DOSSIER IMOLA E LEGGE 180
Intervento di Dacia Maraini: https://www.youtube.com/watch?time_continue=335&v=S9HWr7IjKMc
Scritti di
Alberto Bonetti
Giuseppe Favati
Dacia Maraini
Gianni Tadolini
A cura di G. Favati
Idea Book
INDICE
Giuseppe Favati, Dossier. 180 e seguenti – Antonucci: una pratica che disturba 5
Alberto Bonetti, Lettera a Giovanni Berlinguer 19
Delibera degli amministratori dell’Ospedale “S. Maria della Scaletta” 27
Gianni Tadolini, Attenti ai passi indietro 35
Gianni Tadolini, Psichiatria: come volevasi dimostrare 41
Dacia Maraini, Altre grida disperate dal manicomio 45
Documento CGIL, CISL,UIL ospedalieri e Amopi 53
Documento degli amministratori 57
Gianni Tadolini, Dei manicommi. Lettera aperta a Mario Tobino 59
Dacia Maraini, Un’orchestra esegue Mozart all’ex ospedale psichiatrico 65
Dacia Maraini, Imola, festa al Padiglione n. 10 73
Ed è già un anno dalla legge 180 sull’assistenza psichiatrica in Italia, anticipo della riforma e conseguente servizio sanitario nazionale (sic). Anticipo forse stimolato e anzi frettolosamente concesso per paura del referendum abrogativo dei manicomi, ma pur sempre legge che – è stato detto da amici, compagni, generici e primi attori – porta il segno del lavoro di tanti anni, nasce dalla pratica e dalla storia reale degli uomini, storifica lotte e sofferenze. Credo però che nessuno abbia richiamato subito – e oggi a un anno di distanza il riferimento sarà percepibile – il caso costituzione, la legge “suprema” dello stato democratico, che portava – porta – i segni della storia reale, di tanti morti e torture e sangue, parole riecheggianti voci vicine e lontane ( così Piero Calamandrei), e molto prometteva: una costituzione programmatica cui si è opposto una costituzione materiale , il fascio e il fascismo di norme ( e rapporti sociali) tuttora operanti, vigentissime, spolveratissime. Sempre Calamandrei commentava che, nel riflusso del dopoguerra, ci era stata data, appunto con la carta costituzionale, una promessa di mutamento in cambio del mutamento.
Idem con la legge 180. Senza il lavoro di molti uomini e donne, di tanti gruppi rimasti “sconosciuti”, e ai quali non spetta neppure un veloce rimando in nessuna storia, in nessun ripensamento delle esperienze di psichiatria alternativa o non-psichiatriche (anche nel movimento, anche nei vari anti perdura il processo della nominazione, dell’identificazione rassicurante, del protagonismo trasferito e trasferibile in tutti i luoghi deputati all’informazione, video libro di grande editore foglio culturale di sinistra extra), senza quel lavoro la legge 180 non sarebbe mai venuta. Oggi vi è la possibilità di dimensioni diverse, il no al manicomio ha un suo punto di riferimento formale, e da qui può scaturire una maggiore e più dinamica articolazione del nostro fare, da qui può riprendere una carica di esperienze per sfondamenti della realtà segregata e segregante.
La lotta si è fatta più aperta e al tempo stesso più insidiosa. Proprio perché vi è una estensione di scacchiere, uno spostamento di piani, di livelli, un abbassamento e un’alzata di tiro, accompagnati – se mi è consentita questa metafora – da un eccesso di “citazioni”. Intendo dire che il bersaglio istituzionale manicomio sembra affatto scomparso, e che ospedale generale, territorio, ambulatorio, domicilio diventano parole in abbondanza sulla bocca dei potenti, incitano ad asserzioni spericolate, alla “scoperta” di nuovi paradigmi dell’intervento (socio-sanitario) e del comportamento (umano). Questo accumulo di “citazioni” passa ancora sulle teste della gente, stupefatta. Il relatore della 180, l’on. Orsini, afferma, quagliesco, in Tv: “Tutti i malati devono essere curati a casa”. E’ sempre la promessa di mutamento in cambio del mutamento che non si dà e che non si vuole. Infatti l’Orsini difende, offeso, medici e psichiatri allorchè Basaglia brontola, arcigiustamente e fascinosamente, che i medici vogliono conservare il loro potere mentre il corpo è nostro. Se sono mutati o sono divenuti più sofisticati i quadri teorici entro i quali si muove la classe dominante, nell’immagine di mondo trasmessa dall’alto agli strati inferiori nulla è cambiato dalla formalmente sepolta legge 1904, e regolamenti e ritocchi susseguenti. Un assaggio: art. 60 del R.D. 16 agosto 1909, n. 615, ”Regolamento sui manicomi e sugli alienati”: “Nei manicomi debbono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’Istituto. (…) L’uso dei mezzi di coercizione è vietato nella cura in case private”.
A sua volta Basaglia, alla madre angosciata perché non sa dove battere il capo con il figlio “malato di mente”, nessuno ora le dà una mano ( e chi, e come gliela dava prima?) risponde semplicemente e un po’ misteriosamente per la vastissima platea televisiva: “ ora ha una voce suo figlio, ora lei ha una voce”. Parafrasando e correggendo il manicheismo di Hendy: buono, ma soprattutto meno buono. In alcuni manicomi i “malati” avevano conquistato già una voce, il diritto alle assemblee, a criticare l’istituzione, i medici, gli infermieri, ecc. Nell’ospedale generale no, nell’”ospizio” no, negli ambulatori no. Non si ha diritto mai a una parola. Hanno invece diritto loro, di ignorarti, di usarti, di umiliarti in cento e diecimilauno modi. E non è che questo accada con i vecchi e basta. Il potere medico bada all’età: cambiano solo i tipi di umiliazione del vecchio istituzionalizzato o della giovane donna ricoverata (ad es. certi ginecologi sono tra i maggiori maestri di questo genio criminale, troppo spesso direttamente proporzionale ai loro appelli intenti nella camomilla dello spiritualismo, in difesa usque ad mortem del sacro diritto alla vita).
Lo stesso Basaglia definisce efficacemente l’ospedale generale “un grande manicomio di per sé”. E d’altro canto il cosiddetto territorio è interamente da costruire con i suoi “servizi”, con le sue “unità”, funzioni e plessi di funzioni. Cosicchè tutto resterebbe affidato al fatto che “il sociale – sottolinea Basaglia e non solo lui – entra per la prima volta nell’ospedale generale, e quindi vi entra la contraddizione”. Ma, allo stato, nella dimensione interna e nella dimensione esterna, i figli e le madri possono restare provvisoriamente e paradossalmente con minor voce di prima.
Si tratta di provvisorietà in fondo ineliminabili nelle condizioni date. L’argomento – che sembra tagliare la testa a tutti i tori – “prima le strutture poi la legge” – è sostanzialmente fasullo. Per strappare una legge – e la migliore delle leggi non sfuggirà mai alle ambiguità volute – ci vuole fatica e sangue. Per tradurla nei fatti, ci vuole molta più fatica e sangue. Le “strutture” poi devono essere un risultato in continuo divenire, oppure diventano nuove e più sinistre trappole. Insomma, se per l’aborto in Italia, anziché approvare una pur discutibilissima legge, avessimo atteso la disponibilità delle “strutture” (ossia, in primo luogo, i comodi proprio dei ginecologi suddetti) sarebbe scoccato il duemila.
Allora, finalmente, dovrebbe essere agevole l’accordo su uno dei cuori del problema: posto che la legge 180 è assai meglio ci sia che non ci sia, nessuna illusione sulla persistente segregazione istituzionale e sulle spinte e sui rischi della “dilatazione” psichiatrica. L’ospedale accoglie e cura press’a poco come il manicomio. Certo, se il “malato” rifiuta le cure lo si deve mandare a casa, ma il ricovero obbligato “rimane” una misura di polizia; e se il “malato”, dimesso, continua a disturbare un reato almeno di oltraggio non glielo leva nessun santo; e cos’ via. Sullo sfondo il manicomio giudiziario intoccato e intoccabile anche nominalmente.
Ma la tendenza alla “dilatazione” è irreversibile. Non è questione di prendere atto di una tendenza che lo stesso movimento alternativo ha incoraggiato e doveva incoraggiare, nel senso dell’uscita allo scoperto, esponendosi ai colpi di un uso, e di usi più complessi della catalogazione, della schedatura, della manipolazione, della repressione. Il manicomio, edificio fatiscente ma pur sempre in piedi, rischia di moltiplicarsi negli ospedali e nel territorio, metamorfosandosi. Ciò comporta la necessità – pena la disfatta- di coinvolgere non solo il momento psichiatrico con quello sanitario, ma quelli con tutti gli altri nel contesto sociale. Meglio: di “sciogliere” i primi nei secondi.
E’ quest’ultimo un passo che molti contestatori dei criteri nosografici tradizionali e dei meccanismi della violenza, persone ad elevato grado di qualificazione professionale e di riflessione teorica, stentano a compiere o si rifiutano di compiere. “Forse” – avverte Pirella – “costoro finiscono con il rispondere più ai loro bisogni personali di sopravvivenza culturale, di gruppo, di competizione intellettuale, chiudendosi ad ogni verifica sul reale e producendo nuove ideologie di ricambio” (Il corsivo e mio). E ancora: “… certamente gli scritti di Jervis hanno contribuito a favorire questo ritorno di riflessioni separate dai problemi reali e a produrre esercitazioni su ideologie contrapposte e in concorrenza tra loro (ad es. nel recente Normalità e deviazione di Di Leo – Salvini, editore Mazzotta). Non mi sembra tuttavia che possa essere soltanto il problema di un uomo per quanto intelligente e sofisticato esso sia…”: c’è una propensione abbastanza diffusa a lavorare teoricamente senza confrontarsi con “certe esperienze di lotta”.
Viceversa c’è bisogno di pratiche, e ogni pratica ha un suo costo personale elevato cui l’essere nel mondo da intellettuale tradizionale perennemente si sottrae. Non c’è alcun bisogno di ideologie di ricambio, quali la stessa Antipsichiatria, pur suggestiva e meritoria, d’importazione anglosassone. Pirella dice bene che non interessa una conoscenza psichiatrica ulteriore per confermare il ruolo dello psichiatra, del terapeuta decifratore del senso; “noi non dobbiamo essere esperti della follia…”. I problemi delle persone che chiedono una casa, un lavoro, ecc. “non sono uno spazio per la follia (vedi Amati e altri) ma uno spazio per la vita, il diritto di sopravvivere e comunicare, la libertà di rivendicare e, al limite, di lottare. Noi siamo espropriati della libertà di lottare …” Dove si potrà sospettare qualche fraintendimento: ad esempio, è anche questione di spazio per la “follia”, perché mai no? Certo, senza consentire affatto su Follia=Verità, Cammino verso il Centro della Terra (con un rovesciamento “spiritualistico” somigliante a quello di chi pretende di superare “materialisticamente” gli schemi crociani e post assiomatizzando Poesia=Bellezza, Bellezza=Realtà cioè Lotta di classe). Quel punto però è una discriminante assoluta. Il rifiuto, diciamolo chiaro e tondo, dell’intervento sanitario repressivo a piccola verso grande macchia, dunque della medicina gerarchica e manipolatrice, l’adozione di una pluralità di pratiche non-psichiatriche dentro e fuori l’istituzione.
Antonucci: una pratica che disturba
Fra i più tenaci, estremi, e paganti in proprio, sostenitori di questa modalità di essere e rapportarsi al mondo della segregazione vi è Giorgio Antonucci. Già a Cividale del Friuli, poi a Reggio Emilia, quindi a Imola. Dal reparto in ospedale civile affidato a Edelweiss Cotti nel 1968, trascorsi appena sei mesi fu cacciato, lui e i suoi compagni di lavoro, dalla polizia in pieno assetto operativo. E il reparto chiuso. Da Reggio Emilia, Centro di igiene mentale, fu costretto a andarsene non tanto per intervento determinante del “potere” (anche se collezionò denunce, ma tutte archiviate), quanto di “altro” su cui amici stanno portando in concreto la loro riflessione, una riflessione che mi auguro consentirà chiavi di lettura diverse da quelle di recente offerte per le esperienze reggiane post-68.. All’Ospedale psichiatrico “Osservazione” di Imola dove venne chiamato da Cotti, divenutone direttore, nel 1973, il suo lavoro ha richiesto di nuovo quel costo elevato cui accennavo sopra, e che era ed è inevitabile per chiunque si ponga completamente al di fuori della visualità psichiatrica, vecchia o nuovissima o futuribile, dei meccanismi repressivi-espulsivi come delle teoriche autogratificanti.
La scelta di Imola fu in buona misura obbligata, e quindi non scelta, ma Antonucci, da quel provocatore che è sempre stato, chiese il reparto più duro, quello degli “irrecuperabili”, degli “agitati”. Che era il 14, donne. Successivamente vi si aggiunsero i reparti 10 e 17, donne e uomini. Ricominciò la sua sfida all’ambiente, ai codici diffusi, ecc. e anche a se stesso, non solo nel senso della solita contraddizione vissuta e coscienzializzata (un non-psichiatra in manicomio), ma soprattutto per la resistenza fisica duramente messa alla prova come mai prima. Poiché qui non si scrive una biografia, né si confezionano santini o mezzi busti, né d’altra parte si narrano “miracoli” (è termine che ricorre sulla bocca dei gestori della nostra salute irridenti alla categoria del “socio-politico”), basterà accennare al turno di guardia di un medico il quale aveva eliminato tutti i mezzi di contenzione e i massicci psicofarmaci e si ritrovava, per ventiquattr’ore filate, in conflitto insanabile con la situazione di violenza degli altri reparti dell’O.P. Mentre i colleghi medici, a loro volta, in quei turni di guardia dormivano il sonno del giusto. Quanto al personale di cui c’era bisogno, ci hanno pensato tutti i governi e nella fattispecie Stammati con il suo decreto vietante assunzioni, supponiamo in ragione dell’austerità necessaria alla salvezza del paese e comunque della moralità amministrativa. Ma a onor del vero Stammati non avrebbe impedito di affiancare ad Antonucci un altro aiuto medico.
Disgraziatamente, infatti, la pratica di Antonucci dava risultati eccezionali. Non poche testimonianze informazioni al riguardo si ritroveranno qui di seguito, a cominciare della lunga puntuale lettera di Alberto Bonetti a Giovanni Berlinguer, indispensabile per la comprensione di ciò che è cominciato ad accadere ed è infine precipitato a Imola dopo la legge 180.
“In presenza” dei risultati sono venute le insofferenze e le aggressioni morali contro Antonucci. Quel “dottorino” mostrava, con il contributo determinante degli infermieri e delle infermiere, liberatesi anch’essi da un passato di terrore nei confronti dei “pazzi”, che quei poveracci potevano, ma guarda, ancora parlare, comunicare, camminare, perfino gioire; e via via crescevano le irrisioni di corridoio, le denunce, gli articoli, addirittura i manifesti sui muri della città. Il dottor Antonucci era spesso assente per malattia! Informavano responsabilmente dei sindacalisti, che però non pubblicavano nessun volantino, non affiggevano nessun manifesto per chiarire statisticamente quanti secondi dedicavano gli altri psichiatri all’ospedale e quante ore nei propri studi a contatto ben fruttifero con pazienti privati. Il dottor Antonucci aveva aggredito un medico! Il dottor Antonucci aveva maltrattato una infermiera! Anime pie.
Riassumevano i concetti essenziali i sindacalisti della UIL-Uisao, sciarpa littorio dell’aggressione ad Antonucci: La mafia è forse giunta all’Ospedale “Osservanza”? “…Non ci è possibile tacere ulteriormente di fronte ad episodi che denotano il costante sfacelo in cui il nostro Ospedale è direttamente investito…” e “Il Nuovo Diario”, settimanale cattolico emanazione della Dc di Imola, che coniugava fascismo mafia e compagni. Con gli stessi metodi 50 anni fa si instaurò il fascismo. Anzi codesti compagni (Cotti e Antonucci) sono peggio perché dai fascisti “li distingue solo l’ipocrisia che gli altri – pur fra tante malvagità – non ebbero”. Concludeva a caratteri di scatola il foglio dc: …manca solo la lupara! Che non avrebbero dovuto tardare visto che il potere era ormai nelle mani di “compagni di ferro”, “con licenza di uccidere”
Ma il pianeta terra sarebbe troppo bello se tutto fosse colpa di questa benedetta Dc, e di quei fior di galantuomini che si firmavano Uil. Che facevano nel frattempo gli amministratori locali? Che pensavano e facevano il presidente (socialista) e il consiglio di amministrazione (a maggioranza assoluta di sinistra)? Nel complesso qualcosa di molto simile alla tolleranza meditabonda, anziché all’attiva solidarietà; e in almeno un caso richamavano l’Antonucci in termini disciplinari.
Finale provvisorio. Dopo l’approvazione della legge (ora ex) 180, il consiglio ridistribuiva incarichi e direzione dei padiglioni, con un provvedimento (passato poi all’esame, senza intoppi, del comitato regionale di controllo) che obiettivamente incoraggia i medici ostili durante tutti questi anni alle misure innovative e punisce Antonucci, al quale sottrae la responsabilità dei reparti 10, 14, 17.Significativamente è su “Il Forlivese”, settimanale del PCI del comprensorio di Forlì, che il compagno Gianni Tadolini denuncia il fatto. Senza conseguenze. Alla fine di luglio Dacia Maraini intervista Antonucci per la “La Stampa” e il colpo viene accusato. CGIL, CISL. UIL (ahinoi) ospedalieri e Amopi (nientemeno che l’associazione dei medici di ospedali psichiatrici) richiedono che sia ristabilita la verità contro le calunnie. Il consiglio di amministrazione emana un comunicato parapìm parapàm (più avanti tutti i documenti citati, in versione integrale).
Il problema ha investito ormai la capacità di far politica del PCI forlivese ( e non). Sul versante PSI, in compenso, tutto è silenzio, salvo errori e omissioni; forse si sveglieranno domattina accusando i comunisti di Forlì di essere aggrappati alla ciambella del leninismo.
Pubblicato il 2 March, 2017
Categoria: Libri, Presentazione, Testi, Testimonianze