Algranati il riformista e Antonucci il rivoluzionario – Giuseppe Gozzini – Storia di un obiettore “Non complice” – 2014

Da: Non complice
Storia di un obiettore
Giuseppe Gozzini
edizioni dell’asino 2014

Algranati il riformista e Antonucci il rivoluzionario
.

 

Bene ha fatto Elèuthera a ristampare il libro di Giorgio Antonucci Il pregiudizio psichiatrico, e a publicare in contemporanea quello di Paolo Algranati, Voci dal silenzio. Rappresentano infatti due esperienze parallele,che invogliano a lettura sinottica per capire che cosa le rende apparentemente cosi vicine e tuttavia non coincidenti. Sono parallele nell’evidenza di un risultato comune lo smantellamento delle strutture manicomiali con apertura dei reparti “chiusi” ma non si incontrano nelle premesse, soprattuto su un punto: il giudizio sulla malattia mentale. In realta Algranati e Antonucci ripropongono i due filoni interpretativi del cambiamento sociale, presenti ­ non a caso ­ anche nell’approccio alla psichiatria: il riformismo e la rivoluzione. Anticipando il contenuto dei due libri, diciamo che Algranati vuole riformare l’istituzione psichiatrica liberandone le vittime per curarle meglio, mentre per Antonucci l’unica alternativa alla psichiatria è la soppressione della psichiatria (anche quella “democratica”).
Paolo Algranati: il riformismo
“A tre anni di distanza dall’approvazione nel 1978 della ‘180’, la legge Basaglia, iniziavo a lavorare nel manicomio di Roma con l’incarico di assistente psichiatra. Assegnato al padiglione 22, il più grande dei reparti ‘chiusi’ dell’ospedale, mi accingevo, con l’animo combattivo ed entusiasta del ventiseienne, a verificare, nell’impatto concreto con l’istituzione manicomiale, i miei anni precedenti di formazione teorica”.
Comincia cosi il libro di Algranati, un rapporto dall’interno del manicomio Santa Maria della Pietà, scritto con l’immediatezza di un diario di bordo. Algranati, che si definisce “psichiatra anomalo”, descrive, anno per anno, il lungo cammino dello smantellamento del padiglione 22, definito la “fossa dei serpenti” (1981) al lavoro di riabilitazione in un “zona autogestita” (1983) al passaggio padiglione 8, completamente aperto (1987), che prefigura il concetto di Comunita terapeutica come “un continuo training tra gli operatori e poi tra questi e i pazienti, e infine tra tutti noi e il mondo esterno”.
Ecco alcune tappe di questo cammino: l’incontro con la caposala “una suora bassa e corpulenta, vestita di bianco” che gli apre il cancello di ferro e lo immette nelle corsie del padiglione 22 come nei gironi dell’inferno dantesco (i dannati sono i pazienti con le loro storie di segregazione); lo scontro immediato con la suora sulla cosiddetta “ergo­terapia”: un sistema di lavoro per cui sessanta pazienti, con ruoli e mansioni tutt’altro che trasparenti “tenevano in piedi o comunque contribuivano in maniera decisiva al funzionamento della struttura che li segregava”; la conoscenza, uno per uno, di tutti i 114 pazienti, 70% dei quali ­attraverso un sistema di sfruttamento capillare, basato su ricatti, favori, intimidazioni ­ era adibito “senza nessun compenso ai lavori piu umili, di pertinenza, teoricamente, di infermieri e ausiliari di pulizia”; la messa in discussione dei mezzi di contenzione (camicie di forza, sbarre alle finestre, porte chiuse a chiave) e dell’abuso degli psicofarmaci; l’analisi del comportamento degli infermieri in base alla loro appartenenza alle tre categorie dei “sottomessi”, dei “ribelli” e dei “neutrali ricattati” (senza contare “i cani sciolti”); l’inizio della collaborazione con alcuni infermieri che porta alla prima timida uscita dalle mura del manicomio (un soggiorno di quindici giorni per dodici pazienti in una località di montagna del Lazio); la formazione di una “zona autogestita”, due corsie, con quattordici pazienti e sei infermieri (la cronaca di questa “zona liberata” ricostruita in “un poderoso quaderno utilizzato indifferentemente dai pazienti e dagli operatori”, di cui sono publicati ampi stralci); la guerra aperta con la suora caposala fino al suo trasferimento nel 1984 a un altro reparto (“finiva al 22 l’epoca arcaica del potere religioso sulla pazzia”).
Il racconto fin troppo minuzioso, scritto con amore e un grado di partecipazione e di simpatia umana eccezionali, interrotto dalle bellissime (e illuminanti) “storie di vita” degli internati, ha il merito di portare il lettore dentro la realtà manicomiale. Paolo Algranati, con l’attenzione costante ai concreti problemi di gestione, dimostra di avere la stoffa del riformatore e registra con la pignoleria del cronista tutti i cambiamenti: l’apertura del manicomio ai parenti dei ricoverati “reclusi”; l’importanza del lavoro in una coperativa; la logistica dei reparti dopo i vari traslochi; le sorti dei pazienti dimessi con tutti i problemi di inserimento sociale al di fuori del manicomio; la vita quotidiana nel padiglione 8 aperto senza “nessuna sbarra, nessun cancello, nessuna chiave”; l’iniziativa di un laboratorio di pittura.
Tutto preso dalla passione anti­istituzionale, dal fervore organizzativo per rendere più umana e vivibile la condizione dei segregati nel manicomio, Algranati vede (e denuncia, nel lavoro con gli operatori) gli effetti
devastanti degli “stereotipi universali” sulla pazzia (pericolosità, incomprensibilità, inguaribilità); dall’altro non rinuncia all’approccio clinico, al giudizio psichiatrico e alle classificazioni diagnostiche dei comportamenti (psicosi maniaco­depressiva, eccitazione sub maniacale….) e al recupero terapeutico con interventi psicofarmacologici. In fondo ripropone, in modo meno schematico e più contraddittorio, il vecchio errore di ritenere che i ricoverati siano diversi non perchè segregati ma perchè “malati”, non perchè privati della libertà personale ma perchè hanno nel cervello qualcosa che non va. Il discorso “basato sull’impalpabilità del confine normali-­folli e sul profondo radicamento dei pregiudizzi sulla follia “è ritenuto” indispensabile per prendere le distanze dalla propria ‘follia’ personale e per controllare con continuità consapevolezza la proprio paura di impazzire”, che percorre come un leit­motiv tutto il libro (pagg.14, 43­,44,156/­57, 162/­63). Rimane cioè a livello strumentale. E annota come una vittoria il fatto che “i pazienti miglioravano in modo evidente senza che, al di là di crisi evolutive, impazzissero gli operatori” (sic).
Algranati è sicuramente uno “psichiatra anomalo” nel senso che non fa ricorso soltanto al criterio patologico (diagnosi/terapia) per giudicare uomini e comportamenti (di questi tempi è già molto!) e arriva a porsi (e a porre alla sua èquipe) le domande giuste: “L’intervento migliore per la pazzia è forse quello di lasciarla vivere? Di osservarla da lontano con discreta protezione, senza interferire pesantemente in un suo qualche sviluppo ‘fisiologico’? E ancora: come definire la normalità? Possiede nuclei pazzi, psicotici? Non è forse ora che la psichiatria punti maggiormente la sua attenzione sulla normalià piuttosto che sulla pazzia? Infine, come definire la ‘sanità’?” Ma queste domande rimangono senza risposta.
Giorgio Antonucci: la rivoluzione
Il libro di Antonucci parte proprio dalla risposta a queste domande, cioè dalla critica alla psichiatria come scienza. La sua esperienza professionale a Cividale del Friuli (1968), a Gorizia (1969), a Reggio Emilia (1970/­72) e dal 1973 a Imola per più di vent’anni (ora è in pensione), è una lunga battaglia all’interno dei reparti manicomiali per la liberazione delle vittime del pregiudizio psichiatrico. Solo in parte il libro riflette il significato fulminante della “lunga marcia” di Antonucci attraverso le istituzioni manicomiali, un esperienza che non ha uguali al mondo (fra gli “addetti ai lavori” l’unico che la pensa come lui è il professore americano Thomas Szasz, che ha scritto la prefazione del libro).
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Pubblicato il 31 July, 2014
Categoria: Libri, Testimonianze

L’antipsichiatria di Mario Tobino – Eugen Galasso.



“Lo scrittore  e intellettuale Fausto Gianfranceschi, scomparso poco più di due anni fa, nella sua prefazione a “Il figlio del farmacista”, primo romanzo di Mario Tobino (pubblicato la prima volta nel 1938), nell’edizione mondadoriana del 1980 afferma tra l’altro: “Nella sua visione del mondo e nella sua opera letteraria Tobino non è mai stato toccato da questo impoverimento umanistico che ha raggiunto punte assurde e inique.  Non a caso egli è stato uno dei pochi psichiatri – certamente il più coraggioso e battagliero – che si sono opposti alla ventata di follia, abbattutasi, per motivi più ideologici che medici, sul mondo psichiatrico italiano” (Prefazione di F. Gianfranceschi a “Il figlio del farmacista”, Milano, prima edizione Oscar Mondadori, 1983, p.10). Palese l’incongruenza tra la prima parte, che si vorrebbe incentrata sulla rivendicazione di valori umanistici e la seconda, nella quale si rivendica la posizione tobiniana (Tobino era psichiatra e direttore di manicomio, oltre che scrittore) contro l’antipsichiatria.  Per Gianfranceschi, di provenienza neofascista (da sempre oscillante tra il neopaganesimo dichiarato di Julius Evola e il tradizionalismo cattolico, Gianfranceschi), con alle spalle vari fatti penalmente perseguibili (il neofascismo, sia ricordato per accidens, è proibito dalla Costituzione italiana), l’umanesimo è quindi quello delle celle, delle torture, dell’elettroshock, della camicia di forza, della reclusione forzata (TSO) in manicomio….   No comment, dato che il commento è ampiamente implicito in quanto scritto sopra. Eppure, come ricorda sempre il vero fondatore dell’antipsichiatria, il dott.Giorgio Antonucci,  nella sua battaglia per il superamento della psichiatria aveva trovato a suo tempo sostegno nel collega Vita Finzi, anch’egli vicino al MSI (Gianfranceschi, almeno inizialmente era ancora più a destra). Diverse sensibilità, dunque, ma anche diverse maniere (pur nel mondo della destra) di intendere la vita e il mondo, dove viene da osservare che testi come questi, molto usati per la lettura personale ma anche lo studio forniscono una visione distorta di problemi fondamentali, quelli dell’esistenza e della società, quindi politici (ma non partitici, come si vede anche da questo breve excursus). Insopportabile lo stile paludato del Gianfranceschi , cantore dell’ortodossia cattolica reazionaria (in questo totalmente in disaccordo con Evola, come già segnalato), che parla di  punte “assurde e inique” (possono essere assurde e non inique, anche a rigor di logica) nell'”impoverimento umanistico”.
Eugen Galasso

Pubblicato il 6 July, 2014
Categoria: Testi

Mostro, folle, matto – di Eugen Galasso

Come ci ricorda Pierre Magnard, filosofo, nel suo bel dialogo-conversazione con Eric Fiat “La couleur du matin profond” (Paris, Les dialogues des petits Platons, 2013, p.112) , un tempo, precisamente nel 1500, era “la prigione a far funzione (le veci, se si vuole) dell’ospedale psichiatrico”: lo ricorda a proposito di Michel Montaigne che volle andare a trovare Torquato Tasso quando “era uscito di senno”, ma aggiunge, giustamente, che, per es. il grande chirurgo di quell’epoca, Ambroise Paré, parlava del “Mostro” (quale era considerato e viene tuttora considerato il “folle” o il “matto”, nelle differenti versioni e gradazioni…) non certo come inumano, come “su-umano”, ma come “prodigio” (uno dei significati di “monstrum” in latino…), come “manifestazione dell’onnipotenza divina” (op.cit., ibidem), un essere che ha, in quanto tale, diritto a tutte le cure possibili da parte degli altri esseri umani.  Se si pensa a questa considerazione, peraltro presente anche precedentemente (nell’antichità il “folle” era spesso il vaticinante, il “paragnosta”, nel Medioevo si parlava del “folle di Dio”, in molte culture non occidentali il “folle”, ma anche il “matto”, più popolarmente inteso è apparentato e apparentabile allo sciamano), ne constatiamo l’abissale distanza con la concezione della psichiatria attuale, che lo considera elemento da “sorvegliare e punire” (Foucault), da escludere e rinchiudere.  Ecco allora ancora una volta sconfermate le famose “magnifiche sorti e progressive” (espressione usata in chiave apologetica da Terenzio Mamiani e virata al negativo dal più intelligente cugino Giacomo Leopardi).

Eugen Galasso

Pubblicato il 26 May, 2014
Categoria: Notizie

Ray Bradbury e la duplicità dell’essere umano – di Eugen Galasso

“Siamo tutti misteri di luce e di buio”: così, in una lettera del 10 giugno 1974 di risposta a un lettore a proposito di Walt Disney (vexata quaestio da sempre, negli States, anche per l’impatto sociologico e “psicologico” sulle persone e le dinamiche di gruppo-identificazione con l'”eroe medio” e simili, omologazione etc.), “riscoperta” e tradotta ad hoc in un quotidiano,  il grande scrittore Ray Bradbury (1920-2012), partendo dal “caso Walt Disney” universalizza una riflessione che vale senz’altro, per demolire ulteriormente i dogmi psichiatrici. I comportamenti umani, i “misteriosi atti nostri” (Federigo Tozzi) sono qualcosa di imponderabile, che è irriducibile (pur se Bradbury si guarda bene dal parlare di ciò) a presunte “malattie psichiche”, a “traumi invalidanti”(che esistono in campo fisico, segnatamente in osteopatia, non nell’ambito della psiche) a qualcosa di “raddrizzabile” come le ossa. Dice Bradbury, in un  passaggio, quello che dice/ci dice in tutte le sue opere, ossia che “Siamo tutti misteri di buio e di luce” (concetto che è già, almeno, nei Tragici Greci, in Shakespeare, Baudelaire, Dostoevskij, per non dire di teorici quali Machiavelli, Hobbes,  De Sade). Non interessa qui, in alcun modo, riflettere su quanto Bradbury pensasse della psichiatria, ma è importante considerare che, invece, vale la considerazione fondamentale espressa da Bradbury stesso sulla duplicità dell’essere umano, “Jekyll e Hyde alla stessa maniera”, anche se con modalità alterne/alternate.  Nulla di che, nessuna “schizofrenia” ma un richiamo dostoevskijano (esemplifico, riduco all’essenziale) fondamentale, appunto: “siamo tutti misteri di luce e di buio”, dove l’intervento di  “truppe addette alla salute psichica” chiaramente non ha senso, come non ha senso, credo, l’istituzione di alcuna truppa, mai, se non di un esercito popolare che nasca dai desideri (non da quelli instillati, però) del popolo in situazioni di reale emergenza.
Eugen Galasso

Pubblicato il 27 April, 2014
Categoria: Testi

Conferenza-dibattito a Lecce



Domenica 9 marzo 2014 a Lecce



Pubblicato il 4 March, 2014
Categoria: Notizie

Azioni cinematofrafiche di critica psichiatrica

Il 25 febbraio 2014 Giorgio Antonucci e Maria D’Oronzo sono stati intervistati da una troupe cinematografica di Los Angeles, sulla questione psichiatrica, teoria e prassi, farmaci e elettroshock. La troupe cinematofrafica sta girando in tutto il mondo con i protagonisti mondiali di critica alla psichiatria.

Pubblicato il 4 March, 2014
Categoria: Notizie

“La fabbrica della cura mentale” di P.Cipriano e i distinguo inutili – Eugen Galasso

Tra le tante genericità e i luoghi comuni su psichiatria, antipsichiatria, TSO etc., diffuse e diffusi a più non posso, anche tra gli operatori e le operatrici del settore spicca questo testo, quest’intervista che mi viene segnalata e inviata, che Piero Cipriano, psichiatra  basagliano ha rilasciato a Laura Antonella Carli in A-Rivista anarchica di febbraio 2014, n.386, un’intervista  che nasce intorno a un libro del dott.Cipriano.  Le contraddizioni di questo testo (l’intervista, intendo, ma anche il libro) sono flagranti:  Cipriano dice che “La diagnosi in psichiatria è un modo brutale per annullare una biografia con una semplice etichetta”. Dopodiché lo schizofrenico sarà uguale a tutti gli altri schizofrenici: incomprensibile e inguaribile come tutti gli schizofrenici”. Già qui ci sarebbe molto da dire, in quanto per es. il concetto di schizofrenia non viene messo in discussione, ma il problema in realtà non sta qui, in quanto comunque Cipriano mette seriamente in dubbio le “certezze” della logica psichiatrica. Ma poi, parlando del TSO, si dice che “Il TSO è il nervo scoperto della legge 180; obbligare una persona con disturbo psichico alla cura. E’ l’atto non libertario di questa legge libertaria: atto delicatissimo, che avrebbe dovuto essere l’ultima ratio, invece ormai i TSO vengono proposti e convalidati in maniera facile e stereotipata, per non perdere tempo a negoziare”. Attenzione alle parole: già qui Cipriano accetta la logica del TSO, che, dunque “non deve venir proposto e convalidato in maniera facile e stereotipata”.  Affermando, inter cetera, di essere di formazione anarchica, l’autore in questione, che ricorda anche nel libro Mastrogiovanni, il maestro libertario sottoposto a TSO e fatto morire nel reparto psichiatrico di un ospedale campano (a Vallo della Lucania, Ospedale San Luca) , parla di lui come di colui “che ha subito un TSO, probabilmente ingiusto e, davvero persecutorio, che ha rappresentato l’ultimo anello di una catena persecutoria che subiva già da molti anni”.   Tutta questa “manfrina” (mi scusi anche Cipriano, ma lo è)contraddetta da quell’avverbio “probabilmente”: o il TSO (di Mastrogiovanni come di qualunque altra persona) è ingiusto o è giusto, tertium non datur, non vale il “probabilmente”, altrimenti varrebbe l’eccezione, anzi varrebbero le numerose eccezioni, confermando dunque una regola e una prassi. Cipriano, spinto dall’intervistatrice (ma tutto questo è già nel libro, “la fabbrica della cura mentale”, Milano, Eleuthera) parla poi di “realtà buone”, di “esempi virtuosi”. E qui già enumerando: Trieste, Mantova, Trento, Merano etc. Ora: sarebbe sciocco negare che ci siano realtà “meno peggiori” di altre, ma così il problema non si risolve: o si è contro, con Szasz e Antonucci, il “mito della malattia mentale”, oppure si opera a favore dello stesso, con un riformismo più o meno blando al suo interno. Il basagliano di ferro romano, che richiama il nichilismo di chi scrive bellissimi libri ma non agisce nella prassi, forse dimentica che “gli antipsichiatri (i Laing, i Cooper, i Szasz) che , nonostante i bellissimi libri che hanno scritto, non hanno inciso minimamente rispetto alle pratiche manicomiali dei loro paesi”. Ora, la questione è ovviamente più complessa: in Gran Bretagna le opere di Laing e Cooper non sono state recepite a livello politico legislativo, ma hanno inciso sull’opera non solo teorica di molte persone (Basaglia stesso leggeva gli autori citati con entusiasmo), negli States, paese ancora più conservatore della Gran Bretagna, Szasz non ha aperto quasi nessuna breccia a livello istituzionale, ma ne ha aperte molte a livello di coscienza. Anche Cipriano e anche la casa editrice Eleuthera, che pure qualcosa di suo aveva pubblicato (“Il pregiudizio psichiatrico” e “Pensieri sul suicidio”) sembrano dimenticare o voler dimenticare Giorgio Antonucci, che certi distinguo inutili non li fa…
Eugen Galasso

Pubblicato il 23 February, 2014
Categoria: Testi

Un romantico contro la psichiatria – Eugen Galasso

Spesso un discorso, anche involontariamente-inconsciamente, “anti-psichiatrico” si nasconde “nelle pieghe”: è il caso, oltre che di affermazioni varie nell’antichità e nel Medioevo (pensiamo a quella sofoclea per cui “il più grande enigma è l’uomo”, che tuttavia è probabilmente ancora troppo “generica”, in vari sensi) a un’affermazione radicale e precisa di Théophile Gautier (1811-1872), grande scrittore romantico e teorico del Romanticismo, che in “Avatar” scrive, tra l’altro (tralascio il contesto, qui “inessenziale”): “Non si è ancora sezionata un’anima in un amfiteatro anatomico” (Avatar in “Avatar, la mort amoureuse et autres récits fantastiques, Paris, Gallimard,   p.213). Considerando che il romanzo in questione è del 1857, quindi della metà (poco più) del 1800, la “psichiatria” dell’epoca era in piena fase meccanicistica, la Salpetrière in piena funzione (molti decenni prima aveva “accolto” il “Divino” Marquis de Sade), dunque, anche se appunto “involontariamente”, magari riprendendo la dicotomia cartesia tra res cogitans (pensiero, mente ma anche “anima”, dato che il concetto di “psiche” è posteriore) e res extensa (corpi e natura), segna una netta cesura tra “dilemmi della mente e dell’anima” (mi esprimo volutamente in maniera generica) e corpo, dove è solo sul corpo-sui corpi che anatomia e chirurgia possono agire…  Una precisazione importante che, pur se in maniera “accidentale” (non risultano trattati del saggista Gautier su questi temi) chiarisce molto bene la questione in gioco. Che poi il dilemma (dirò così, ma potrei dire “sofferenza”) del protagonista di “Avatar” (nulla a che vedere con il “cult-movie” di qualche anno fa, ma è quasi pletorico metterlo in chiaro), Octave sia “un chagrin d’amour” (una sofferenza d’amore) è questione che attiene strettamente al Romanticismo, ma al tempo stesso, se vogliamo estendere la cosa e farne un problema anche ai giorni nostri, vuol dire quasi “Giù le mani dall’amore, psichiatri eventuali!”. E non è questione peregrina: se si pensa ai suicidi per amore, tuttora, ma anche a persone che per lo stesso motivo finisconmo in “clinica psichiatrica” etc… Qui l’esperienza lunga e profonda di Giorgio Antonucci  docet. Sarebbe, ovviamente, una pura sciocchezza voler leggere le frase, quasi “intervallata” (ricorro a una similitudine musicale credo non peregrina, dato che anche sintatticamente la frase che ho tradotto è un inciso, una proposizione incidentale) di Gautier quasi fosse un predecessore di Szasz, Antonucci, Laing, Cooper etc., ma sicuramente una riflessione a riguardo credo sia opportuna, dato che la parola o meglio l’espressione intera “è gettata”.  Certo gli “psichiatri” non leggono Gautier, però…
Eugen Galasso

Pubblicato il 12 February, 2014
Categoria: Notizie

Convegno: Si può fare in maniera diversa – con Maria D’Oronzo

25 febbraio 2014, Rimini

Cinema Teatro Tiberio, Chiostro Chiesa di San Giuliano Martire, via San Giuliano 16 Rimini

ore 13: Maria D’oronzo

Relatori: Riccardo Sabatelli, Stefania Guerra Lisi, Vincenza Palmieri, Nunzia Maniacardi, Francesco Miraglia, Maria D’Oronzo, Marisa Golinucci, Mariano Loiacono, Roberta Casadio

Pubblicato il 8 February, 2014
Categoria: Notizie

Psichiatria ma spesso anche psicologia – Eugen Galasso

Una psichiatria al servizio dei poteri, del potere (ma al Potere pasolinianamente inteso non credo, se non come efficace metafora) quando i poteri convergono  su una linea, accerchiano chi si colloca al di fuori di certe logiche, ma anche certi orientamenti psicologici e psicoanalitici rischiano di essere o divenire “invasivi”, soprattutto se fraintesi nella loro essenza. Così psicologi e psicoanalisti (ma anche psichiatri tendenzialmente orientati verso la psicoanalisi) di orientamento freudiano curiosi di estorcere ai loro clienti (o “pazienti”, se vanno dallo psichiatra) “confessioni” sul sesso, anche in età infantile, per sapere se abbiano assistito alla “scena primaria”, quando e come…Adleriani intenti a chiedere informazioni sul rapporto con la propria individualità, con l’autoaffermazione etc., junghiani (o presunti tali, ma vale per gli orientamenti precedenti e per altri che qui non enumeriamo per non tediare troppo chi legge) che interrogano le persone sulle opzioni simbolico-religiose etc. Anche nell’ambito che sembrerebbe meno invasivo o dovrebbe essere tale, quello umanistico di Carl Rogers (ma anche altri psicologi della “Terza Ondata”, come spesso si chiama, fanno uso, per es., di LSD, quasi fosse versione più moderna del Pentothal, peraltro ancora in uso…). Studiando, vari anni fa, le opere di Rogers con un professore rogersiano, avevo trovato, nella formulazione, abbastanza oppressiva, delle domande rogersiane, tale rischio, ma avevo trovato poi una sorta di prontuario rogersiano (meglio: di suoi seguaci ed eredi) che si distingueva per essere pedantesco, noioso, mirato comunque sempre a indirizzare la persona, a guidarla a dire anche ciò che non vorrebbe dire. Ho ritrovato da poco un romanzo non di grande momento, “Marnie”di WInston Graham, che considero di gran lunga inferiore al film omonimo che ne aveva ricavato Alfred Hitchock (il romanzo è del 1961, il film del 1964). Non mi soffermo sulle differenze tra romanzo e film(molte e molto significative, peraltro), non entro nel merito delle questioni estetiche e poetiche relative, ma vado al nocciolo della cosa, ossia a un elemento chiave del libro, che nel film non c’è, perché là sarebbe inutile: il dottor Roman, che vuol curare, per indicazione del marito Mark la moglie, giovane cleptomane (cito qui la definizione desunta dalla vulgata psichiatrica) terrorizzata dal sesso (anche qui definizione semplificata, per intenderci). Ebbene, Roman, che Graham definisce”psichiatra” (cfr. quanto detto sopra; ma c’è anche da dire che un romanziere, per di più anglosassone, non è obbligato a distinguere troppo tra questi ruoli, e comunque l’autore non lo fa…), ad un certo punto chiede alla protagonista se lei non voglia(generare ma poi avere, educare, curare etc.) bambini. Una violenza inaccettabile, orientata ad un paradigma teleologico, ossia di finalismo procreativo imposto alle persone.  D’accordo, non c’era il femminismo, si potrebbe obiettare, ma anche dei maschi potrebbero rivendicare (chi scrive spera lo facciano sempre di più, ma questo è altra cosa) la loro intenzione di non generare. Discorsi culturali a parte, però, rimane la violenza fatta al pensiero e alle intenzioni di una persona, specie se donna (nella fattispecie) indotta se non obbligata, comunque “persuasa occultamente” (l’espressione è di Vance Packard) a generare anche se non vuole farlo. Si dirà: ma è un romanzo. Invece no: a parte il fatto che molto spesso, se non sempre, i romanzi riflettono la cultura del proprio tempo, nel caso specifico si sa di medici (anche per nulla psichiatri), psichiatri, psicologi, psicoanalisti insistono, che,   anche se non sono cattolici integralisti, su questo tipo di argomentazione insistono, sulla necessità di “sorvegliare e punire”, di controllare, in particolare chi si ritiene (meglio: il potere machista ritiene) sfugga alla cultura, collocandosi più sul versante della natura. Ma, se il discorso vale a fortiori per la donna, sempre repressa (Giorgio Antonucci, “non psichiatra” che ha il merito di aver chiuso i reparti femminili dei manicomi, ma anche di aver teorizzato la sua prassi, docet), esso vale anche per l’uomo, o meglio per quegli uomini che non rientrano negli stereotipi logocentrici della “sola cultura”.
Eugen Galasso

Pubblicato il 29 January, 2014
Categoria: Notizie

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo