volendo) sia superiore a quella psicoanalitica e ciò perché essa sarebbe più breve (costi ridotti per lo Stato, ma non minori per i”pazienti”, sia invece detto come critica a questo orientamento) ed è certamente molto più “direttiva”: la terapia cognitivista orienta, senza lasciare troppo spazio (anzi quasi nessuno) al dialogo, al dubbio, alla critica. E ciò sia detto tutt’altro che come apologia della psicoanalisi, ma come constatazione. Seguono dati iperbolici sulla depressione, cavallo di battaglia ancora attuale, assieme al disturbo bipolare, degli strenui assertori della psichiatria, depressione che sarebbe aumentata anche a causa della crisi economica mondiale, mentre naturalmente non si fa parola della miseria e povertà indotte…Chiaro che gli interessi economici forti e cruciali di case farmaceutiche, psichiatri e strutture collegate vadano sostenuti, da parte di chi è conservatore politicamente-economicamente e convinto assertore della psichiatria, dove l’endiadi (due concetti in uno, cioè) non è certo peregrina, come possiamo verificare sempre empiricamente: quasi sempre chi è conservatore in politica e in economia, dunque ama Milton Friedman e Von Mises (per citare solo due nomi “à la une”del liberismo), vi dirà che “I matti vanno messi in manicomio” o, se è più prudente, che “comunque le malattie mentali vanno curate”. Con diverse gradazioni, date dalla cultura e dall’atteggiamento della persona, potete starne quasi sempre sicuri… Eugen Galasso

Pubblicato il 14 December, 2015
Categoria: Testi

Per Frigidaire – LA SCELTA – Giorgio Antonucci






Un solo
Momento

Mi aveva
Distratto:

– Il sollievo
Di pensare
Alla morte.



E’ proprio quando difetta la speranza che arrivano i ciarlatani, e vendono al mercato le loro magìe, come prodotto di scienza e guida alla salute.
Arrivano allegri con le pillole della gioia.
Sono i signori del piacere.
Vengono sicuri e presuntuosi come profeti.
Aprite loro le porte e sarete alla fine al sicuro, al riparo da ogni turbamento.
Ora per moltissimi il mondo collettivo è sordo ai desideri, povero di prospettive, e ricco di paure come un mare notturno senza luna.
Altri, in apparenza più privilegiati, sentono, nonostante tutto, di essere solo strumenti fuggevoli di strutture indifferenti.
Così non tutti sono felici di esistere.
Allora tra poco tempo i depressi, così come li chiamano genericamente, rischieranno proprio di essere la maggioranza.
Aumenta sempre più la tristezza e spesso la voglia di morire.
Mentre l’individuo è ogni volta più isolato si moltiplicano le seduzioni illusorie e le risorse ingannevoli.
Nascono e vivono le semplificazioni.
Nei campi di concentramento di Hitler alcuni internati per trovare sollievo si sfracellavano a terra nel fondo della cava di pietra.
Hitler è passato ma non i suoi metodi.
E nemmeno le sue istituzioni.
Anche ora il terrore sociale è così forte e così grande la paura delle autorità e così poca la sicurezza di se stessi che è accaduto non di rado che giovani studenti si sono uccisi per insuccessi scolastici o fanciulli hanno cercato la morte per senso di colpa o altre forme di disperazione.
Che il nostro cervello sia un sistema chimico complesso, come ciascun organo vivente, è una idea che tutti abbiamo, da Rita Levi Montalcini al portinaio della Casa di Riposo, per cui è perdita di tempo ritornarvi sopra, come fosse un argomento a favore o contro l’esistenza degli psichiatri e delle loro prodezze, oppure a vantaggio o svantaggio delle teorie psicoanalitiche e della psicoterapia.
Sappiamo anche tutti che le funzioni del sistema nervoso centrale possono essere momentaneamente influenzate o modificate da composti chimici di vario tipo detti per questo dagli specialisti neurotropi, come neurotropi sono certi virus che hanno affinità particolari per il cervello.
Così sono sostanze neurotrope le droghe come gli psicofarmaci.
Chi è angosciato o triste o depresso può allentare la tensione sia con un bicchierino, sia con una pera, sia con una pillola comprata dal farmacista.
E forse anche con un po’ di chiacchiere.
Ma questo non vuol dire affatto che la depressione è una malattia o un difetto del cervello o una eredità genetica e che sono salute solo l’allegria, la spensieratezza e l’incoscienza.
Né che è fisiologico solo il comportamento prescritto dai costumi.
La grande costellazione chimica del cervello dell’uomo, complicata più del cielo stellato, è costruita sia per la gioia sia per il dolore e per molte scelte differenti che vanno molto al di là dei costumi limitati di una singola cultura.
Il nostro pensiero ha costruito molte culture e molte ne costruirà ancora finché saremo al mondo.
Il cervello non è una macchinetta a gettone.
E può scegliere sia la vita che la morte.
Tuttavia il compito degli psichiatri non è quello di diminuire il dolore o aumentare la gioia o ravvivare il significato di un’esistenza incerta o dubbia o in pericolo, ma è più precisamente quello di controllare con le buone o con le cattive (pratiche) gli umori il comportamento e il pensiero dei cittadini perché rientrino negli schemi dell’ordine costituito come unico ordine possibile e unica misura di saggezza.
Per questo se non stai buono ti bruciano il cervello con gli psicofarmaci o con l’elettrochoc o ti spaventano con i ricatti.
Con loro la vita diventa meno attraente e minore la voglia di lottare per ritornare alla speranza.
Più difficile essere se stessi e padroni del proprio mondo.
Più frequente la voglia di farla finita.
Senza di loro si comincerebbe a discutere di vita e di morte al di là dei pregiudizi con la libertà di pensiero necessaria ad affrontare ogni tipo di problema.
Avrebbe principio una psicologia degna di questo nome, fondata finalmente sull’intelligenza.


Firenze, 13 settembre 1993

Pubblicato il 31 October, 2015
Categoria: Testi

Il Patibolo – Giorgio Antonucci




Joan Mirò – La Danzatrice –


“Uomo, tu sei qui solo, sei solo nel mezzo della gente: solo sei nato, e solo devi lasciare il mondo”.
Veikko Koskenniemi


– Ora l’immagine è più importante del fatto – : si discute di pena capitale nascosta in prigione o in diretta televisiva invece che inorridire perché lo Stato si permette di disporre della nostra vita.
Nel Medio Evo e nel Rinascimento il supplizio comminato ai sudditi dai potenti era spettacolo di popolo in piazza.
L’episodio più grande della storia della Toscana è l’aver abolito per prima la pena di morte.
Ma la burocrazia di Stato continua il suo corso.
La maggior parte delle nazioni del mondo conserva la pena capitale anche per reati senza danno diretto alle persone.
La schiera degli schiavi deve vivere nel terrore, tutti devono, non solo sapere, ma anche vedere coi loro occhi di carne, che la trasgressione è mortale, sia nel’azione sia nel pensiero.
La virtù del popolo è la sottomissione, e questo deve essere frequentemente ribadito col sangue.
La morale dei sudditi nasce e si mantiene con il terrore, mentre la concezione etica del mondo è ancora un’utopia, perché il potere è maestro di sopraffazione.
Il potere è male in sé, come scrive Burckardt.
Ma Mosè disse “Tu non ucciderai” oppure disse “L’omicidio va bene solo quando è legale”?
S’io dovessi scegliere tra omicidio e omicidio troverei più umano il delitto del singolo come effetto di passione, che quello al servizio dello Stato, come effetto di ordini ricevuti.
Si può uccidere per amore o per odio, ma squallido è l’omicidio a freddo di carattere burocratico, sia nella pena capitale, sia nel bombardamento di guerra.
Preferisco Otello ad Eichmann, anche se a scuola ci insegnano il contrario.
E così il singolo, lacerato dalla morale di Stato, e dalle altre morali autoritarie, vive in tradimento della sua sensibilità, e si consuma nei sensi di colpa, che spesso sono motivi di suicidio.

Ho imparato

-scrisse la giovinetta-

a desiderare con paura

e ogni mia
gioia


mi pareva
un peccato

Così mi sono
Uccisa
Per punirmi

-che non nascano più
sotto il sole e la luna
queste amare apparenze-

Così pregavo
Prima di morire
Il mio Dio.



Firenze, febbraio 1991

Pubblicato il 25 October, 2015
Categoria: Testi

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo