“Premio Giorgio Antonucci” edizione 2014 – Presentazione “Gli occhi non li vedono” documentario
Per onorare coloro che si sono distinti con il proprio lavoro e impegno a difesa dei diritti umani nel campo della salute mentale
L’edizione 2014 del “Premio Giorgio Antonucci” si terrà sabato 13 dicembre dalle ore 15.00 a Firenze presso l’Auditorium al Duomo, via Cerretani 54r.
Ritireranno il premio la Professoressa Stefania Guerra Lisi, il Maestro Aldo D’Amico e il Dottor Vito Totire per l’impegno nella diffusione del rispetto dei diritti della persona attraverso il loro lavoro. continua <https://www.ccdu.org/comunicati/premio-giorgio-antonucci-diritti-umani-2014
Il documentario “Gli occhi non li vedono” https://www.youtube.com/watch?v=KFUKWHcUMnc racconta del “Premio Giorgio Antonucci” (3° edizione) e vuole restituire alla storia della psichiatria la straordinaria lotta di liberazione e riappropriazione dei diritti fondamentali e civili di individui oppressi dall’ideologia psichiatrica.
Pubblicato il 10 December, 2014
Categoria: Notizie, Testimonianze
Giuseppe Gozzini e il diritto di disobbedire – Giorgio Antonucci
Non complice – Giuseppe Gozzini. Ed L’asino
“La Chiesa Valdese di Firenze, la Coop. La Riforma, un Tempio per la Pace, il Centro Internazionale La Pira, La rivista Testimonianze, il Centro Studi Umnaistici (Ti con Zero) invitano alla presentazione e lettura di pagine del libro di G. Gozzini “Non complice. Storia di un obiettore” per ricordare la figura del primo obiettore di coscienza alla leva militare obbligatoria che abbia motivato tale gesto per una posizione di fede, Giuseppe Gozzini, in risposta alla quale si creò un movimento di appoggio sostenuto anche da Don Milani e Padre Balducci. ” La testimonianza di Giorgio Antonucci.
Giorgio Antonucci ricorda l’amico Beppe Gozzini
http://youtu.be/UXPLllcGWl0
Pubblicato il 13 November, 2014
Categoria: Testimonianze
Algranati il riformista e Antonucci il rivoluzionario – Giuseppe Gozzini – Storia di un obiettore “Non complice” – 2014
Da: Non complice
Storia di un obiettore
Giuseppe Gozzini
edizioni dell’asino 2014
Algranati il riformista e Antonucci il rivoluzionario.
Bene ha fatto Elèuthera a ristampare il libro di Giorgio Antonucci Il pregiudizio psichiatrico, e a publicare in contemporanea quello di Paolo Algranati, Voci dal silenzio. Rappresentano infatti due esperienze parallele,che invogliano a lettura sinottica per capire che cosa le rende apparentemente cosi vicine e tuttavia non coincidenti. Sono parallele nell’evidenza di un risultato comune lo smantellamento delle strutture manicomiali con apertura dei reparti “chiusi” ma non si incontrano nelle premesse, soprattuto su un punto: il giudizio sulla malattia mentale. In realta Algranati e Antonucci ripropongono i due filoni interpretativi del cambiamento sociale, presenti non a caso anche nell’approccio alla psichiatria: il riformismo e la rivoluzione. Anticipando il contenuto dei due libri, diciamo che Algranati vuole riformare l’istituzione psichiatrica liberandone le vittime per curarle meglio, mentre per Antonucci l’unica alternativa alla psichiatria è la soppressione della psichiatria (anche quella “democratica”).
Paolo Algranati: il riformismo
“A tre anni di distanza dall’approvazione nel 1978 della ‘180’, la legge Basaglia, iniziavo a lavorare nel manicomio di Roma con l’incarico di assistente psichiatra. Assegnato al padiglione 22, il più grande dei reparti ‘chiusi’ dell’ospedale, mi accingevo, con l’animo combattivo ed entusiasta del ventiseienne, a verificare, nell’impatto concreto con l’istituzione manicomiale, i miei anni precedenti di formazione teorica”.
Comincia cosi il libro di Algranati, un rapporto dall’interno del manicomio Santa Maria della Pietà, scritto con l’immediatezza di un diario di bordo. Algranati, che si definisce “psichiatra anomalo”, descrive, anno per anno, il lungo cammino dello smantellamento del padiglione 22, definito la “fossa dei serpenti” (1981) al lavoro di riabilitazione in un “zona autogestita” (1983) al passaggio padiglione 8, completamente aperto (1987), che prefigura il concetto di Comunita terapeutica come “un continuo training tra gli operatori e poi tra questi e i pazienti, e infine tra tutti noi e il mondo esterno”.
Ecco alcune tappe di questo cammino: l’incontro con la caposala “una suora bassa e corpulenta, vestita di bianco” che gli apre il cancello di ferro e lo immette nelle corsie del padiglione 22 come nei gironi dell’inferno dantesco (i dannati sono i pazienti con le loro storie di segregazione); lo scontro immediato con la suora sulla cosiddetta “ergoterapia”: un sistema di lavoro per cui sessanta pazienti, con ruoli e mansioni tutt’altro che trasparenti “tenevano in piedi o comunque contribuivano in maniera decisiva al funzionamento della struttura che li segregava”; la conoscenza, uno per uno, di tutti i 114 pazienti, 70% dei quali attraverso un sistema di sfruttamento capillare, basato su ricatti, favori, intimidazioni era adibito “senza nessun compenso ai lavori piu umili, di pertinenza, teoricamente, di infermieri e ausiliari di pulizia”; la messa in discussione dei mezzi di contenzione (camicie di forza, sbarre alle finestre, porte chiuse a chiave) e dell’abuso degli psicofarmaci; l’analisi del comportamento degli infermieri in base alla loro appartenenza alle tre categorie dei “sottomessi”, dei “ribelli” e dei “neutrali ricattati” (senza contare “i cani sciolti”); l’inizio della collaborazione con alcuni infermieri che porta alla prima timida uscita dalle mura del manicomio (un soggiorno di quindici giorni per dodici pazienti in una località di montagna del Lazio); la formazione di una “zona autogestita”, due corsie, con quattordici pazienti e sei infermieri (la cronaca di questa “zona liberata” ricostruita in “un poderoso quaderno utilizzato indifferentemente dai pazienti e dagli operatori”, di cui sono publicati ampi stralci); la guerra aperta con la suora caposala fino al suo trasferimento nel 1984 a un altro reparto (“finiva al 22 l’epoca arcaica del potere religioso sulla pazzia”).
Il racconto fin troppo minuzioso, scritto con amore e un grado di partecipazione e di simpatia umana eccezionali, interrotto dalle bellissime (e illuminanti) “storie di vita” degli internati, ha il merito di portare il lettore dentro la realtà manicomiale. Paolo Algranati, con l’attenzione costante ai concreti problemi di gestione, dimostra di avere la stoffa del riformatore e registra con la pignoleria del cronista tutti i cambiamenti: l’apertura del manicomio ai parenti dei ricoverati “reclusi”; l’importanza del lavoro in una coperativa; la logistica dei reparti dopo i vari traslochi; le sorti dei pazienti dimessi con tutti i problemi di inserimento sociale al di fuori del manicomio; la vita quotidiana nel padiglione 8 aperto senza “nessuna sbarra, nessun cancello, nessuna chiave”; l’iniziativa di un laboratorio di pittura.
Tutto preso dalla passione antiistituzionale, dal fervore organizzativo per rendere più umana e vivibile la condizione dei segregati nel manicomio, Algranati vede (e denuncia, nel lavoro con gli operatori) gli effetti
devastanti degli “stereotipi universali” sulla pazzia (pericolosità, incomprensibilità, inguaribilità); dall’altro non rinuncia all’approccio clinico, al giudizio psichiatrico e alle classificazioni diagnostiche dei comportamenti (psicosi maniacodepressiva, eccitazione sub maniacale….) e al recupero terapeutico con interventi psicofarmacologici. In fondo ripropone, in modo meno schematico e più contraddittorio, il vecchio errore di ritenere che i ricoverati siano diversi non perchè segregati ma perchè “malati”, non perchè privati della libertà personale ma perchè hanno nel cervello qualcosa che non va. Il discorso “basato sull’impalpabilità del confine normali-folli e sul profondo radicamento dei pregiudizzi sulla follia “è ritenuto” indispensabile per prendere le distanze dalla propria ‘follia’ personale e per controllare con continuità consapevolezza la proprio paura di impazzire”, che percorre come un leitmotiv tutto il libro (pagg.14, 43,44,156/57, 162/63). Rimane cioè a livello strumentale. E annota come una vittoria il fatto che “i pazienti miglioravano in modo evidente senza che, al di là di crisi evolutive, impazzissero gli operatori” (sic).
Algranati è sicuramente uno “psichiatra anomalo” nel senso che non fa ricorso soltanto al criterio patologico (diagnosi/terapia) per giudicare uomini e comportamenti (di questi tempi è già molto!) e arriva a porsi (e a porre alla sua èquipe) le domande giuste: “L’intervento migliore per la pazzia è forse quello di lasciarla vivere? Di osservarla da lontano con discreta protezione, senza interferire pesantemente in un suo qualche sviluppo ‘fisiologico’? E ancora: come definire la normalità? Possiede nuclei pazzi, psicotici? Non è forse ora che la psichiatria punti maggiormente la sua attenzione sulla normalià piuttosto che sulla pazzia? Infine, come definire la ‘sanità’?” Ma queste domande rimangono senza risposta.
Giorgio Antonucci: la rivoluzione
Il libro di Antonucci parte proprio dalla risposta a queste domande, cioè dalla critica alla psichiatria come scienza. La sua esperienza professionale a Cividale del Friuli (1968), a Gorizia (1969), a Reggio Emilia (1970/72) e dal 1973 a Imola per più di vent’anni (ora è in pensione), è una lunga battaglia all’interno dei reparti manicomiali per la liberazione delle vittime del pregiudizio psichiatrico. Solo in parte il libro riflette il significato fulminante della “lunga marcia” di Antonucci attraverso le istituzioni manicomiali, un esperienza che non ha uguali al mondo (fra gli “addetti ai lavori” l’unico che la pensa come lui è il professore americano Thomas Szasz, che ha scritto la prefazione del libro).
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Pubblicato il 31 July, 2014
Categoria: Libri, Testimonianze
Paola Cooper, 16 anni, aspettava l’esecuzione della condanna a morte. – Piero Colacicchi
di: Piero Colacicchi
Tra i tanti oggetti che inzeppano la mia stanza c’è un piccolo cucchiaio di legno il cui manico è malamente attaccato al fondo, il cui fondo stesso è spaccato in due, è mal incollato ed è mancante della parte davanti: malgrado ciò mi è particolarmente caro perché mi ricorda un episodio importante della mia collaborazione con Giorgio Antonucci. Il cucchiaio è intagliato a mano in legno di “òcchiule”, (come lo chiamano in Basilicata ) un legno duro, compatto e piuttosto pesante. Potrebbe esser stato fatto in Aspromonte o a Senise, in Basilicata, dai pastori. In realtà so soltanto che proviene dalla Calabria.
Mi fu regalato da Noris Antonucci parecchi anni fa con un commento scherzoso: ” Tienilo te: tanto, tra tutte la roba che hai, una cosa in più non ti fa differenza. Io non lo voglio, ma non voglio neppure buttarlo via. Sai, apparteneva ad una zia a cui ero molto affezionata, quella che per le feste mi mandava sempre i salamini piccanti e le altre golosità calabresi che anche a te piacevano tanto.” Lo accettai sorridendo. Noris mi prende sempre in giro per tutte le cose che tengo in casa, lei che invece non sopporta di aver roba tra i piedi e che – scherzo io – uno di questi giorni butterà nella spazzatura anche il marito!
In quel periodo passavo più spesso del solito da casa di Giorgio e di Noris, e mi fermavo anche a mangiare. Eravamo, come ai vecchi tempi, continuamente in contatto perché seguivamo una questione importante in cui c’eravamo imbarcati e che ci teneva con i nervi tesi.
Era cominciata così. Una mattina – per l’esattezza sabato 13 dicembre del 1986, verso le undici – me ne stavo a casa mia a ciondolare in pigiama quando Giorgio Antonucci mi telefonò e mi lesse una lettera appena pubblicata su La Nazione, a firma di Maria Luigia Guaita. Non conoscevo personalmente la Guaita, ma ne avevo molto sentito parlare, anche in casa. Era stata partigiana, aveva partecipato a varie attività (durante le quali aveva conosciuto anche i miei genitori), era stata amica di Enzo Enriquez Agnoletti (l’ex vice sindaco e direttore della rivista Il Ponte su cui anche noi scrivevamo ) e ora dirigeva una scuola d’incisione molto nota a Firenze, il Bisonte.
La lettera della Guaita, pubblicata col titolo “Per non far morire Paula” nella rubrica ” Parliamone insieme” tenuta da Laura Griffo, diceva: << In questi giorni che sanno già di Natale [ …] vorrei richiamare il ricordo della gente buona, ma forse distratta, su Paula Cooper. E’ una ragazzina nera che oggi ha sedici anni e che, in una cella della morte del carcere di Indianapolis, sta aspettando di salire sulla sedia elettrica. Ha commesso un delitto orribile: riconosciuta mentre tentava un furto nell’abitazione della insegnante di catechismo, Ruth Pelke, l’ha assassinata con un coltello. L’opinione pubblica locale, emozionata e indignata, ha plaudito la pena di morte a cui è stata condannata. […] Figlia di alcoolizzati, violentata la prima volta dal padre davanti alla madre indifferente, cresciuta in un clima di violenza e di abiezione […] è fuggita più volte dall’inferno della famiglia e puntualmente restituita a casa dalla solerte polizia locale […] Dopo qualche negativa esperienza in orfanotrofio[…] quando la madre e il padre si allontanano, […] resta affidata alle cure della sorella, maggiore di lei di soli tre anni.
< [ …] A pregare per lei oggi c’è solo la sorellina disperata. A battersi per lei solo l’avvocato difensore, che spera nella grazia. Che potrà essere ottenuta solo se l’opinione pubblica europea si organizzerà in ” movimento per la vita di Paula ” e chiederà per lei il perdono del popolo americano.[…] A te, Laura, chiedo di sollecitare una raccolta di firme a favore di un mutamento di pena e umana solidarietà verso questa ragazzina disperata e sola davanti alla morte che ormai si è già insediata, quasi entità palpabile in attesa paziente, nella sua cella .[ …] Si può scrivere al governatore Robert Orr, State house, Indianapolis 46204 USA. >>
Commentava Laura Griffo: << Raccolgo l’appello di Maria Luigia Guaita con emozione.[..] A Firenze, nel 1786,il Granduca Pietro Leopoldo, sovrano illuminato, abolì la pena di morte ritenendola iniqua. Giusto, quindi, che da Firenze parta una iniziativa di solidarietà con Paula Cooper, che ha solo sedici anni e che dovrà morire fra poche settimane[…] Invitiamo Firenze a scriverci per intervenire in nome della sua tradizione civile: gli amministratori […] gli studenti […] e anche gli altri; il movimento per la vita […] i radicali[…]; chiunque voglia, per Natale, in uno slancio di altruismo, farsi il regalo della vita di Paula>>.
Giorgio, al telefono, mi proponeva di scrivere anche noi una lettera al governatore Orr. Dissi che era una buona idea e che bisognava studiare bene il testo. Decidemmo che ci saremmo risentiti più tardi, in giornata.
Riattaccata la cornetta mi misi a pensare alla questione: che glie ne interessava al governatore Orr se gli arrivavano alcune lettere dall’Italia? Niente! Tempo sprecato, o quasi. Meglio provare a pensare a qualcosa di più forte. Ma che cosa?
Pubblicato il 25 May, 2011
Categoria: Testi, Testimonianze
Testimonianza di Eleftherio Tzirarkas sul lavoro di Giorgio Antonucci al manicomio di S.Lazzaro
“Eleftherio Tzirarkas
La testimonianza scritta nella pagina pubbica del dott Giorgio Antonucci, sulla piattaforma sociale FACEBOOK il giorno 19 maggio 2011, si riferisce ai fatti raccontati nel libro del dottor Giorgio Antonucci: “I pregiudizi e la conoscenza critica alla psichiatria” ed Coop. Apache, 1986, capitolo 8 “Le calate, visite popolari al manicomio di S. Lazzaro”, e-book http://www.spunk.org/library/health/sp001619/.
foto:
Le visite popolari al manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia
Pubblicato il 21 May, 2011
Categoria: Notizie, Testimonianze
– DENTRO FUORI: “Teresa B.” – Roberta Giacometti e intervista a Giorgio Antonucci su Teresa B. –
“Dentro Fuori. Testimonianze di ex-infermieri degli ospedali psichiatrici di Imola” di Roberta Giacometti, ed Bacchilega editore, 2009.
“Il dottor Antonucci era stato l’unico medico, che io abbia visto, che entrasse nel suo camerino senza camice, la toccasse, le rivolgesse la parola, stesse seduto accanto a lei sul letto a parlare senza timore. Lei lo aspettava con trepidazione e mi diceva che anche lui aveva delle belle mani.”
TERESA B.
La storia di Teresa è incredibile, per questo la scrivo a parte, per farne un quadro più preciso.
Mi raccontano di lei le infermiere Giuseppina Pelliconi, Anna Piancastelli e Ileana Mingotti.
“Teresa era la donna con la museruola. Aveva subito una depressione post-parto, quindo poco dopo i vent’anni arrivò da noi. Aveva una bellissima voce, era un usignolo, quando spuntava il sole cantava le canzoni romagnole. Stava nel primo camerino al pian terreno del reparto 14. Giorno e notte teneva le braccia incrociate bloccate davanti e il corpetto allacciato dietro. Aveva cinque fascie di contenzione e i “zamparelli” di cuoio alle caviglie. Aveva un gran forza e faceva del male anche a sé: si metteva le mani “dentro” e tentava di tirarsi fuori l’utero. Prima che la tenessero legata per l’intero giorno, menava le altre malate: una volta rientrò dal cortile con le mani insanguinate e volle che la mettessi subito a letto legandola ben bene. “Cosa hai fatto?” le chiesi. Andai fuori e vidi una malata con la faccia pesta di sangue: le aveva quasi cavato un occhio. Da quel giorno fu legata.
Quando arrivava sera, e io stringevo le fasce per la notte, lei mi diceva: “tira, tira più forte.”. Io tiravo più che potevo, aiutandomi con i piedi appoggiati al letto. La tenevamo legata stretta perchè non muovesse neppure la testa, perchè mordeva il lenzuolo, la coperta, il materasso. Faceva così tutto il giorno, se la slegavi, il tempo che ti voltavi, un attimo, lei mordeva qualsiasi cosa. Non si sa come facesse, non ce lo siamo mai spiegate. La slegavamo solo per lavarla e stavamo accanto a lei sempre in due o tre, perchè mollava dei bei ceffoni. E poi sputava, bisognava stare attenti. Ma andava alzata, non poteva restare così, stava facendo le piaghe da decubito e allora in sartoria idearono per lei un vestito imbottito che, come un albero di Natale, stava in piedi da solo. Ma lo ruppe lo stesso, dove passava “sbragava”. Allora i medici decisero di far eseguire dal calzolaio dell’ospedale una maschera in cuoio con un telaio di tubolare di ferro, che noi allacciavamo dietro con cinghie di cuoio, affinchè non arrivasse a mordere nulla e non ci sputasse addosso, e le prime volte la portammo fuori così……Ricordo che il dottore non poteva vedere Teresa in quel modo, si guardava sempre le scarpe, erano comunque pochi i medici che guardavano i malati in faccia, specie se erano messi male. E così quando c’era la visita dovevamo metterla a letto, legarla e toglierle la maschera. E pensare che era lui che l’aveva ordinato….Poi misero un’infermiera che si prese cura di lei, gentile e paziente, con lo scpo di portarla fuori. Poco alla volta ci è riuscita”.
Ileana è la giovane infermiera di cui parla Anna. E’ lei che continua la storia di Teresa, con la quale ha passato quasi otto mesi nel tentativo di recuperare in lei un pò di dignità. Quando nel ’71 venne affidata a Ileana, Teresa era rinchiusa in manicomio da tanti anni e abbandonata nel suo camerino perchè, dopo tanti tentativi, tutti erano scoraggiati dal suo comportamento. Era considerata la paziente donna più pericolosa, un’irriducibile, forse l’unica che non si sia mai rassegnata alla sua condizione.
“Prova, mi aveva detto la capa. Io non sapevo nulla di Teresa. Mi fece entrare nel suo camerino e mi chiuse dentro. Il camerino era circa 3 metri per 4, con il letto al centro fissato a terra e un finestrone alto dal quale neppure io vedevo fuori, solo la cima degli alberi. Il pavimento di cemento aveva un avvallamento sotto il letto nel quale si concentravano i bisogni della malata. La puzza era pungente, perchè il cemento aveva assorbito negli anni la pipì. Le quattro pareti della stanza erano pieni di sputi, non c’era un centimentro libero; erano macchie rosate in quanto, in mezzo alla saliva, c’era del sangue, perchè Teresa si mordeva le guance. Teresa era legata al letto, strettissima, e aveva imparato a sputare anche attraverso la maschera. Leggi l’articolo completo »
Pubblicato il 15 May, 2011
Categoria: Libri, Testi, Testimonianze
Thomas Szasz Award al dottor Giorgio Antonucci
“Il controllo sociale spacciato per terapia psichiatrica offre illimitate possibilità alla tirannia”
Al dottore Giorgio Antonucci per:
“Meriti eccezionali nella lotta contro lo stato terapeutico”
http://sofiamilos.com/italian/whatsnew_it.html
….Sofia presented another humanitarian award at the Annual CCHR
(Citizens Commission on Human Rights) Awards Gala, held at the Beverly
Hilton Hotel Feb. 28, 2005, this time to Dr. Giorgio Antonucci for his
heroic cause. In her speech, she talked about their common goal to free
children from dangerous and damaging psychiatric drugs and the
screentesting of children to put them on them, a cause she supports with
passion. For further information on the damaging effects of children on
Psychiatric drugs, ADHD and ADD, go to www.cchr.org and
www.ablechild.org. …..
Pubblicato il 6 September, 2009
Categoria: Immagini, Notizie, Presentazione, Testimonianze
Intervista a GIORGIO ANTONUCCI su l’antipsichiatria-di Clarissa Brigidi – I Parte
Intervista a Giorgio Antonucci sull’ antipsichiatria.
Tesi di laurea di Clarissa Brigidi in Filosofia della storia.
La solitudine della persona internata in manicomio è senza paragoni. “Non è solo celle , spioncini e cortili. E nemmeno soltanto psicofarmaci e elettroshock. È’ invece isolamento assoluto di chi, al contrario di tutti gli altri internati di carcere o di lager, è considerato, sia pure arbitrariamente, senza pensiero, o, che è lo stesso, privo di un pensiero razionale o, come si dice, con un pensiero malato”. Giorgio Antonucci
“Fatto sta che all’ospedale di Imola, ci sono dei reparti chiusi dove i ricoverati girano in tondo con tranquilla disperazione e dei reparti aperti (una minoranza) dove uomini e donne che sono stati legati a letti per anni e considerati irrecuperabili ora girano pacifici, liberi di entrare e uscire. Hanno smesso di essere violenti e irresponsabili nel momento in cui si è smesso di trattarli con violenza, come degli irresponsabili”. Dacia Maraini, Paese sera,6/7/1980
C. B: Qual è stata la sua esperienza all’interno dell’istituzione psichiatrica in Italia, riferendosi in modo particolare al periodo in cui ha lavorato a Gorizia? Che cosa significava in quel momento operare per lo smantellamento del manicomio?
G.A. Sono stato chiamato a Gorizia nel 1969 dopo avere incontrato più volte alla “Tinaia” Cotti e Tesi: Cotti è un professore di Bologna ed è stato uno dei primi in Italia ad aver tentato di cambiare le cose, al manicomio Roncati di Bologna, cercando di instaurare con le persone internate un rapporto di dialogo finalizzato alla loro restituzione alla vita civile. Basaglia informò Cotti che c’era un nuovo reparto dell’Ospedale Civile di Cividale del Friuli, indicato come reparto neurologico, che poteva essere utilizzato come reparto di ospedale civile in alternativa al manicomio. Allora Cotti decise di lasciare provvisoriamente Bologna per andare a Cividale a tentare questa nuova esperienza. E siccome mi aveva conosciuto per il lavoro che facevo a Firenze di evitare l’internamento alle persone, mi propose di andare a lavorare con lui. La stessa cosa fu proposta ad un medico che già lavorava a Gorizia con Basaglia: il dottor Leopoldo Tesi. In questo modo si formò un gruppo di tre medici accomunati dalla convinzione che le persone con cui avevamo a che fare non erano persone malate da curare, ma individui spesso emarginati socialmente con i quali discutere problemi. Questo è stato il primo reparto di un ospedale civile, che Cotti aveva chiamato Centro di relazioni umane, in alternativa all’internamento in manicomio, tanto che vi arrivavano anche persone da Gorizia mandate da Basaglia. Per cui, siamo nel 1968, già a quell’epoca mi ero interessato di persone che si trovavano in situazioni difficili e che venivano dal manicomio di Gorizia diretto da Basaglia. Di solito me ne occupavo prevalentemente io perché, abitando a Firenze, non tornavo praticamente mai a casa e stavo lì sempre, notte e giorno e lavoravo in continuazione. Leggi l’articolo completo »
Pubblicato il 5 August, 2008
Categoria: Libri, Testi, Testimonianze