Cancrini: no elettrochoc – Eugen Galasso
In un volume di 22 anni fa, concepito in forma di “libro-intervista” dal titolo “Date parole al dolore”, edito da Frassinelli, curato da Stefania Rossini nel 1996, Luigi Cancrini, psichiatra e psicanalista, un’autorità nella lotta contro le dipendenze, in specie da droga, un esponente – a suo tempo – della cultura di sinistra, segnatamente del PCI (Partito Comunista Italiano), quando questo esisteva. Incentrato sul tema della depressione, pur se non in modo esclusivo, Cancrini ne parla come di “quel gran mare di situazioni che oggi molti vogliono chiamare “depressione” (op.cit, pp.110-111), dove comunque Cancrini, a differenza della prospettiva “rivoluzionaria” (purché si intenda bene il termine) di Giorgio Antonucci, riconosce l’esistenza della “malattie psichiche” (non diremo, comunque, “mentali”) ma ne relativizza la porta, riconducendole, senza orientarsi dogmaticamente verso un indirizzo psicanalitico o psicoterapeutico (non potremmo classificarlo come “freudiano”, “adleriano”, “junghiano”, seguace del cognitivismo, della teorie sistemica o altro) determinato. Molto interessante la parte nella quale (capitolo sesto del volume) nega validità all’elettrochoc (o shock, all’inglese), “per ragione terapeutiche, non per ragioni di principio” (ibidem, p.92): “L’elettrochoc , come l’eroina, è uno strumento al servizio dei meccanismi di difesa basati sulla negazione…L’episodio depressivo può anche essere momentaneamente interrotto dalla scossa elettrica, ma (è una prima possibilità) tornerà presto, sarà più grave e sarà vissuto dal paziente come una maledizione , perché sarà diminuita la consapevolezza di sé e delle proprie esperienze. Oppure darà luogo (seconda possibilità) a un deterioramento progressivo della personalità”(cit., p.93). Cancrini ricorda inoltre la morte neuronale indotta da questa barbara pratica, tuttora in vigore soprattutto(ma non solo) nelle cliniche private, da un certo numero di anni anche nelle strutture pubbliche della sanità italiana, ma purtroppo ancora regolarmente praticata in paesi arretrati, su questo piano, quali Gran Bretagna e Austria oltre a i paesi, ovviamente, a struttura politica autoritaria o totalitaria. Un libro forse non attualissimo, da leggere con le avvertenze del caso anticipate in apertura di testo, ma estremamente critico anche verso gli psicofarmaci. Peccato che quanto rimane della “sinistra istituzionale” (PD ma anche “Liberi e Uguali”) si disinteressi del tema e comunque oggi accolga il peggio dell’esistente… Eugen Galasso
Pubblicato il 30 July, 2018
Categoria: Presentazione, Testi
Esempi di accoglienza secondo l’humanitas – Maria D’Oronzo
La città del secondo rinascimento – Trimestale, n.77 – Febbraio 2018
Presentazione del libro “La chiave comune. Esperienze di lavoro presso l’Ospedale psichiatrico Luigi Lolli di Imola”, di Giovanni Angioli, ed La Mandragola.
Il libro di Giovanni Angioli è importante non soltanto perché raccoglie gli elementi principali della sua vita, ma anche perché è un racconto, un’autobiografia, una testimonianza del suo lavoro, attraverso cui offre spunti, riflessioni e un metodo a chi si avvicina alle istituzioni totali, di cui c’è ancora molto da dire, nonostante la nostra democrazia.
Uno dei problemi principali in quest’ambito rimane il ricovero coatto, che avviene attraverso il T.S.O. (trattamento sanitario obbligatorio). Parliamo di persone che vengono prelevate con la forza, portate via dalla loro famiglia, dal loro ambiente, quindi trattenute, sempre con la forza: persone a cui vengono iniettate sostanze contro la loro volontà. Parliamo di tortura. Recentemente in Italia è stato redatto un Disegno di Legge contro la tortura, già presente in Senato. Se passa alla Camera, questa iniziativa deve riguardare anche la psichiatria, perché la convenzione dell’ONU considera tortura qualsiasi sostanza che venga iniettata nel corpo contro la volontà della persona. Questi argomenti vengono affrontati nel libro “La chiave comune” con una scrittura molto fluida e semplice, nonostante i temi trattati. Leggiamo di persone ricoverate per anni, di cui Angioli dà testimonianza a partire dalla sua lunga esperienza presso l’Ospedale di Imola e, in particolare, presso il reparto Autogestito, esperienze a cui ho partecipato anch’io, negli ultimi quattro anni. Al reparto Autogestito venivano “buttate” dagli altri reparti persone che gli psichiatri ritenevano di non essere più in grado di gestire. Il libro narra le storie di queste persone, in molti casi anche le storie pregresse, prima del ricovero, tratte dalle loro narrazioni, tratteggiate da Angioli con grande sensibilità ed efficacia. Storie che parlano d’isolamento, d’incomprensione, spesso di soprusi familiari e sociali, senza contare quelli subiti all’interno dell’istituzione, ma anche di talenti pregressi. Penso che questa azione di presa in carico, di accoglienza attiva da parte del personale del reparto Autogestito possa essere ancora un essempio in vari ambiti, specialmente in questo periodo di grandi flussi immigratori. Il lavoro svolto all’Autogestito è stato di umanità nel senso più vasto della parola. Non c’era superficialità nell’accoglienza, non c’era la volontà di accogliere tanto per accogliere, per un generico buonismo, anzi, per ciascuna persona si discuteva molto, c’erano dubbi. C’erano le assemblee, le discussioni, le occasioni di parola per ciascuno, invitato ad esprimere le proprie problematiche, i propri dubbi, le proprie paure. Fin dall’inizio del mio tirocinio presso il reparto, nel 1992, sono sempre stata accolta con attenzione e invitata a partecipare, a esprimere il mio parere, ma, in questa prima fase, ritenevo di avere soprattutto da imparare. Il reparto era già rodato e ben funzionante, ma, per costituirlo, c’era voluto un grande lavoro organizzativo, di elaborazione e di superamento di grandi resistenze, istituzionali e burocratiche.
A proposito di questo lavoro, occorre parlare di Giorgio Antonucci, entrato nella storia per il suo operato, per la sua testimonianza costante e per i suoi scritti, purtroppo recentemente scomparso, che a un certo punto assunse la responsabilità di tutto l’andamento del reparto. Ricordo che Antonucci ringraziò Giovanni Angioli, nel momento del conferimento del premio a lui intitolato, perché senza la sua alleanza egli stesso non avrebbe potuto spingersi fin dove è arrivato.
Pubblicato il 25 July, 2018
Categoria: Presentazione
“I poveri sono matti” Festival internazionale di canto sociale Corazone
VIDEO:
Basaglia – Antonucci: la differenza di idee e pratiche
Le difficoltà della vita non sono malattie
Si può fare diversamente: che cos’è il Trattamento Sanitario Obbligatorio
Pubblicato il 21 June, 2018
Categoria: Eventi, Notizie, Presentazione, Video
DOSSIER IMOLA E LEGGE 180
Intervento di Dacia Maraini: https://www.youtube.com/watch?time_continue=335&v=S9HWr7IjKMc
Scritti di
Alberto Bonetti
Giuseppe Favati
Dacia Maraini
Gianni Tadolini
A cura di G. Favati
Idea Book
INDICE
Giuseppe Favati, Dossier. 180 e seguenti – Antonucci: una pratica che disturba 5
Alberto Bonetti, Lettera a Giovanni Berlinguer 19
Delibera degli amministratori dell’Ospedale “S. Maria della Scaletta” 27
Gianni Tadolini, Attenti ai passi indietro 35
Gianni Tadolini, Psichiatria: come volevasi dimostrare 41
Dacia Maraini, Altre grida disperate dal manicomio 45
Documento CGIL, CISL,UIL ospedalieri e Amopi 53
Documento degli amministratori 57
Gianni Tadolini, Dei manicommi. Lettera aperta a Mario Tobino 59
Dacia Maraini, Un’orchestra esegue Mozart all’ex ospedale psichiatrico 65
Dacia Maraini, Imola, festa al Padiglione n. 10 73
Ed è già un anno dalla legge 180 sull’assistenza psichiatrica in Italia, anticipo della riforma e conseguente servizio sanitario nazionale (sic). Anticipo forse stimolato e anzi frettolosamente concesso per paura del referendum abrogativo dei manicomi, ma pur sempre legge che – è stato detto da amici, compagni, generici e primi attori – porta il segno del lavoro di tanti anni, nasce dalla pratica e dalla storia reale degli uomini, storifica lotte e sofferenze. Credo però che nessuno abbia richiamato subito – e oggi a un anno di distanza il riferimento sarà percepibile – il caso costituzione, la legge “suprema” dello stato democratico, che portava – porta – i segni della storia reale, di tanti morti e torture e sangue, parole riecheggianti voci vicine e lontane ( così Piero Calamandrei), e molto prometteva: una costituzione programmatica cui si è opposto una costituzione materiale , il fascio e il fascismo di norme ( e rapporti sociali) tuttora operanti, vigentissime, spolveratissime. Sempre Calamandrei commentava che, nel riflusso del dopoguerra, ci era stata data, appunto con la carta costituzionale, una promessa di mutamento in cambio del mutamento.
Idem con la legge 180. Senza il lavoro di molti uomini e donne, di tanti gruppi rimasti “sconosciuti”, e ai quali non spetta neppure un veloce rimando in nessuna storia, in nessun ripensamento delle esperienze di psichiatria alternativa o non-psichiatriche (anche nel movimento, anche nei vari anti perdura il processo della nominazione, dell’identificazione rassicurante, del protagonismo trasferito e trasferibile in tutti i luoghi deputati all’informazione, video libro di grande editore foglio culturale di sinistra extra), senza quel lavoro la legge 180 non sarebbe mai venuta. Oggi vi è la possibilità di dimensioni diverse, il no al manicomio ha un suo punto di riferimento formale, e da qui può scaturire una maggiore e più dinamica articolazione del nostro fare, da qui può riprendere una carica di esperienze per sfondamenti della realtà segregata e segregante.
La lotta si è fatta più aperta e al tempo stesso più insidiosa. Proprio perché vi è una estensione di scacchiere, uno spostamento di piani, di livelli, un abbassamento e un’alzata di tiro, accompagnati – se mi è consentita questa metafora – da un eccesso di “citazioni”. Intendo dire che il bersaglio istituzionale manicomio sembra affatto scomparso, e che ospedale generale, territorio, ambulatorio, domicilio diventano parole in abbondanza sulla bocca dei potenti, incitano ad asserzioni spericolate, alla “scoperta” di nuovi paradigmi dell’intervento (socio-sanitario) e del comportamento (umano). Questo accumulo di “citazioni” passa ancora sulle teste della gente, stupefatta. Il relatore della 180, l’on. Orsini, afferma, quagliesco, in Tv: “Tutti i malati devono essere curati a casa”. E’ sempre la promessa di mutamento in cambio del mutamento che non si dà e che non si vuole. Infatti l’Orsini difende, offeso, medici e psichiatri allorchè Basaglia brontola, arcigiustamente e fascinosamente, che i medici vogliono conservare il loro potere mentre il corpo è nostro. Se sono mutati o sono divenuti più sofisticati i quadri teorici entro i quali si muove la classe dominante, nell’immagine di mondo trasmessa dall’alto agli strati inferiori nulla è cambiato dalla formalmente sepolta legge 1904, e regolamenti e ritocchi susseguenti. Un assaggio: art. 60 del R.D. 16 agosto 1909, n. 615, ”Regolamento sui manicomi e sugli alienati”: “Nei manicomi debbono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’Istituto. (…) L’uso dei mezzi di coercizione è vietato nella cura in case private”.
A sua volta Basaglia, alla madre angosciata perché non sa dove battere il capo con il figlio “malato di mente”, nessuno ora le dà una mano ( e chi, e come gliela dava prima?) risponde semplicemente e un po’ misteriosamente per la vastissima platea televisiva: “ ora ha una voce suo figlio, ora lei ha una voce”. Parafrasando e correggendo il manicheismo di Hendy: buono, ma soprattutto meno buono. In alcuni manicomi i “malati” avevano conquistato già una voce, il diritto alle assemblee, a criticare l’istituzione, i medici, gli infermieri, ecc. Nell’ospedale generale no, nell’”ospizio” no, negli ambulatori no. Non si ha diritto mai a una parola. Hanno invece diritto loro, di ignorarti, di usarti, di umiliarti in cento e diecimilauno modi. E non è che questo accada con i vecchi e basta. Il potere medico bada all’età: cambiano solo i tipi di umiliazione del vecchio istituzionalizzato o della giovane donna ricoverata (ad es. certi ginecologi sono tra i maggiori maestri di questo genio criminale, troppo spesso direttamente proporzionale ai loro appelli intenti nella camomilla dello spiritualismo, in difesa usque ad mortem del sacro diritto alla vita).
Lo stesso Basaglia definisce efficacemente l’ospedale generale “un grande manicomio di per sé”. E d’altro canto il cosiddetto territorio è interamente da costruire con i suoi “servizi”, con le sue “unità”, funzioni e plessi di funzioni. Cosicchè tutto resterebbe affidato al fatto che “il sociale – sottolinea Basaglia e non solo lui – entra per la prima volta nell’ospedale generale, e quindi vi entra la contraddizione”. Ma, allo stato, nella dimensione interna e nella dimensione esterna, i figli e le madri possono restare provvisoriamente e paradossalmente con minor voce di prima.
Si tratta di provvisorietà in fondo ineliminabili nelle condizioni date. L’argomento – che sembra tagliare la testa a tutti i tori – “prima le strutture poi la legge” – è sostanzialmente fasullo. Per strappare una legge – e la migliore delle leggi non sfuggirà mai alle ambiguità volute – ci vuole fatica e sangue. Per tradurla nei fatti, ci vuole molta più fatica e sangue. Le “strutture” poi devono essere un risultato in continuo divenire, oppure diventano nuove e più sinistre trappole. Insomma, se per l’aborto in Italia, anziché approvare una pur discutibilissima legge, avessimo atteso la disponibilità delle “strutture” (ossia, in primo luogo, i comodi proprio dei ginecologi suddetti) sarebbe scoccato il duemila.
Allora, finalmente, dovrebbe essere agevole l’accordo su uno dei cuori del problema: posto che la legge 180 è assai meglio ci sia che non ci sia, nessuna illusione sulla persistente segregazione istituzionale e sulle spinte e sui rischi della “dilatazione” psichiatrica. L’ospedale accoglie e cura press’a poco come il manicomio. Certo, se il “malato” rifiuta le cure lo si deve mandare a casa, ma il ricovero obbligato “rimane” una misura di polizia; e se il “malato”, dimesso, continua a disturbare un reato almeno di oltraggio non glielo leva nessun santo; e cos’ via. Sullo sfondo il manicomio giudiziario intoccato e intoccabile anche nominalmente.
Ma la tendenza alla “dilatazione” è irreversibile. Non è questione di prendere atto di una tendenza che lo stesso movimento alternativo ha incoraggiato e doveva incoraggiare, nel senso dell’uscita allo scoperto, esponendosi ai colpi di un uso, e di usi più complessi della catalogazione, della schedatura, della manipolazione, della repressione. Il manicomio, edificio fatiscente ma pur sempre in piedi, rischia di moltiplicarsi negli ospedali e nel territorio, metamorfosandosi. Ciò comporta la necessità – pena la disfatta- di coinvolgere non solo il momento psichiatrico con quello sanitario, ma quelli con tutti gli altri nel contesto sociale. Meglio: di “sciogliere” i primi nei secondi.
E’ quest’ultimo un passo che molti contestatori dei criteri nosografici tradizionali e dei meccanismi della violenza, persone ad elevato grado di qualificazione professionale e di riflessione teorica, stentano a compiere o si rifiutano di compiere. “Forse” – avverte Pirella – “costoro finiscono con il rispondere più ai loro bisogni personali di sopravvivenza culturale, di gruppo, di competizione intellettuale, chiudendosi ad ogni verifica sul reale e producendo nuove ideologie di ricambio” (Il corsivo e mio). E ancora: “… certamente gli scritti di Jervis hanno contribuito a favorire questo ritorno di riflessioni separate dai problemi reali e a produrre esercitazioni su ideologie contrapposte e in concorrenza tra loro (ad es. nel recente Normalità e deviazione di Di Leo – Salvini, editore Mazzotta). Non mi sembra tuttavia che possa essere soltanto il problema di un uomo per quanto intelligente e sofisticato esso sia…”: c’è una propensione abbastanza diffusa a lavorare teoricamente senza confrontarsi con “certe esperienze di lotta”.
Viceversa c’è bisogno di pratiche, e ogni pratica ha un suo costo personale elevato cui l’essere nel mondo da intellettuale tradizionale perennemente si sottrae. Non c’è alcun bisogno di ideologie di ricambio, quali la stessa Antipsichiatria, pur suggestiva e meritoria, d’importazione anglosassone. Pirella dice bene che non interessa una conoscenza psichiatrica ulteriore per confermare il ruolo dello psichiatra, del terapeuta decifratore del senso; “noi non dobbiamo essere esperti della follia…”. I problemi delle persone che chiedono una casa, un lavoro, ecc. “non sono uno spazio per la follia (vedi Amati e altri) ma uno spazio per la vita, il diritto di sopravvivere e comunicare, la libertà di rivendicare e, al limite, di lottare. Noi siamo espropriati della libertà di lottare …” Dove si potrà sospettare qualche fraintendimento: ad esempio, è anche questione di spazio per la “follia”, perché mai no? Certo, senza consentire affatto su Follia=Verità, Cammino verso il Centro della Terra (con un rovesciamento “spiritualistico” somigliante a quello di chi pretende di superare “materialisticamente” gli schemi crociani e post assiomatizzando Poesia=Bellezza, Bellezza=Realtà cioè Lotta di classe). Quel punto però è una discriminante assoluta. Il rifiuto, diciamolo chiaro e tondo, dell’intervento sanitario repressivo a piccola verso grande macchia, dunque della medicina gerarchica e manipolatrice, l’adozione di una pluralità di pratiche non-psichiatriche dentro e fuori l’istituzione.
Antonucci: una pratica che disturba
Fra i più tenaci, estremi, e paganti in proprio, sostenitori di questa modalità di essere e rapportarsi al mondo della segregazione vi è Giorgio Antonucci. Già a Cividale del Friuli, poi a Reggio Emilia, quindi a Imola. Dal reparto in ospedale civile affidato a Edelweiss Cotti nel 1968, trascorsi appena sei mesi fu cacciato, lui e i suoi compagni di lavoro, dalla polizia in pieno assetto operativo. E il reparto chiuso. Da Reggio Emilia, Centro di igiene mentale, fu costretto a andarsene non tanto per intervento determinante del “potere” (anche se collezionò denunce, ma tutte archiviate), quanto di “altro” su cui amici stanno portando in concreto la loro riflessione, una riflessione che mi auguro consentirà chiavi di lettura diverse da quelle di recente offerte per le esperienze reggiane post-68.. All’Ospedale psichiatrico “Osservazione” di Imola dove venne chiamato da Cotti, divenutone direttore, nel 1973, il suo lavoro ha richiesto di nuovo quel costo elevato cui accennavo sopra, e che era ed è inevitabile per chiunque si ponga completamente al di fuori della visualità psichiatrica, vecchia o nuovissima o futuribile, dei meccanismi repressivi-espulsivi come delle teoriche autogratificanti.
La scelta di Imola fu in buona misura obbligata, e quindi non scelta, ma Antonucci, da quel provocatore che è sempre stato, chiese il reparto più duro, quello degli “irrecuperabili”, degli “agitati”. Che era il 14, donne. Successivamente vi si aggiunsero i reparti 10 e 17, donne e uomini. Ricominciò la sua sfida all’ambiente, ai codici diffusi, ecc. e anche a se stesso, non solo nel senso della solita contraddizione vissuta e coscienzializzata (un non-psichiatra in manicomio), ma soprattutto per la resistenza fisica duramente messa alla prova come mai prima. Poiché qui non si scrive una biografia, né si confezionano santini o mezzi busti, né d’altra parte si narrano “miracoli” (è termine che ricorre sulla bocca dei gestori della nostra salute irridenti alla categoria del “socio-politico”), basterà accennare al turno di guardia di un medico il quale aveva eliminato tutti i mezzi di contenzione e i massicci psicofarmaci e si ritrovava, per ventiquattr’ore filate, in conflitto insanabile con la situazione di violenza degli altri reparti dell’O.P. Mentre i colleghi medici, a loro volta, in quei turni di guardia dormivano il sonno del giusto. Quanto al personale di cui c’era bisogno, ci hanno pensato tutti i governi e nella fattispecie Stammati con il suo decreto vietante assunzioni, supponiamo in ragione dell’austerità necessaria alla salvezza del paese e comunque della moralità amministrativa. Ma a onor del vero Stammati non avrebbe impedito di affiancare ad Antonucci un altro aiuto medico.
Disgraziatamente, infatti, la pratica di Antonucci dava risultati eccezionali. Non poche testimonianze informazioni al riguardo si ritroveranno qui di seguito, a cominciare della lunga puntuale lettera di Alberto Bonetti a Giovanni Berlinguer, indispensabile per la comprensione di ciò che è cominciato ad accadere ed è infine precipitato a Imola dopo la legge 180.
“In presenza” dei risultati sono venute le insofferenze e le aggressioni morali contro Antonucci. Quel “dottorino” mostrava, con il contributo determinante degli infermieri e delle infermiere, liberatesi anch’essi da un passato di terrore nei confronti dei “pazzi”, che quei poveracci potevano, ma guarda, ancora parlare, comunicare, camminare, perfino gioire; e via via crescevano le irrisioni di corridoio, le denunce, gli articoli, addirittura i manifesti sui muri della città. Il dottor Antonucci era spesso assente per malattia! Informavano responsabilmente dei sindacalisti, che però non pubblicavano nessun volantino, non affiggevano nessun manifesto per chiarire statisticamente quanti secondi dedicavano gli altri psichiatri all’ospedale e quante ore nei propri studi a contatto ben fruttifero con pazienti privati. Il dottor Antonucci aveva aggredito un medico! Il dottor Antonucci aveva maltrattato una infermiera! Anime pie.
Riassumevano i concetti essenziali i sindacalisti della UIL-Uisao, sciarpa littorio dell’aggressione ad Antonucci: La mafia è forse giunta all’Ospedale “Osservanza”? “…Non ci è possibile tacere ulteriormente di fronte ad episodi che denotano il costante sfacelo in cui il nostro Ospedale è direttamente investito…” e “Il Nuovo Diario”, settimanale cattolico emanazione della Dc di Imola, che coniugava fascismo mafia e compagni. Con gli stessi metodi 50 anni fa si instaurò il fascismo. Anzi codesti compagni (Cotti e Antonucci) sono peggio perché dai fascisti “li distingue solo l’ipocrisia che gli altri – pur fra tante malvagità – non ebbero”. Concludeva a caratteri di scatola il foglio dc: …manca solo la lupara! Che non avrebbero dovuto tardare visto che il potere era ormai nelle mani di “compagni di ferro”, “con licenza di uccidere”
Ma il pianeta terra sarebbe troppo bello se tutto fosse colpa di questa benedetta Dc, e di quei fior di galantuomini che si firmavano Uil. Che facevano nel frattempo gli amministratori locali? Che pensavano e facevano il presidente (socialista) e il consiglio di amministrazione (a maggioranza assoluta di sinistra)? Nel complesso qualcosa di molto simile alla tolleranza meditabonda, anziché all’attiva solidarietà; e in almeno un caso richamavano l’Antonucci in termini disciplinari.
Finale provvisorio. Dopo l’approvazione della legge (ora ex) 180, il consiglio ridistribuiva incarichi e direzione dei padiglioni, con un provvedimento (passato poi all’esame, senza intoppi, del comitato regionale di controllo) che obiettivamente incoraggia i medici ostili durante tutti questi anni alle misure innovative e punisce Antonucci, al quale sottrae la responsabilità dei reparti 10, 14, 17.Significativamente è su “Il Forlivese”, settimanale del PCI del comprensorio di Forlì, che il compagno Gianni Tadolini denuncia il fatto. Senza conseguenze. Alla fine di luglio Dacia Maraini intervista Antonucci per la “La Stampa” e il colpo viene accusato. CGIL, CISL. UIL (ahinoi) ospedalieri e Amopi (nientemeno che l’associazione dei medici di ospedali psichiatrici) richiedono che sia ristabilita la verità contro le calunnie. Il consiglio di amministrazione emana un comunicato parapìm parapàm (più avanti tutti i documenti citati, in versione integrale).
Il problema ha investito ormai la capacità di far politica del PCI forlivese ( e non). Sul versante PSI, in compenso, tutto è silenzio, salvo errori e omissioni; forse si sveglieranno domattina accusando i comunisti di Forlì di essere aggrappati alla ciambella del leninismo.
Pubblicato il 2 March, 2017
Categoria: Libri, Presentazione, Testi, Testimonianze
PREMIO GIORGIO ANTONUCCI – Ringraziamenti di Jan Eastgate – FOTO
Messaggio originale:
I am delighted to hear of an award being presented in the name of my good friend, Dr Giorgio Antonucci. Mankind owes him a tremendous gratitude because he truly is a great doctor, humanitarian and libertarian. CCHR’s co-founder, the late and equally wonderful Prof. Thomas Szasz, described Dr. Antonucci as “courageous and effective” in “liberating psichiatric slaves in Italy”. What Dr. Antonucci has achieved to show the workability of legitimate medicine given in a calm and caring way to troubled souls, is in stark contrast with the punitive, unworkable, damaging and illegittimate “medicine” that psychiatry pratices. I had heard of Dr Antonucci’s astounding accomplishments as far back as the 1980s while working with CCHR in Australia and to actually meet him two decades later in Los Angeles was an honor and privilege. It remains so today. He has my greatest thanks and my eternal love. Anyone who carries on the tradition of his Dr. Antonucci’s work should give all of us hope for the future and for mankind. Thank you Giorgio!
With love and respect,
Jan Eastgate
President CCHR International
Sono molto contenta nell’apprendere di un premio dato in nome del mio grande amico Giorgio Antonucci. L’umanità gli deve enorme gratitudine, perchè lui è un grande dottore, umanitario e fautore della libertà.
Il fondatore del CCHR, il compianto ma egualmente grande Thomas Sasz descrisse Antonucci come persona “coraggiosa ed efficace nel liberare schiavi psichiatrici in Italia”. Il lavoro di Giorgio Antonucci ha dimostrato come funzioni bene la vera medicina, quando viene applicata con calma e amore per il prossimo alle anime turbate, in netto contrasto con quell’ottusa pratica “medica” – punitiva, inefficace, dannosa, e illegittima che passa sotto il nome di psichiatria.
Sentii parlare per la prima volta dei risultati ottenuti da Antonucci già negli anni 80, quando ancora lavoravo per il CCHR in Australia, ed è stato per me un grande onore e piacere conoscerlo personalmente vent’anni dopo a Los Angeles – onore e piacere che vivono oggi.
A lui va il mio eterno affetto e gratitudine: chiunque s’impegni per continuare la sua tradiziione ci dà speranza per il futuro e per l’umanità.
Grazie Giorgio!
Con affetto e rispetto.
Jan Eastgate
Presidente CCHR International
Pubblicato il 22 December, 2015
Categoria: Immagini, Presentazione
“Armonie delle sfere” – Reading di poesie e inediti di Giorgio Antonucci con Laura Mileto, Cristina Vetrone, Eugen Galasso, Maria D’Oronzo
Armonie delle sfere
Presentazione degli ospiti e reading poesia “Se mi ascolti e mi credi….” con musica (Video)
Voce narrante: Laura Mileto (Video)
Musica: Cristina Vetrone (Video)
Conversazione: Maria D’Oronzo (Video) e Eugen Galasso (Video)
Pubblicato il 20 October, 2010
Categoria: Presentazione, Testi, Video
PRESENTAZIONE del libro di Nicola Valentino “Ergastolo. Dall’inizio alla fine” (Sensibili alle foglie, 2009)
disegno: MP5
Ven 22/10/10 – Presentazione di “L’ergastolo.Dall’inizio alla fine”
Un approfondimento sul carcere e sulla detenzione a vita a partire dal libro “L’ergastolo. Dall’inizio alla fine” (edizioni “Sensibili alle foglie”), di Nicola Valentino. Dalla presentazione: “Attraverso l’esperienza personale, vissuta dall’inizio alla fine, le testimonianze e gli scritti di ergastolani d’ogni tempo, l’autore pone una domanda essenziale: può la nostra società, con un guizzo di civiltà, liberarsi di questo residuo della schiavitù?”. Il Lab 57, inoltre, proporrà un intervento sulla storia di Stefano Cucchi, morto proprio il 22 ottobre di un anno fa dopo aver subito gravi percosse mentre era detenuto. Dalle 21 in via Paolo Fabbri 110.
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Venerdì 22 ottobre a Vag61, attraverso la presentazione del libro di Nicola Valentino “Ergastolo. Dall’inizio alla fine”, si cercherà di raccontare storie di carcere per far emergere e porre una domanda essenziale: può la nostra società, con un guizzo di civiltà, liberarsi di questo residuo di schiavitù?
La serata è organizzata dallo spazio autogestito di via Paolo Fabbri 110, insieme al Centro di Relazioni Umane di Bologna che si propone di costruire un “ambulatorio popolare gratuito per le relazioni umane”, per aiutare le persone non abbienti a non aver bisogno degli psichiatri, ispirandosi al lavoro del prof. Cotti che, nei primi anni ‘60 si è battuto per la libertà degli internati del manicomio “Roncati” di Bologna.
La data del 22 ottobre, inoltre, ricorda il primo anniversario della morte di Stefano Cucchi, un giovane romano di 30 anni, arrestato sette giorni prima dai carabinieri con l’accusa di possesso di una modica quantità di sostanza stupefacente. Dopo una settimana di violenze subite ad opera dei Pubblici Ufficiali che lo ebbero in custodia e di colpevoli negligenze dei medici del reparto protetto dell’Ospedale Pertini, Stefano moriva abbandonato in un letto di ospedale. Su questa vicenda e sul tema dei morti in carcere, ci sarà un intervento del Lab 57/Livello 57.
NICOLA VALENTINO E IL “FINE PENA MAI”
Valentino, condannato nel 1979 per attività legate alla lotta armata degli anni ‘70, è stato in carcere per più di 26 anni. Ha fondato insieme a Renato Curcio, la cooperativa editoriale “Sensibili alle foglie” impegnata in diverse attività di ricerca sociale sui dispositivi totalizzanti che sono all’opera nelle istituzioni, sull’immaginario, sulle risposte adattative e sulle risorse creative delle persone che le attraversano.
Insieme a Renato Curcio e Stefano Petrelli nel 1990 ha scritto “Nel Bosco di Bistorco”.
Nel 1994 ha pubblicato il libro “Ergastolo dall’inizio alla fine” di cui è uscita di recente una seconda edizione aggiornata, sempre con la casa editrice “Sensibili alle foglie”.
Valentino ha creato anche un “Archivio di scritture, scrizioni e arte irritata” che custodisce oltre 600 opere, tra dipinti e disegni, provenienti da istituzioni manicomiali e carcerarie; conserva manoscritti, diari, quaderni e supporti su cui sono tracciate le parole, i segni e gli scarabocchi delle più estreme solitudini. Un archivio d’arte originale ed eccentrico tanto quanto il suo fondatore.
Pubblichiamo alcune consideriazioni di Nicola Valentino sul tema dell’Ergastolo:
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Pubblicato il 18 October, 2010
Categoria: Libri, Notizie, Presentazione
Farewell Summer – Recensione – Eugen Galasso
Ray Bradbury, Farewell Summer, in italiano “Addio all’estate“, Milano, Mondadori, 2010. Il grande (per chi scrive forse il più grande scrittore nord-americano vivente – Bradbury tra poco compie novant’anni) scrittore, spesso rinchiuso da politiche editoriali miopi e da critici ansiosi di classificare (in questo non solo gli psichiatri eccellono) nel genere “fantastico” o peggio horror, in questo libro, che è ideale prosecuzione (lo dice l’autore stesso nella sua nota-postilla che fa da post-fazione) di “Dandelion Wine” (in italiano, “L’estate incantata”), scritto più di mezzo secolo fa, ci narra una guerra tra ragazzi e anziani, dove l’elemento del “Bildungsroman” (romanzo di formazione) è fondamentale. Formazione umana, che comporta non tanto il superare prove iniziatiche (elemento chiave nell’esoterismo) quanto il confrontarsi con quelle ansie e paure che a qualche persona sfortunata e “malcapitata” tocca di non riuscire a superare, magari venendo sottoposto(a) a qualche terapia forzata, a qualche TSO… Senza parlare di psichiatria versus antipsichiatria, Bradbury, di cui non m’importa tampinare le idee politiche in dettaglio (negli States si ragiona e opera diversamente che in Europa; non sta a me in questa sede argomentare se meglio o peggio…), ci dà un ritratto formidabile di chi vuole “avere strade più dure, limti più invalicabili”, di contro ad “aperta campagna e libertà” (op.cit., pp.83-84) . Si tratta solo degli anziani, degli adulti, che hanno perso gioia e creatività, a favore di brama di dominio e di realtà calcolante? No, non c’entra l’età, non c’entra neppure sempre il ruolo sociale, anche la donna (vittima da quando si è affermato il patriarcato di ogni ingiuria, di ogni oltraggio, di ogni ricatto minacciato o conretizzato) talora riesce ad essere sottilmente repressiva; il problema è nel modo di agire della persona in società… Ecco come, senza mai rinunciare mai neppure un attimo al sogno e alla speranza, Bradbry, moderno Thomas Mann (“Riflessioni di un impolitico”), ma sicuramente “meno politico” (ma cfr.quanto notato sopra) ancora di Mann, riesce ad essere autore politico, nel suo demistificare i sottili meccanismi di repressione dei poteri sulle persone, dalla”persuasione occulta” (che non è mai solo quella della pubblicità) alla repressione diretta, violenta, in forma di guerra e violenza (qui non è mai in scena, ma vi si accenna=o in altre forme, subdole o meno), di imposizione. Questo ragazzo novantenne ci fa riflettere e sognare come pochi.
Eugen Galasso
Pubblicato il 24 June, 2010
Categoria: Presentazione
“Si può fare” – Recensione – Eugen Galasso
“Si può fare“di Giulio Manfredonia, film che è stato presentato in anteprima al festival di Roma(fine ottobre 2008)è sicuramente un’opera che affronta la problematica post-basagliana, del superamento dei manicomi, in una chiave non banale né riduttiva, anzi. Ben realizzato, con tecnica attorale e registica ispirato al metodo Stanislasky- Strasberg (parziale identificazione dell’attore con il ruolo interpretato), il film narra di un’esperienza reale, accaduta in epoca post-basagliana, precisamente nella primavera 1984 (funerali di Enrico Berlinguer, segretario dell’allora PCI), quando a Pordenone una cooperativa autogestita di ex-ricoverati in “manicomio” (anzi, anche senza virgolette, perché all’epoca c’erano) decolla, per merito di un sindacalista di tradizione comunista (Claudio Bisio), tra mille difficoltà e boicottaggi vari (amministrazione pubblica, psichiatri “tradizionali”, informatori sanitari e rappresentanti di medicinali). Un film coraggioso,espressamente ispirato a e da “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (scene della scampagnata erotica ma non solo) di Milos Forman, dal libro di Ken Kesey, che non nasconde problemi e”colpi di coda”di chi non vuole”liberare” e “slegare” (metaforicamente) i “matti”, ma li vuole rinchiudere (il suicidio non è un tabù, in questo film, senza toni melodrammatici), che però non cede al pessimismo senza aprirsi a ottimismi fuori luogo, in epoca di revival reazionario (proposte di revisione della 180, per un TSO obbligatorio per “madri a rischio”, altro ancora). Tutto diverso da “C’era una volta la casa dei matti…”, film TV proposto nello scorso inverno che oscilla tra agiografia di Franco Basaglia, spesso non ben individuato biograficamente, opera di costume anni Sessanta-Settanta, con notevoli superficalità nella trattazione. L’ergoterapia, ma dove il lavoro si sposa con il piacere, dove l’eros si lega con la rivolta ma quella che persegue obiettivi precisi e non solo “divaganti”, il principio del piacere che intravvede un’altra “realtà”… Interpreti eccelsi, oltre a Bisio, Anita Caprioli, Giovanni Calcagno, Andrea Bosca, Natascia Macchniz, Bebo Storti, Giorgio Colangeli.
Eugen Galasso
Pubblicato il 24 June, 2010
Categoria: Presentazione
“Dalle tricee al manicomio” – Recensione- Eugen Galasso
Un testo sicuramente importante e interessante, questo di (anzi no, a cura di, in quanto è composto di vari saggi, tra cui alcuni del curatore) Andrea Scartabellati, “Dalle trincee al manicomio”, Torino, Marco Valerio, 2008 , scritto quasi del tutto da storici e storici della cultura come lo stesso curatore, ma anche da Alessandra Miklavic, che opera anch’essa nello stesso settore, ma come “Fellowship” all’università di Montreal/Monréal (Canada, Quebec, anzi, per meglio dire) ma presso la facoltà di Medicina, cosa che in Europa (con rare eccezioni) non si dà. Si analizza, seguendo un’analisi antropologica (di antropologia storica) e storico-sociologica che incrocia anche Foucault (singolarmente poco citato direttamente, però, quasi a dire: “Ormai sappiamo che c’era e che cosa sostiene”), la”follia”-la”pazzia”, forse meglio – e anzi le “smanie” (quasi fossero le goldoniane “Smanie per la villeggiatura”), di molti soldati italiani, durante la “Grande Guerra”, ossia la Prima Guerra Mondiale, la loro reclusione, l’incapacità di capire il problema da parte degli psichiatri, che rinchiudevano e classificavano, talora provavano a curare (“peso el tacòn che l’buso”, secondo il proverbio veneto, ossia peggio la toppa del buco, come sappiamo). Se da un lato c’era una psichiatra che, come Maria Del Rio, con tutte le prudenze del caso, date dal suo status e ruolo di psichiatra dell’allora manicomio di Reggio Emilia, riconosceva (cfr.il suo “Le malattie mentali”….) come cause principali delle difficoltà (non della”pazzia”, che non vuol dire nulla) dei reduci guerra e fame, dove l’una implica l’altra, dall’altro c’è anche chi, come Boschi, altro “vate psichiatrico” dell’epoca, ben più riconosciuto (chiaro: era maschio e sosteneva idee sulla mente e il comportamento ben diverse dalla Del Rio, non era un “sovversivo” ma un “intregato”), cerca di “leggere nel ridimensionamento postbellico della neuropsichiatria militare uno dei tanti controeffetti della”montante marea bolscevica”. Demistificare, oltre alle pratiche psichiatriche, le loro stampelle ideologiche (“ideologia”=”falsa coscienza del mondo”), questo il merito di un’opera come questa che si inserisce in pieno nell’ambito del meglio di quei “chiavistellli”, di quelle “chiavi inglesi” (entrambe le espressioni sono di Foucault) che decostruiscono i poteri sul piano storico-documentale come anche su quello teorico…
Eugen Galasso.
Pubblicato il 24 June, 2010
Categoria: Libri, Presentazione