Libertà di scelta, fulcro di ogni… medicina – conversazione con Giorgio Antonucci
Conversazione con Giorgio Antonucci
‘I Gazetin, maggio-giugno 2015-07-04
Riprendiamo il filo… Tempo fa un gruppetto di amici decide di andare a Firenze per incontrare il Dr. Giorgio Antonucci, intrattenendo con lui una conversazione ‘a ruota libera’, come si suol dire. Il giornale già ne ha riportato stralci, in due parti ( G. Antonucci, “L’importanza di Dante“, giugno-luglio 2014 e “Si fa presto a dire follia“, novembre 2014) e, prima che cessi la pubblicazione non intende mancare di proporne la conclusione. Qui di seguito trovate la terza puntata – incentrata su libertà di scelta, aiuto e auto-aiuto – mentre nella prossima edizione troverete l’ultima, che si soffermerà, sempre in questa formula colloquiale, su figura e ruolo del Dr Antonucci nell’ambito della critica alla psichiatria.
Quand’è che bisogna iniziare ad aiutare? Cioè, una persona che si trova completamente focalizzata su una piccola porzione della sua coscienza potrebbe dimenticare di mangiare, di pulirsi, non riuscire più a dormire…
Primo punto: se una persona ha bisogno di aiuto lo chiede lei e non deve esservi costretta. Il nocciolo della psichiatria, da cui nascono i manicomi, è il fatto di obbligare una persona a sottoporsi a dei trattamenti. Ma poi io non capisco, ci sono tanti modi di vivere. C’è chi sceglie, o si trova nella condizione di scegliere di trascurarsi, di mangiar poco; c’è chi sceglie di mangiar troppo. Ci sono tante possibilità, ma non c’entra nulla la malattia mentale. Se uno vuole aiuto lo chiede, e allora uno che ha l’insonnia può andare da un medico e chiedergli qualcosa che serva per dormire. Questo non è psichiatria e non c’ una malattia di mente da curare.
Ok, ma possono rompersi una gamba, o la testa…
Eh bé, me la sono rotta anch’io: bisogna che vada dal chirurgo, se no muoio; ma non c’entra nulla la psichiatria. La psichiatria è un giudizio sul comportamento. La neurologia, le malattie del cervello del cervello sono come le malattie delle gambe. Non a caso si chiama il neurologo, non lo psichiatra. Il neurologo si occupa delle malattie del cervello e se io ho un’emorragia alla testa, come m’è capitato, si vede l’emorragia, con la TAC; ma se io invece decido di fare l’eremita e qualcuno dice che non mi funziona la testa, questo è un arbitrio.
Uso di nuovo la parola schizofrenia, perché nel corso degli anni ’50 c’è stato l’avvio di una terapia utilizzata per una categoria di schizofrenia.
Susa, ma schizofrenia non corrisponde niente in testa. Io avevo un’emorragia, e questo è un disturbo neurologico, un altro ha l’Alzaheimer e le cellule del cervello sono in distruziione, queste sono malattie del cervello, e nessuno mette in discussione le malattie del cervello. Quello che si mette in discussione è la psichiatria.
E la psicosi? Il fatto che non c’è più nessun controllo sui neurotrasmettitori…
Psicosi non vuol dir nulla. Psicosi è un termine inventato dai tedeschi che vorrebbe dire degenerazione della psiche. La psiche non è un organo e non degenera, per cui non vuol dire niente. Ma comunque è così semplice! Io sono un medico, perbacco! Lo so che ci son le malattie del cervello, ma che c’entrano le malattie del cervello con l’omosessualità? Che c’entrano le malattie del cervello con l’isterismo della donna che soffre, perché ha una vita sessuale sbagliata? Questo non lo dico io , lo ha detto Charcot, all’inizio del secolo. Quando Freud è andato a Parigi per studiare con Charcot, il più grande neurologo d’Europa, Charcot aveva cinquemila donne ricoverate in manicomio ed era anche professore alla Sorbona in anatomia patologica. Prendeva queste donne dal manicomio e le portava lì, davanti ai suoi studenti, e diceva, siccome era fine: “Probabilmente hanno dei disturbi nei nervi”. Poi a Freud, che era uno dei suoi allievi prediletti, e agli altri che andavano con lui all’osteria o a casa sua a discutere, diceva che non hanno nulla i nervi, il problema è la repressione sessuale. Freud ha fondato la psicanalisi su questo fatto e, all’inizio del ‘900, ha detto che non è una malattia. Noi non abbiamo fatto altro che riprendere il suo discorso, la malattia è una lesione biologica, ma essere omosessuale non è una lesione biologia; essere religiosi fino a vedere gli angeli non è una lesione biologica, per cui questi sono comportamenti e pensieri. I comportamenti e i pensieri non c’entrano nulla con la malattia. La malattia è un fatto biologico che si vede. Se io ho un tumore al fegato, si vede. Si osservano le cellule e si vede che c’è il tumore, se ho un tumore alla testa si vede, se ho una meningite si vede, se ho l’epilessia si vede, ma essere in un modo invece che in un altro è una questione morale. Ai tempi di Freud dicevano che le donne che fanno all’amore con molti uomini sono malate. Malattia mentale è come dire malattia dell’anima. O c’è una malattia del cervello o non c’è nulla. Ma la malattia mentale non vuol dire nulla, è una metafora, perché la mente non è un organo.
Io abito in Spagna. In Spagna c’è una Società Spagnola di Psichiatria e una Società di Psichiatria Biologica. La mia domanda è: dato che esistono la psichiatria e la neurologia, qual è lo spazio attribuito a qualcosa che si chiama Psichiatria Organicista? Se non c’è malattia della mente, la psichiatria può essere considerata parte della medicina?
No. La medicina si occupa delle malattie degli organi, delle malattie reali. La malattia è un processo biologico che prende le cellule del cervello, del fegato, dei muscoli, delle ossa, quello che volete, della milza, del sangue, che si modificano, e se il processo va avanti senza essere fermato porta a un progressivo squilibrio dell’organismo e alla morte. Oppure porta alla guarigione se si ferma questo processo biologico. La psichiatria biologica è una bischerata, lo dico alla fiorentina, nel senso che non c’è niente di biologico nell’essere eterosessuali, omosessuali, poligami, o monogami. Ma vi rendete conto che in America hanno detto che sono malati di mente i neri che scappavano dai campi per non fare più gli schiavi? Allora, i comportamenti non sono sani o malati.
Ancora due domande. Che cosa hai fatto durante questi anni come dottore? E che ruolo dobbiamo avere noi come volontari ex-utenti, nella nostra organizzazione di utenti della psichiatria?
Io ho incominciato a fare il medico in un ospedale e il medico condotto, cioè il medico generale. Poi dopo anche a Imola, in un grande manicomio, facevo il medico perché, a prescindere da fatto che le persone erano rinchiuse lì per i loro problemi di pensiero, avevano i reumatismi, il fegato che non funzionava, poi tanti guai perché erano stati rinchiusi e immobilizzati per anni interi. Per cui ho fatto il medico e come medico so distinguere una malattia quando c’è o quando non c’è. Ho curato le malattie di tutti gli organi, come fa un medico. Ho fatto il medico anche durante il terremoto, in Irpinia e in Sicilia, o anche in condizione di emergenza. Questo per dire della mia esperienza di medico. Per la seconda domanda, prima di tutto: voi siete utenti perché qualcuno vi ha fatto una diagnosi psichiatrica, se no che utenti siete?
Io sono scappato via dalla psichiatria, ho dovuto farlo da solo, ma sapevo che avevo bisogno di aiuto. Sono scappato via perché loro, i dottori, avevano un’idea su cui non ero d’accordo. Potevo scappare, intendo legalmente, e infatti ho attuato un modo mio per guarire. Penso però che qualcuno possa aver bisogno di aiuto in certi momenti.
Sì, sì, in ogni modo il problema è questo; infatti il nocciolo del mio discorso è: non accetto che le persone siano obbligate. Perché se io ho u tumore alla prostata che mi porta al cimitero in una settimana e il medico mi dice che va operato e io gli dico che non mi opero e muoio, sono libero di farlo. Tutto il mio lavoro è stato contro: nei manicomi per tirar fuori quelli che vi erano stati obbligati; fuori per evitare che vi fossero obbligati. Per cui, poi, il problema dell’aiuto mi interessa secondariamente. Io ho le mie idee, ma se uno vuole andare dallo psichiatra volontariamente, non ho niente in contrario. Il punto è che lo psichiatra non debba avere il potere di obbligare.
Qual è il ruolo delle organizzazioni degli utenti?
E’ difendere la loro libertà di scelta. Ognuno ha il diritto di chiedere aiuto a chi gli pare. La domanda è se si è obbligati ad andare da qualcuno. Cioè il mio problema è la libertà: deve essere la persona a scegliere dove andare e anche che cosa fare. Eventualmente lo psicanalista o il medico danno consigli, non direttive.
Questo è chiaro per me, infatti ho l’impressione che la depressione, per esempio, così come il trauma, non siano veramente biologici.
Se noi due parliamo è un fatto biologico: siamo due esseri viventi; le scimmie parlano tra di loro, questi sono fatti biologici; non siamo mica anime. Il problema è che si dice “patologico” solo quando c’è un processo patologico nell’organismo. Punto e basta.
La depressione è o non è una malattia, allora?
La depressione non è una malattia, perché non c’è niente di biologico; è una condizione umana. Uno può essere felice o infelice, sentirsi entusiasta o non avere più voglia di vivere.
Di solito l’unica risposta che gli viene offerta è quella psichiatrica.
Una risposta che poi non serve a niente. Tu puoi anche scegliere la pastiglietta, ma non ti aiuta a risolvere il problema. Per capire che cosa significa bisogna ragionarci sopra insieme, non che io dico:; quello lì è depresso, va curato. Si ragiona insieme per vedere cosa ci rende meno tristi. Se a una persona gli si nega la scelta, la libertà, altro che depressione!
Infine lo stigma… Come evitare lo stigma sociale?
Lo stigma deriva dal fatto che se si prende una persona con la forza e la si costringe ai trattamenti, si comunica agli altri che questa persona non è capace di decidere da sé. E’ questo lo stigma. Perche se tu dici: “sono depresso”, posso dirti: “lo sono anch’io; vediamo un po’ cosa si può fare per uscire dai guai, per essere meno tormentati; alla pari, eccetera”. Ma se io penso che devo decidere per te e ti squalifico davanti a tutti, questo è lo stigma. Lo stigma è che quella persona, e questo è ufficiale, viene presa con la forza, dunque non è capace di decidere da sola, non è più un cittadino.
http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2015/08/12/il-ruolo-misconosciuto-di-antonucci/
Pubblicato il 5 July, 2015
Categoria: Testi
Giorgio Antonucci – La testa fra i ceppi – Poesia
Francisco Goya
La testa fra i ceppi
li hanno modellati
per i pazzi
a forma
concava
sul modello del cranio
Certamente non possono
essere precisi
Ce ne vorrebbero
troppi
Ce ne vorrebbero
troppi
Ce ne vorrebbero
a molte dimensioni
Bisognerebbe tagliarli
con curvature
diverse
Non so se mi intendi
il nostro
lavoro
è un pò complicato
Però io non c’entro
sono
un semplice
sorvegliante
io faccio il mio mestiere
faccio il mio mestiere
e basta!
Ma anch’io ho una testa
per riflettere!
Anch’io
ho un’esperienza
Sono qui da vent’anni
e so
molte cose
Bisognerebbe tagliarli
con curvature
diverse
Non so se mi intendi
il nostro
lavoro
è un pò complicato
Si tratta
di matti!
La testa
capisci?
La povera
testa
malata!
Mi parlava
con aria competente
con atteggiamento da lunga esperienza
con qualche
sguardo
malizioso
con occhiate
d’intesa
La testa
capisci?
La povera
testa
malata!
Se vieni
ti porto
a vedere
ti porto
a vedere
Vincenza
“la nostra
bimbetta”
La chiamiamo così
in tono affettuoso
perchè ci fa pena
perchè l’abbiamo
accolta
qui
da bambina
aveva quattro anni
Ebbene è malata
è molto malata
ti porto a vedere
vedrai la sua cella
vedrai che è legata
La testa fra i ceppi
a capo del letto
E poi se la sleghi
(ci abbiamo provato!
ci abbiamo provato!)
ti guarda impaurita
(lo sai non capisce)
e cade per terra
e batte la fronte
e grida
e non parla
Mi ha detto il dottore
(un grande scienzato
un grande scienzato
che sa quasi tutto)
tenetela ferma!
perchè la slegate?
Ha male qui dentro
Ha male alla mente
Ha male al cervello
tenetela ferma
tenetela fissa!
Guardate il suo sguardo
Lo sguardo è smarrito
Ha male qui dentro
Ha male alla mente
Ha male al cervello
tenetela ferma
tenetela fissa!
La testa fra i ceppi.
http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2009/08/22/trattamento-sanitario-obbligatorio-francesco-mastrogiovanni-muore-legato-a-letto/
Pubblicato il 28 May, 2015
Categoria: Testi
Lobotomia, testimonianza di E. Jenny – Eugen Galasso
In un libro di un urologo e politico socialista austriaco, cui, però , inizialmente si era consigliato di specializzarsi in psichiatria (E.Jenny, Bekenntnis zum Fortschritt, Raetia 2007) trovo e traduco la seguente afffermazione: “(era stato assegnato, da allora giovane medico, a Vienna, al reparto detto “craniale” o “cranico”-sic): “Il mio compito consisteva in ciò, di scrivere storie dei malati; nelle operazioni, che allora venivano ancora eseguite in anestesia locale, dovevo osservare , stando sotto il tavolo operatorio, ossia in posizione molto scomodo, le reazioni dei pazienti. Mi meravigliavo, di come si potesse trattare il cervello umano con tanta leggerezza. All’epoca (fine anni Quaranta del 1900, e.g) in reparto i pazienti schizofrenici venivano sottoposti a lobotomia, il che vuol dire a interruzione chirurgica della parte anteriore del cervello, un metodo, questo, che a causa della sua inefficacia e per i suoi effetti collaterali presto non fu più applicato. Il reparto cranico aveva un’alta percentuale di mortalità e io dovevo recarmi costantemente nel reparto di patologia, per le autopsie, sorbendomi le osservazioni, spesso sprezzanti e ironiche, dei colleghi” (op.cit., p. 123)”. Al testo non si può chiedere particolare approfondimento, in quanto si tratta di un libro autobiografico-politico, da parte di un medico poi rivoltosi a tutt’altro settore medico (e chirurgico), ma alcuni elementi sono da notare: A)Il meccanicismo psichiatrico, in auge allora in maniera totale, ora in maniera “dimezzata” (ma oggi con maggiore ipocrisia), non è venuta meno, in Austria (e nella “regione contesa” tra Austria e Italia, Alto Adige/Suedtirol) l’uso dell’elettroshock e in certi casi della lobotomia; B)Significative le notazioni di Jenny sulla sofferenza dei pazienti, di cui i medici si burlano. Vale per la medicina, ma anche per la psichiatria (che non è medicina, come ribadisce sempre il dott.Giorgio Antonucci), dove si aggiungono pregiudizi moralistico-religiosi-sociali tramdanti da secoli, che “laicamente” si traducono nelle famose “barzellette sui matti”.
Eugen Galasso
Pubblicato il 22 May, 2015
Categoria: Testi
Lettera da un istituto psichiatrico – Giorgio Antonucci –
“Pablo Picasso”
I miei giorni sono passati via più leggermente che la spola del tessitore e sono venuti meno senza speranza.
Dal libro di Giobbe
Il ghetto di Dachau era più pulito, all’esterno aveva un aspetto perfino piacevole a vedersi, poteva sembrare una serra dove si coltivano i fiori più rari che vengono da paesi lontani, certamente non stonava tra i boschi profondi di quell’antica regione della Germania: si trattava di una criminalità di stato amministrata con responsabilità e con discrezione secondo i criteri aziendali più moderni.
A Dachau le vittime sparivano in silenzio, “il cammino della storia ha bisogno di uomini donne e bambini che rinunciano”, ma tutto ciò deve avvenire senza clamore: i dirigenti lavoratori dell’ordine nuovo, gli uomini sani onesti buoni fedeli devono procedere sicuri, senza nessun turbamento.
Ma la mia storia non finisce a Dachau: fui liberato dopo dieci anni di detenzione, ero un prigioniero politico con una condanna a scadenza: nel ’43 il conflitto era nel momento più critico e più violento, la Germania di Hitler cominciava a prevedere la sua fine.
Io ormai non avevo più nessuno, a trentatré anni mi trovavo completamente solo in un mondo che secondo me, in mezzo alle sue disgustose violenze e ai suoi avvenimenti insensati, non aveva nessuna prospettiva, nessun futuro.
Non parlo della Germania di Hitler, né dei disastri e delle ingiustizie della mia vita personale, piuttosto queste esperienze disperate mi avevano convinto che quello era soltanto l’inizio di un mondo che avrebbe fatto dell’eccidio e della discriminazione la sua caratteristica più rilevante, anzi la sua regola e il suo significato, se di significato si può parlare–questo dunque era quel “mondo dei fini”, di cui mi aveva parlato mio padre, studioso di Kant, prima che l’uccidessero mediante impiccagione perché politicamente sospetto.
Anzi, i miei primi anni erano stati felici in un ambiente culturale effimero (e ora mi rendo conto falso) ma apparentemente ricco di valori, tra la solida saggezza di Goethe e la profondità riflessiva delle Cantate chiarissime e belle (anche se un po’ misteriose) di Giovanni Sebastiano Bach, quasi il nume tutelare della nostra famiglia, come di molte famiglie di ingenui e forse un po’ ipocriti piccoli borghesi della Germania.
Non vale trastullarsi con la grandezza dei poeti e con la dialettica dei filosofi quando il crimine e il sopruso continuano a essere padroni del mondo.
Ma tornando alla mia storia più recente, quando uscii da Dachau fui mandato nelle truppe di punta operanti in Italia come soldato specialista, nel pericoloso settore dei guastatori. Ne ero quasi contento, speravo di morire, speravo di essere annullato, non volevo niente, ma quello che volevo meno di tutto era il ritorno a casa, non avevo paura delle mine, né dei mitra, né delle esecuzioni sommarie, né dei carri armati che passavano diritti sulla carne viva dei miei compagni di violenza e di morte, quello che più mi faceva paura, quello che trovavo insopportabile, quello che trovavo intollerabile e disgustoso era il ritorno, il ritorno a quella che sarebbe stata ipocritamente definita una nuova vita normale. Ma nonostante le azioni più audaci, nonostante i momenti più pericolosi (molti come me facevano di tutto per essere uccisi), nonostante il furore che avevo dentro di me per dileguarmi e sparire, nonostante tutto ti dico caddi prigioniero e la mia vita fu salva: e quanti ne ho visti che volevano vivere e cadevano subito alla prima azione nei modi più assurdi e ridicoli, magari sparati alle spalle per errore dai loro compagni di squadra o uccisi da un tiro corto della nostra artiglieria!
Ma queste sono inezie, t’assicuro sono inezie nella vita d’un uomo!
L’essenziale è da un’altra parte, magari nelle pagine ingiallite di un trattato di filosofia, di un libro di Hegel gelosamente custodito in una preziosa biblioteca di Heidelberg!
Ho cominciato col dirti che il ghetto di Dachau era più pulito e se vuoi era anche più logico, più pulito e più logico dell’insensato cortile di cemento dove sono ormai segregato e dimenticato da più di vent’anni.
Qui nessuno dei miei compagni parla se non da solo, qui molti si salvano seguendo le vie innumerevoli e meravigliose dell’immaginazione (i nostri guardiani ci chiamano deliranti), qui chi non crea continuamente mondi immaginari come i poeti più fantasiosi, prima o dopo cerca di sfuggire ai guardiani per raggiungere i binari della ferrovia, per spezzettarsi sotto il treno, unica via di scampo.
A Dachau era possibile uccidersi o farsi ammazzare, qui riesce di rado.
Qui non sei più nessuno, qui non puoi decidere più nulla. Qui dentro nella tua ultima ricerca disperata di un significato sia pure illusorio della tua indescrivibile condizione umana sei considerato senza cervello e ti sorvegliano di continuo anche al gabinetto, e se parli ridono e ti sputano addosso con un disprezzo e con una ottusità che anche noi che abbiamo provato tutto stentiamo a sopportare.
Purtroppo durante la prigionia in un campo americano nelle vicinanze di Napoli, io avevo tentato di sparire, ma il colpo di pistola di cui mi ero servito mi attraversò la bocca e il collo senza uccidermi.
Così sono qui dentro e ci resto, ho passato anni interi immobile in cella o in un angolo del cortile, ho ripercorso tutta la mia vita passata, ho udito di nuovo le promesse di felicità di Goethe e di Bach, ho riascoltato la voce chiara e serena di mio padre acceso di entusiasmo per il ragionare pacato e penetrante di Immanuel Kant e degli Illuministi, ho rivissuto sussultando la violenza dei Lager e dei campi di battaglia, ho sognato spesso i boschi profondi e i larghi fiumi della mia terra d’origine, ho parlato e mi sono agitato da solo perché ormai nessuno mi si rivolgeva più se non per insultarmi, ma tutto questo ti assicuro non vale niente, non serve a nessuno, e se mi offrissero di uscire mi rifiuterei, non tornerei per nessuna ragione in un mondo che sopravvive soltanto per nascondersi la sua disumanità e il suo non senso, preferisco restare qui più vero più genuino più autentico perché ormai inchiodato nella mia lucidità e nella mia immutabile disperazione.
Dicono che sono dissociato perché non mi associo più all’ipocrisia del mondo – non vedo il vestito dell’Imperatore anche se non c’è -, dicono che sono un delirio di disastro perché una volta ho gridato che Hitler non era nessuno se non un modesto precursore, dicono che c’è un’ombra inspiegabile che d’improvviso si è impadronita della mia mente.
Sembrano molto compassati e tranquilli – sono i custodi dell’ordine, sono i custodi e i guardiani della verità e della saggezza – ma diventano feroci e spaventosamente agitati ogni volta che qualcuno di noi tenta ancora di dire qualcosa, di parlare, di spiegarsi, di mescolarsi con loro.
Una volta sono stato in camicia di forza per un mese di seguito, non me la toglievano neanche per i pasti, e mangiavo per terra acchiappando il cibo con la bocca e strisciando nel cortile come una biscia–e tutto questo perché avevo avuto l’imprudenza di dire a una suora sorvegliante che la croce di Cristo è una truffa e che gli Apostoli forse avevano capito che la morte di Gesù non era servita a niente.
Ricordi Federico Nietzsche, ricordi gli Apostoli che si domandano davanti al corpo torturato e ucciso del Maestro `’Chi era costui? Che cos’era costui? Cosa voleva?”.
Forse te ne ricordi, forse no. Ma non importa. Piuttosto sai dirmi tu che cos’è questa saggezza che per sopravvivere ha bisogno di asservire o di uccidere milioni di persone? Piuttosto sai dare una risposta a questa vita normale che ha attraversato Auschwitz e Treblinka, e che è passata su Stalingrado, su Dresda, su Hiroshima, su Nagasaki?
Non ascoltare le mie domande, dimenticami, dimenticami, dimenticami presto e continua a seguire la via della saggezza, ch’è più sicura, che è più serena, forse è falsa come dico io, forse mi sbaglio, ma sicuramente in quella direzione potrai illuderti di vivere, magari di una vita artificiale, magari di un’esistenza finta come quella dei burattini che saltano sotto i fili nei piccoli teatri di periferia delle grandi e delle piccole città di quel mondo che io ho rifiutato e che per non mettersi in discussione mi ha confinato dietro le mura gialle sporche e assolate di questo squallido istituto di pena 47.
Note: 47) Pubblicato in: IL PONTE n.12 dicembre 1970
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Brano tratto da “I PREGIUDIZI E LA CONOSCENZA CRITICA ALLA PSICHIATRIA” di Giorgio Antonucci, ed Apache
Pubblicato il 12 May, 2015
Categoria: Testi
Van Gogh – Il conformismo e la diversità – Giorgio Antonucci
“Pablo Picasso”
(Auvers-sur-Oise, 27-7-1890)
Mio caro fratello,
grazie della tua cara lettera e del biglietto di 50 fr. che conteneva. Vorrei scriverti a proposito di tante cose, ma ne sento l’inutilità. Spero che avrai trovato quei signori ben disposti nei tuoi riguardi.
Che tu mi rassicuri sulla tranquillità della tua vita familiare non valeva la pena; credo di aver visto il lato buono come il suo rovescio–e del resto sono d’accordo che tirar su un marmocchio in un appartamento al quarto piano è una grossa schiavitù sia per te che per Jo. Poiché va tutto bene, che è ciò che conta, perché dovrei insistere su cose di minima importanza? In fede mia, prima che ci sia la possibilità di chiacchierare di affari a mente più serena passerà molto tempo. Ecco l’unica cosa che in questo momento ti posso dire, e questo da parte mia l’ho constatato con un certo spavento e non l’ho ancora superato. Ma per ora non c’è altro. Gli altri pittori checché ne pensino, si tengono istintivamente lontani dalle discussioni sul commercio attuale.
E poi è vero, noi possiamo far parlare solo i nostri quadri.
Eppure, mio caro fratello, c’è questo che ti ho sempre detto e che ti ripeto ancora una volta con tutta la serietà che può provenire DA UN PENSIERO COSTANTEMENTE TESO A CERCARE DI FARE IL MEGLIO POSSIBILE, te lo ripeto ancora che ti ho sempre considerato qualcosa di più di un semplice mercante di Corot,
e che tu per mezzo mio hai partecipato alla produzione stessa di alcuni quadri, che, pur nel fallimento totale conservano la loro serenità. Perché siamo a questo punto, e questo è tutto o per lo meno la cosa principale che io possa dirti in un momento di crisi relativa. In un momento in cui le cose fra i mercanti di quadri di artisti morti e di artisti vivi sono molto tese.
Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita e la mia ragione vi si è consumata per metà – e va bene – ma tu non sei fra i mercanti di uomini, per quanto ne sappia, e puoi prendere la tua decisione, mi sembra, comportandoti realmente con umanità. Ma che cosa vuoi mai?.
Si racconta che Kafka, prima di morire per la sua tubercolosi polmonare, disse al medico invitandolo ad affrettare la sua morte: “Mi uccida, altrimenti è un assassino”.
Van Gogh aveva affrontato con piena partecipazione personale i problemi dell’uomo del nostro tempo e, per riprendere le sue parole, la sua ragione vi si era consumata per metà.
Poiché, com’è logico, i suoi costumi uscivano fuori continuamente dalle regole del conformismo e della mediocrità, già il padre dell’artista nel 1882, e ottanta cittadini di Arles in una petizione al sindaco nel 1889, chiedevano il suo internamento in manicomio.
Però se non desta meraviglia che dei piccoli borghesi conservatori si scandalizzassero di fronte alla personalità di Van Gogh, più problematico e più discutibile appare il giudizio di un uomo come Jaspers.
Scrive il filosofo:
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Pubblicato il 8 May, 2015
Categoria: Testi
A Piero – FuoriBinarioLibri – Di suo pugno… scritti di Piero Colacicchi
L’11 agosto 2014 è morto Piero Colacicchi.
Quando negli anni novanta si aprì la discussione sui campi per Rom fui fortemente impressionato da alcuni paralleli con quanto avevo visto negli anni precedenti seguendo il lavoro di Giorgio Antonucci negli ospedali psichiatrici. Qui mi trovavo di fronte a persone che insistevano perché venissero approvate leggi regionali istituzionalizzassero l’esistenza di campi per nomadi, sostenendo che i Rom erano incapaci di vivere tra la gente (tra “noi”), che erano nomadi e che promuoverne l’integrazione sarebbe stato un atto di violenza, mentre i Rom stessi dichiaravano di non essere affatto nomadi, di non aver mai vissuto in campi e di non volerne sapere: chiedevano case, lavoro, scuole per i figli. Là, negli ospedali psichiatrici, avevo visto la pretesa da parte degli psichiatri di curare persone giudicate, anche in questo caso da loro, incapaci di vivere tra la gente, internandole magari per anni; e mi è stato mostrato come questo non avesse niente a che fare con la realtà in cui erano vissuti e che volevano vivere i ricoverati. Nell’uno e nell’altro caso alcune autorità pretendevano di fare gli interessi di altri e di curarne i diritti, mentre i diretti interessati chiedevano, in un modo o in un altro, cose del tutto diverse: e per prima cosa la libertà di scelta. Venivano a cozzare così due concezioni del tutto opposte del concetto di diritto: un ‘diritto’ difeso autoritariamente da alcuni, che si dichiaravano esperti e affermavano l’incapacità di quegli altri di difendersi, ed un diritto dai diretti interessati ed appoggiato da persone che traevano le loro convinzioni e le loro conclusioni dalla volontà di quegli stessi che gli esperti consideravano incapaci a vivere secondo le loro idee. Nè nel campo della psichiatria nè in quello dei Rom il dibattito è chiuso, tolto il fatto che i Rom stessi cercano il modo di disfarsi degli esperti e di prendere in mano le redini del loro destino. Gli oggetti delle attenzioni degli psichiatri, invece, quelli che vengono definiti ‘malati mentali’, sono ancora costretti a subire la volontà di coloro che li trattengono nei loro ‘ospedali’ non essendo essi ancora riusciti a imporre – cosa, del resto, realisticamente quasi impossibile – o non avendo ancora ottenuto da chi li appoggia – cosa anch’essa ad oggi solo in pochi casi possibile per il rapporto di forze contrario – la loro libertà.
Perché è così difficile per i ‘ricoverati mentali’ (oggi vittime più di prigioni chimiche che architettoniche) ottenere la libertà di decidere il loro destino? Proprio perché sono definiti malati e perché la psichiatria, a differenza di quelle pseudo – antropologie che hanno tentato di imporre la loro idea dei Rom, vive all’interno di un comparto il cui potere, anche storico, è enorme e non è, nel suo insieme, criticabile: la medicina. I Rom invece possono definirsi apertamente razzista chi voglia opprimerli e il razzismo, per quanto oggi ancora – anzi sempre di più – diffuso è, dopo la scoperta degli orrori dei lager della Germania e dei ghetti del Sudafrica oggetto di dibattito e di condanne a livello mondiale.
Un libro uscito recentemente riapre però il dibattito – in realtà mai chiuso, come si diceva, se pur costretto in limiti ristrettissimi – sul rapporto tra psichiatria e medicina, tra cura e danno e tra diritti reali e ‘diritti’ imposti. “Sorvegliato mentale: Effetti collaterali degli Psicofarmaci” di Maria Rosaria D’Oronzo e Paola Minelli, ed Nautilus, Torino, è un manuale ragionato dei farmaci usati dagli psichiatri per ‘curare’, cioè rinchiudere chimicamente, i loro pazienti e degli effetti ‘collaterali’ (ma che dovremmo chiamare reali in opposizione a quelli pretesi) che questi farmaci hanno sulla salute: su quella vera, quella fisica. Effetti sempre negativi, a volte tremendi, che vanno dalle convulsioni a danni definitivi ed irreparabili. Per curare che? Opinioni. Opinioni di singoli, contrarie al sentire comune e giudicate quindi segno di malattia. Oppure per eliminare brutalmente contraddizioni interne, sempre di singole persone già di per sé impossibilitate a difendersi: quelle contraddizioni in cui ciascuno di noi potrebbe trovarsi e che spesso generano drammatiche, paralizzanti, incertezze. Da capire. Da affrontare con il rispetto che le stesse autrici del libro mettono giornalmente in pratica nel loro lavoro. Per gli psichiatri, invece, malattia, schizofrenia: da estirpare, con ogni mezzo.
In un bel saggio del 1939 su alcune peculiari fisime di Jonathan Swift, Aldous Huxley (l’autore di Bravo Mondo Nuovo, romanzo/manifesto sulla possibilità di asservire persone per mezzo di sostanze chimiche e sul tipo di regime assoluto che ne deriverebbe) scriveva: “Le nostre menti, come i nostri corpi, sono colonie di vite separate che convivono in una condizione di simbiosi cronicamente ostile; l’anima è in realtà un grande conglomerato di anime e il nostro comportamento è, in qualunque dato istante, il prodotto di questa loro guerra infinita.” In quello stesso anno 1939 gli psichiatri Cerletti, Bini (italiani) e Kalinowski (tedesco) perfezionavano l’elettroshock, cioè l’uso di violente scariche elettriche per curare la malattia delle contraddizioni, la schizofrenia. L’idea di usare l’elettroshock su persone partiva, com’è noto, dall’osservazione del metodo usato nel macello di Roma per anestetizzare i maiali prima dell’uccisione.
Pubblicato il 21 April, 2015
Categoria: Testi
Poemito – Eugen Galasso
Ancora una volta in rima, per dindirindina
Dolce governo del niente
Todo se cierra de repente
Tendenze assurde della “sorte”
tutte nel segno della morte
Giorni passati nel dolor
Il ny’a pas de fées d’or
Dolce forse il comeback
I dont sing “Get back”
(Eugen Galasso, 23/03/2015)
Pubblicato il 7 April, 2015
Categoria: Testi
O.P.G.: In un’ecumenica trasmissione su RADIO 1- Maria D’Oronzo
In una trasmissione su Radio 1, intervistavano pazienti/detenute e personale medico/dirigenti dell’OPG di Castiglione delle Stiviere, che detiene 60 recluse e 180 reclusi. E’subito da notare che la classe medica preferisce il concetto di “superamento degli Opg” dove le associazioni delle famiglie di coloro che sono definiti pazzi chiede e parla di “chiusura” degli stessi. Certo è che il presunto malato di mente deve essere recluso e sottoposto a trattamenti forzati, in virtù di quella sciagurata cultura del meccanicismo psichiatrico-psicologico, e colui che delinque per motivi psichiatrici dev’essere recluso per soli motivi psichiatrici, con programmi individuali e progetti di vita individualizzati. Solito stile psichiatrico. Gli psichiatri, da parte loro, denunciano una mancanza di chiarezza nella legge 81, in riferimento alle soluzioni post-OPG. definite ora REMS, residenze ad elevata misura di sicurezza. Ed è proprio sul concetto di elevata sicurezza dialogano gli specialisti del comportamento e di stadi d’animo, lamentano che le imprecisioni da loro riscontrate nella legge 81 alimentino lo stigma della diagnosi psichiatrica per cui non ci sarebbe abbastanza chiarezza tra il pazzo buono, con il tentativo di intendere una “anomalia” dai contorni e caratteristiche molto più “normali” perché contestualizzate in situazioni caratterizzate da comportamenti legittimati da una mentalità vecchia, difficile da sradicare, dal pazzo cattivo che resiste e rende molto complicato individuare l’anomalia.
Da non giurista non voglio avventurarmi sulla normativa del Codice Rocco, ancora vigente, in cui si distingue il delinquente dal delinquente pericoloso, nè credo che il carcere sia, in complesso, soluzione diversa di quanto non lo sia l’OPG e ora REMS. Certo è la 81, col preferire il diritto alla cura, ha conferito maggior potere alla classe medica dove intende che la cura preveda l’obbligo per i pazienti alla cura prescritta, è superione e vola alto sul diritto di difesa fondamentale di tutte le democrazie.
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Poteri e limiti del sindacato del giudice del lavoro sulle certificazioni psichiatriche.- Dr. Amato Lucia Maria Catena
“Iudex peritus peritorum”, precisa la Suprema Corte di Cassazione.
“Depressione maggiore “ Psicosi nas” “Disturbo di personalità paranoideo” “Psicosi nas in struttura schizoide con marcata depressione del tono dell’umore.” “Insufficienza mentale medio grave con disturbi del comportamento; ideazione di tipo deliroide ed allucinosi, irrequietezza, aggressività.” La patologia psichiatrica, generalmente concorre con le altre di tipo fisico, ad esempio: “Cardiopatia”. La prestazione economica richiesta, varia dall’assegno mensile di invalidità, alla pensione di inabilità, all’assegno ordinario di invalidità, all’indennità di accompagnamento. Alla prima udienza di comparizione delle parti, il ricorrente e l’I.N.P.S. se non vi sono questioni preliminare da trattare, si procede alla nomina di un CTU. Nel caso de quo, un medico. Il consulente tecnico d’ufficio, in acronimo c.t.u., svolge il ruolo di ausiliario del giudice in un rapporto fiduciario, qualora si renda necessaria una particolare conoscenza tecnica, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo. L’attività del consulente tecnico è disciplinata dagli artt. 61 a 68 del codice di procedura civile (allo stesso modo dall’art. 220 fino a 233 nel codice di procedura penale), dove sono contenute le competenze che l’ausiliario designato dal giudice deve espletare dal conferimento dell’incarico fino all’elaborato peritale. “La scelta dei consulenti tecnici deve essere normalmente fatta tra le persone iscritte in albi speciali formati a norma delle disposizioni di attuazione al presente codice” (art. 61 c.p.c.), ma il giudice qualora lo ritenga opportuno ha la facoltà di nominare un esperto non incluso nell’Albo del Tribunale, motivandone il ricorso. Il compito ultimo del consulente è rispondere in maniera chiara e pertinente ai quesiti enunciati dal giudice, dando risposta ad ulteriori possibili chiarimenti richiesti dal giudice stesso (art. 62 c.p.c.). Il quesito enunciato dal giudice al momento del mandato e del giuramento consiste in una o più domande espresse solitamente in modo analitico o generico. Dovere dell’esperto è attenersi scrupolosamente ai quesiti, senza esprimere pareri non richiesti o non necessari, con un linguaggio non eccessivamente specialistico che consenta ai soggetti coinvolti (giudice, magistrato e avvocati) un accesso facilitato alla lettura; in ambito civile l’accertamento peritale acquisisce una funzione strumentale ed opzionale, in quanto il giudice può decretare se usufruire o meno del parere dell’esperto per la formulazione del giudizio. In sintesi possiamo considerare le attività che competono al consulente tecnico un confronto interdisciplinare fra diritto e scienze sociali, un’integrazione al compito del giudice, che agisce come peritus peritorum, ovvero, decisore ultimo. Sul punto, la giurisprudenza costante della Suprema Corte di Cassazione precisa che, nel nostro ordinamento vige il principio “judex peritus peritorum”, in virtù del quale è consentito al giudice di merito disattendere le argomentazioni tecniche svolte nella propria relazione dal consulente tecnico d’ufficio, e ciò sia quando le motivazioni stesse siano intimamente contraddittorie, sia quando il giudice sostituisca ad esse altre argomentazioni, tratte dalle proprie personali cognizioni tecniche. In entrambi i casi, l’unico onere incontrato dal giudice è quello di un’adeguata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto. “(Cass. n. 17757 del 07.08.2014.. Conforme Cass. n. 11440 del 1997.) Il quesito che il presente giudicante si è posta nelle sue funzioni di giudice del lavoro è il seguente: “Su cosa deve basarsi una motivazione che escluda o accolga le argomentazioni di una relazione peritale o di un’altra, per essere fondante o meno del riconoscimento o della negazione di un diritto richiesto? La risposta che è stata fornita è univoca: una motivazione per essere esente da vizi logici o giuridici o da illogiche contraddittorietà deve fondarsi su dati certi, scientifici ed oggettivi il più possibile, che ci vengono consentite dall’attuale stato delle conoscenze scientifiche e prescindere da considerazioni personali ed argomentazioni illogiche ed incongruenti, senza corredo probatorio di alcun genere, e mai fondarsi sui dati incerti ed opinabili. E di conseguenza, su cosa deve fondarsi una consulenza tecnica per essere di sicuro supporto alle argomentazioni di un giudicante? Ovviamente anch’essa su dati certi. Scientifici. Oggettivi. Su esami strumentali che fungono da supporto reale alle conclusioni diagnostiche alle quali il consulente perviene. Una seria consulenza prescinde da opinioni personali o quant’altro che sia illogico ed incongruente e, soprattutto immotivato, ossia sfornito da dati probatori idonei, che, nella scienza medica, sono in primo luogo, sono rappresentati dagli esami diagnostici e clinici e da quant’altro possa essere di apporto come le cartelle cliniche. Solo su elaborati peritali che soddisfano tali requisiti il giudice può fondare le proprie decisioni, non avulse da dati reali. Ogni diritto che si basi sull’accertamento di una patologia di qualsiasi natura, in capo al richiedente, deve essere riconosciuto se provato con dati certi ed oggettivi quanto il più possibile, all’attuale stato delle conoscenze scientifiche. Il giudice ha il potere di sindacare la relazione peritale e constatare se la stessa ha rispettato il mandato che le è stato conferito. A pena di nullità, con conseguente rinnovo delle operazioni peritali e la nomina di altro C.T.U. Operazioni che non può ripetersi all’infinito. La soluzione, congrua, in casi specifici, come il caso de quo, è quella della nomina, di un CTU fuori albo, esperto del settore. Soluzione adottata dal presente giudicante. La sentenza che motiva su dati reali ed oggettivi, è l’unico controllo, che può esercitare la Magistratura in funzione del giudice del lavoro, oltre alla trasmissione degli atti alla procura per competenza se si ravvisano particolari contraddizioni ed incongruenze Soluzione che è stata adottata in dispositivo. Unitamente, ad una verifica puntuale di tutta la documentazione medica ed un controllo rigoroso su quanto prospettato dal consulente; in primo luogo se si è attenuto scrupolosamente al mandato richiesto, che deve essere puntuale e preciso, nella richiesta al C.T.U. di fornire congrua motivazione delle sue affermazioni diagnostiche e di fondare gli stessi su basi certe quanto più possibili ed oggettive. Nel caso della Sentenza de quo, che si allega, il risultato al quale si è pervenuti è stato reso possibile dalla nomina, di un ctu fuori albo, specialista del settore neuropsichiatrico, di notevole preparazione scientifica, il dott. P.C, che si è scrupolosamente attenuto ai quesiti specifici postagli dal presente giudicante, e che ha saputo distinguere le opinioni personali dalle affermazioni professionali e supportare le stesse con prove reali ed oggettive. Come si potrà verificare nella motivazione della suddetta Sentenza. Un lavoro di garanzia in una materia quella psichiatrica, opinabile, che notoriamente, si presta ad abusi e strumentalizzazioni; che, se non attentamente monitorata, ed non ancorata su basi il più possibile reali, come esami strumentali e cartelle cliniche, diventa terreno fertile per autorizzare un’immane spreco di denaro pubblico, truffe all’I.N.P:S., che assumono la parvenza della legalità. Applicare il principio: che se affermiamo che l’osso è rotto, si deve fornire in ogni caso la lastra che lo comprovi, rappresenta il minimo di tutela possibile. L’unico.“Depressione maggiore “ Psicosi nas” “Disturbo di personalità paranoideo” “Psicosi nas in struttura schizoide con marcata depressione del tono dell’umore.” “Insufficienza mentale medio grave con disturbi del comportamento; ideazione di tipo deliroide ed allucinosi, irrequietezza, aggressività.” Diagnosi, che, devono essere supportate da comprovanti cartelle cliniche, ed altro strumento probatorio idoneo, che dia prova certa dell’incidenza funzionale delle stesse sul soggetto che richiede la prestazione economica. Onere della prova che incombe sul ricorrente, ai sensi delle leggi vigenti in materia. (Al settore previdenziale si applica il rito del lavoro del c.p.c.). Che giudice possa sostituire con proprie argomentazioni quelle del perito, è un principio o meglio un’affermazione di potere. L’ultima parola è del giudice. E così deve essere, altrimenti ne viene snaturata la funzione, quella del giudicante. I limiti a tale potere sono una congrua motivazione, in punto di fatto e di diritto. Se immune da vizi logici e giuridici, è incensurabile persino in sede di Cassazione. Un ulteriore limite al potere del giudice, potrebbe essere quello di ancorare la propria motivazione su dati certi, reali ed oggettivi. E nello stesso tempo, un punto di partenza, reale, per un’ altrettanto reale e concreta tutela dei diritti sui soldi pubblici. Se si prescinde, da questi dati obiettivi, si autorizza uno spreco di denaro pubblico di dimensioni abnormi, a danno di tutti i contribuenti e, soprattutto, si sottraggono preziose risorse economiche, ai soggetti deboli che hanno bisogno di tutela, e si concedono diritti a situazioni che non presentano alcun fondamento di realtà, e che sono esse stesse la negazione di ogni diritto Un deterrente minimo essenziale, in un settore quello psichiatrico, dove sono state medicalizzate le questioni esistenziali e deresponsabilizzata la società civile, e dove l’uso strumentale del Tso per fini di controllo sociale, ha assunto dimensioni incontrollabili, nell’attuale legislazione che sfugge totalmente a qualsiasi controllo; in un sistema sanitario il nostro dove è la psichiatria che crea i malati, nella misura in cui non fornisce una base certa reale e scientifica su cosa essa si fondi (che cosa è un “delirio patologico? O, meglio su quali basi possiamo determinarlo, con sufficiente grado di certezza, così da escludere abusi o strumentalizzazioni?); dove le diagnosi c.d cliniche assumono, come nel caso della sentenza de quo, la connotazione di giudizi personali soggettivi dell’operatore senza basi reali ed oggettivi e quantomeno scientifici. Soggettività equivale ad arbitrio, vuoto di tutela e spreco di denaro pubblico che sfugge totalmente al controllo della Magistratura e della legalità.
Sentenza n. R.G. 2142 del 2014, del 02.12.2014.
Dr. Amato Lucia Maria Catena, Avvocato e Magistrato Onorario, in funzione di Giudice del Lavoro, Tribunale di Patti, Sezione Previdenza, Distretto di Corte d’Appello di Messina.
Pubblicato il 16 March, 2015
Categoria: Notizie, Testi, Testimonianze
Sul lungo articolo di Mathilde Goanec:”Fous à délier” – Eugen Galasso –
La giovane e valida giornalista francese Mathilde Goanec, direttrice, tra l’altro di “Alimentation générale”, ha scritto un lungo articolo su “Fous à délier” (Matti da slegare) (in “Le Monde diplomatique”, janvier-gennaio 20015, p.16-cito dall’edizione francese, non consultando mai quella italiana, diversa almeno in un certo numero di pagine e settori), dove già la citazione del titolo contiene, però, un’inesattezza fattuale: il filmn”Matti da slegare”, citato anche in italiano dell’autrice, è del 1975, è, come giustamente ricorda di Marco Bellocchio, ma anche di Stefano Agosti, Stefano Rulli, Sandro Petraglia. Chi scrive ha dovuto documentarsi in merito, non avendo mai visto il film in questione, avendone solo letto, soprattutto in occasione di passaggi in TV sempre persi, anche perché il film viene proposto quasi sempre di notte, non essendo “commerciale”. Ma veniamo al tema vero, ossia alcune inesattezze più gravi, pur considerando il testo complessivamente valido, non fosse che per il fatto di ridare voce a una problematica dimenticata: A)la Goanec parla di Basaglia definendolo “la figura maggiore (più rilevante) della “psichiatria alternativa europea”. Forse ciò può esser vero se riferito agli effetti (Iegge Basaglia, che peraltro, come ci ricorda sempre Giorgio Antonucci, che c’era, Basaglia non voleva, almeno non in quella forma, non così formulata) non di per sé: come teorico, Basaglia non è superiore a Laing, a Cooper, a Deleuze e Guattari, a Szasz (che però è americano, pur se di origini europee-ebraico-ungheresi), a Antonucci. E’ invece esatto dire, come l’autrice fa, che “marcato da quest’esperienza (la reclusione, alla fine della seconda guerra mondiale, a causa della sua “prossimità” con un gruppo antifascista), non ha cessato di lottare contro la reclusione”, ma anche che “egli rifiuta tuttavia (pur se influenzato dalle teorie di Foucault e Fanon sulla critica alle istituzioni totali e sul colonialismo, e.g.) di iscriversi nel movimento dell’antipsichiatria” (ma qui ricordare Szasz e Antonucci non sarebbe stato opportuno, per non dire di Laing e Cooper, essendo più complesso e contraddittorio il discorso per Deleuze e soprattutto Guattari?). Un’altra affermazione, quasi nell’incipit del testo, è poi ambigua, anche se di per sé esatta: è vero che “l’ospedale psichiatrico italiano era stato per molto tempo una terribile macchina di reclusione…molto lontana dai sistemi francesi o britannici, dove già iniziavano a profilarsi soluzioni alternative alla reclusione”: vero, ma ambiguo, se detto così. Leggi l’articolo completo »
Pubblicato il 6 March, 2015
Categoria: Testi