Giorgio Antonucci – Eugen Galasso


Nel complesso della sua opera, di pensiero e azione (dove entrambi i livelli sono stati sempre strettamente interrelati, implicantisi a vicenda), di clinica e di riflessione, Giorgio Antonucci, come si può vedere nel suo ormai cospicuo macrotesto, bypassa completamente l’ascientificità della psichiatria, non a caso chiudendo i reparti, con le loro coazioni, con le repressioni indotte (tramite “terapia” elettroconvulsiva, shock insulinico, psicofarmaci etc.), arrivando a negare, ben più “radicalmente” (nell’accezione letterale dell’avverbio) di Basaglia e Laing le istituzioni e le teorie e le pratiche mortali che hanno creato a detrimento di chi non rientra in quella convenzione imposta che si chiama “norma”, di chi non vi rientra né con il pensiero né con il comportamento, di cui la parola, nella nostra cultura logocentrica, è elemento essenziale.  Della sua importante opera scritta, dicevo, di cui il recente “Diario dal Manicomio” è punto (per ora) culminante: opera veramente “sinfonica” (non è casuale l’interesse quasi primario, comunque dominante, del dott.Antonucci per la musica, segnatamente sinfonica) dove, oltre l’apparenza, poesia, prosa narrativa, riflessioni, documenti di vita, non sono che tasselli di un mosaico che si distende, appunto, in una meravigliosa crezione sinfonica. Il terenziano “Nihil humani a me alienum puto” (nulla di umano mi è estraneo) è assunto naturaliter da Antonucci, che considera la persona (o individuo, non si vuol fare qui del nominalismo ideologico) pienamente, quale rispetto per chiunque, comunque si ponga e qualunque cosa pensi, comunque agisca etc.

Eugen Galasso

Pubblicato il 24 December, 2011
Categoria: Notizie

Casseri – Il violento non è pazzo – Eugen Galasso



Brejvic, il razzista norvegese (cristiano-massone, seguace di confuse teorie esoteriche) che aveva bombardato socialisti e soprattutto extracomunitari  e Casseri, il ragioniere-esoterista del contado pistoiese, frequentatore di “Casa Pound” non sono da inquadrare come “pazzi” (che non vuol dire nulla, Antonucci non da solo docet), ma sono espressione di una subcultura vagamente esoterica, ovviamente con certe differenze (Casseri più esoterista nazifascista, Brejvic razzista non nazista etc… e qui mi perderei in lunghe divagazioni ininteressanti per il sito),  comunque entrambi (“me^me combat”, stessa lotta, sciocca aggiungo) sono figli del fraintendimento, non sanno, per usare l’espressione evangelica, distinguere “il grano dal loglio”, ossia non hanno facoltà critica: Lovecraft, tanto amato da Casseri, era razzista perché coltivava “aberranti” teorie post-darwiniane (Darwin resta un grande, certi suoi seguaci lo declinavano scioccamente), ma anche un grande scrittore. Saper discernere le cose, anzi meglio i concetti , non è da tutti. Ho fatto l’esempio di Lovecraft, ma potrei prendere Spengler, in cui l’idea della progressione storica in senso ciclico è falsata dal freintendimento della teoria hinduista del “Kali Yuga”, ossia del declino inarrestabile, per cui bisognerebbe reagire a tale declino, peraltro visto come “necessitato”.   Idem per Ezra Pound, grandissimo poeta,  che la sua critica del capitalismo (cfr.gli scritti sull’usura, ancora oggi atualissimi) portò a esaltare il fascismo (ma Pound fu vittima del potere USA, che lo internò in manicomio…).   Chi legge acriticamente e vive di chimere indimostrabili, ha il diritto di farlo, senza usare violenza, però.  Lovecraft, “the lonelyman of Providence” (il solitario di Providence) era un “orso”, quasi un misantropo, ma non sparava agli Afroamericani, né era del “Ku-Kux-Clan” a quanto risulta.  Non per questo, però, chi è violento è “pazzo”: delinque e come tale, a mio parere, va condannato.
“Onore” (beh, insomma…) a Brejvic che vuol essere condannato e non passare per”matto”, mentre Casseri, per alcuni “fanatici” sarà un eroe, anche perché “dopo ha tolto il disturbo”….   Eugen Galasso

Pubblicato il 19 December, 2011
Categoria: Testi

“La grande festa” – Dacia Maraini racconta di Giorgio Antonucci



In questo libro c’è una parte in cui Dacia Maraini racconta del lavoro di Giorgio Antonucci nei reparti di Imola.


Pubblicato il 9 December, 2011
Categoria: Libri, Notizie

Suicidio e depressione – Eugen Galasso

Fabrizio Cicchitto, ha perplessità sulle cliniche svizzere che vivono di “eutanasia assistita”, ossia depredano coloro che, per motivi diversi, decidono di farla finita. Lucio Magri, come scrive don Andrea Gallo, il prete genovese ribelle e libertario che la Chiesa gerarchica non espelle (ancora) perché teme di far troppa pubblicità al dissenso-diaspora, a quello che esplicitamente, due anni fa, in un convegno, veniva definito”scisma”, era troppo timido e discreto per “macchiare di sangue il selciato”. La scelta di Magri, come quella di Jean Amery, pseudonimo di Hans Mayer, scrittore ebreo-viennese, già “ospite” del lager,  che teorizzò la libertà di suicidarsi, come quella di Primo Levi, altro intellettuale ebreo ospite di chi voleva “la purezza della razza ariana”, come quella recente di Mario Monicelli,  come quella di tanti/e che lo hanno fatto o lo fanno per i motivi più diversi, è da rispettare assolutamente, da accettare in pieno come espressione di libertà (certo non mi arruolo con chi vuole l’individuo al servizio dello Stato, della “comunità”, lemma pericoloso per come è stato spesso usato-travisato, almeno da Toennies in poi…), dove credo che, ben più di certe tesi filosofiche sul “suicidio cosmico” teorizzate  “in buona fede” ma suscettibili di derive à la Jim Jones (la setta che lo praticò in Guyana, a fine anni Settanta), valgano i “Pensieri sul suicidio” di Giorgio Antonucci, dove, tra l’altro, demolisce i pregiudizi sulla “depressione” (dalla stazione ferroviaria al “posto di lavoro”, dal bar alla spiaggia al reparto psichiatrico di ospedale o clinica tutti ne parlano, dicendo “era depresso”, dove non si tratta neppure di tautologia, essendo ben più onesta la versione medievale, appunto “sanamente” tautologica, che recita: “L’oppio fa dormire perché ha in sé la virtus dormitiva”). D’altronde, dico il vero: non so se  si possa dire con Don Gallo, che “lo lasciamo (Magri, sott.) nelle braccia del Grande Amore”. Me lo auguro, ma per me, cristiano gnostico, Dio trascende ogni qualità, quindi anche l’amore, che pur qualità somma, ritengo “troppo umana”. Vedremo in seguito altre reazioni, se ce ne saranno (quelle che ci sono state segnano un nuovo discrimine tra “laici” e “cattolici”, quasi non ci fossero differenze sostanziali all’interno di tali schieramenti…) ma,  ben conscio dell’impossibilità – per me – di seguire Pannella e il padre di Eluana Englaro,  Peppino, nel “suonare la grancassa per l’eutanasia”, pena l’apologia delle sopraindicate cliniche svizzere, credo che si debba un grazie a Don Gallo, che d’ora in poi avrà  sempre più problemi con cardinali et similia,  per le sue parole, compresa quella per cui dice expressis verbis che avrebbe comunque fatto di tutto per convincerlo a non farlo, se l’avesse visto-sentito o incontrato.  Qualche accidentale delizia, certo  passeggera, nel “mondo di lacrime” c’é: un bel gattino, un paesaggio, nonostante tutto anche l’amore…

Eugen Galasso

Pubblicato il 7 December, 2011
Categoria: Testi

La cultura “fa anche mangiare” – Eugen Galasso


Contro la retorica del “Bambole non c’è una lira”, che (ricavo la notizia da Internet, lo confesso, pur conoscendo l’espressione da tempo), era uno spettacolo italiano di avanspettacolo-varietà degli anni 1970, Franco Cardini, studioso e docente di storia medievale e non solo, intellettuale di grande spessore (da cui molto mi allontana, in specie il suo orientamento da cattolico-conservatore, ma che apprezzo e stimo comunque), ribadiva, meno di una settimana fa, che la stretta economica non deve andare versus la cultura che invece, anche contro quanto affermava l’ineffabile (ex-) ministro Tremonti, “fa anche mangiare” cfr.(turismo, luoghi artistici in Italia). Importante, il rilievo cardiniano: se riuscissimo a convincere chi di dovere (?) che lavorando con e per la cultura si riesce anche ad aprire/far aprire, gradualmente, gli occhi alla gente, sarebbe anche meglio. Se abbiamo sradicato la credenza nelle streghe, nel “malocchio”, nelle superstizioni varie, a fortiori o almeno parimenti dobbiamo sradicare la credenza nella malattia mentale, che sarebbe fòmite di delinquenza, di infiniti danni etc.   Accettare chi pensa diversamente, chi si comporta come vuole e non come vorrebbe la “maggioranza silenziosa” (ma anche gridante, a tratti) significa capire e ancor più far capire, ragionare e pensare insieme a chi pensa e agisce diversamente da noi. Senza la credenza, puramente “normalizzatrice-castrante” che qualcuno abbia la Verità, gli “Altri” (le altre persone) solo opinioni false, assurde, “pazzesche”… Più probabile (non è pessimismo, ma realismo quasi da bottega) che invece si incoraggi la “saggezza” (!?!) della psichiatria, assurta ancora una volta a paradigma regolatore ed “equilibratore” (come? Quando va bene, con i  “tranquilizers”…!).
Eugen Galasso

Pubblicato il 6 December, 2011
Categoria: Testi

VIDEO – S.P.Q.R. sono “pazzi” questi romantici? Ovviamente no!

D’Oronzo, Galasso – S.P.Q.R. – Conferenza

VIDEO


Pubblicato il 5 December, 2011
Categoria: Video

E’ dannoso studiare o leggere? – Richard Matheson – Eugen Galasso


In “Lui è leggenda”,  recente antologia mondadoriana (a cura di Christopher Conlan, Millemondi, n.57, novembre 2001), volume di omaggio a Richard Matheson, tra i tanti testi proposti, variazioni sul tema dei classici (sia racconti, sia romanzi) di Matheson, maestro del fantastico, si trova anche un racconto di John Shirley, meno che sessantenne autore di Houston, Texas, noto per vari romanzi, racconti, sceneggiature per film e telefilm. Il racconto, in italiano, si chiama “Due spari dalla galleria Fly’s” e parte dal romanzo mathesoniano” Appuntamenti nel tempo”: ma il bel racconto sul “viaggio nel tempo”, che intelligentemente evita di spiegare in dettaglio “macchina del tempo” e simili ovvietà (da H.G.Wells in poi sappiamo tutto, di quella storia…), concentrandosi invece sul punto di partenza della cosa: il protagonista, storico dell’epopea western, si innamora della bisnipote di un eroe (anzi “pistolero”) di quell’epoca e per  salvarne i rapporti familiari, con un padre assente etc., si proietta nel tempo passato per evitare la morte del famoso “bandido”,  iniziatore della catena di tanti padri assenti. Psichiatria all’americana, come descritta da Woody Alllen? Sì, purtroppo sì e Shirley, perché la cosa non è importante nell’economia del racconto, sorvola, pur narrando la diagnosi: il fantomatico dott. Hale Vennetty, che pare un seguace (andato a male, però) della teoria psicanalitica del “grido primario”, per cui ci si libererebbe dal peso  delle proprie nevrosi gridando come all’inizio della  vita, rimanda tutto alla sindrome abbandonica, per cui Becky, l’amata di Bill Walshoe, l’eroe della storia, sarebbe stata “resa depressa” dalla catena di abbandoni in famiglia… Nessuna possibilità terapeutica, stando a mister doctor  Vennetty, salvo “forse tentare l’elettroshock” (op.cit., p.89). E la vicenda è ambientata negli anni 1970, 1975 o ’76, stando a indicazioni dell’autore. Epoca di grandi rivolgimenti anche medici e “psichiatrici”, ma… Shirley bypassa la cosa, senza approfondirla, nell’economia del racconto, senz’altro…e c’è di peggio: Becky è un’accanita lettrice di Sylvia Plath, della sua “Campana di vetro” ed ecco l’osservazione di Bill (speriamo che qui l’autore non si identifichi con il personaggio…) : “Leggere “La Campana di vetro” più di una volta dovrebbe essere considerato un segnale d’allarme, nei libri di psicologia clinica” (p.88, op.cit.). Eh! no, qui proprio non ci siamo: chi “non va a  donne” è frocio oppure depresso, chi preferisce la lettura e lo studio agli sballi è “depressa/o”? I pregiudizi inveterati, che, a quanto pare, flower power e punk (anni fa l’autore era leader di una band “punk”) non hanno cambiato molto oppure… semplicemente la “pazzia” o il suo surrogato, la “depressione”, sono un buon vettore narrativo, senza che ci si interroghi sul perché, il per come etc. Un po’di superficialità, quantomeno, dove il principio del “primum non nocere”, che sarebbe un obbligo per il medico, ma diremmo per tutti gli operatori in professioni d’aiuto (e anche lo scrittore può esserlo), non viene per nulla rispettato, dando per scontato ciò che non lo è: “pazzia”, “depressione” e tutta la catena infame di pregiudizi che la cultura (in accezione antropologica, è chiaro) si tira  dietro per non approfondire le cose.

Eugen Galasso

Pubblicato il 3 December, 2011
Categoria: Notizie

S.P.Q.R. “Sono pazzi questi romantici?” Ovviamente no! – Conferenza-Dibattito


S.P.Q.R. «Sono “pazzi” questi romantici»?
Ovviamente NO!

Un movimento culturale “strano” frainteso, sul quale le accuse di “trasgressione” e “pazzia” sono piovute e tuttore cadono, quasi fossero manganelli per il fraintentidmento.

Un ulteriore contributo per smontare le menzogne della macchina di potere psichiatrico.


Presenta Maria D’Oronzo

relatore Eugen Galasso




Vedi anche
LA MORTE DI SCHUMANN- racconto di Giorgio Antonucci

Pubblicato il 28 November, 2011
Categoria: Notizie

Intervista a Giorgio Antonucci – Antipsichiatria – Clarissa Brigidi – IV Parte


La solitudine della persona internata in manicomio è senza paragoni. “Non è solo celle, spioncini e cortili. E nemmeno soltanto psicofarmaci e elettroshock. È’ invece isolamento assoluto di chi, al contrario di tutti gli altri internati di carcere o di lager, è considerato, sia pure arbitrariamente, senza pensiero, o, che è lo stesso, privo di un pensiero razionale o, come si dice, con un pensiero malato”. Giorgio Antonucci

“Fatto sta che all’ospedale di Imola, ci sono dei reparti chiusi dove i ricoverati girano in tondo con tranquilla disperazione e dei reparti aperti (una minoranza) dove uomini e donne che sono stati legati a letti per anni e considerati irrecuperabili ora girano pacifici, liberi di entrare e uscire. Hanno smesso di essere violenti e irresponsabili nel momento in cui si è smesso di trattarli con violenza, come degli irresponsabili”. Dacia Maraini, Paese sera,6/7/1980

C. B.: La popolazione di Imola, invece, come ha reagito?
G. A.: Molti cittadini di Imola non furono d’accordo con quello che stavo facendo nel manicomio della loro città. Via, via, si sono abituati perché videro che, anche se le persone andavano in giro fuori dal manicomio, nelle loro vite non cambiava assolutamente niente. La mia intenzione, però, era anche quella di portare la popolazione esterna all’interno del manicomio. Per questo ho fatto molta fatica, tanto che ho organizzato a volte concerti con pianisti, violoncellisti, violinisti, e chiamai perfino Baccini, un cantante italiano. Volevo attirare le persone di Imola e facevo queste iniziative in reparto per tutta la città. Ma era certamente più facile lasciare uscire le persone fuori dal manicomio che vedere le persone della città venire dentro il reparto. All’autogestito “Lolli”, sempre ad Imola, venne addirittura un corpo di danza del Giappone che stava facendo spettacoli in Europa, ma in Italia fece l’unica data all’autogestito. Io cercavo di stare il più possibile in contatto con artisti per trovare sempre nuove occasioni da portare all’interno del manicomio perché mi interessava che gli internati avessero la vita che avevano tutti gli altri. Per esempio, andare con loro dal Papa significava che le persone rifiutate da tutti venivano ricevute perfino dal Pontefice che non riceve proprio chiunque. Oppure andare al Parlamento Europeo significava esprimere il fatto che gli internati sono cittadini, con i loro diritti civili e politici. Tutti i viaggi che abbiamo fatto sono stati un modo per restituire alla vita civile persone per le quali qualcuno aveva deciso che alla vita civile non avrebbero partecipato mai più.( Foto di Massimo Golfieri dei reparti di Giorgio Antonucci)
C. B.: Lei sostiene che la malattia mentale non esiste in quanto non si tratta di una malattia fisica e perciò distingue le malattie organiche dai problemi psicologici. Vuole aggiungere qualcosa a questo proposito.
G. A.: Potrei dire una cosa molto semplice, di cui parla anche Szasz, e cioè che il concetto medico di malattia ha un contenuto preciso. Per esempio, supponiamo che tu vada da un medico e dica di avere il diabete. Da un altro medico affermerai invece di non avere il diabete. Cosa succede? Vengono fatti degli esami che serviranno a diagnosticare o meno il tuo diabete e cioè attraverso questi esami risulterà, in maniera oggettiva, se tu sarai affetta o meno da questa patologia. Qualunque malattia, che sia del fegato o del cervello, ha dei riferimenti oggettivi. Se un individuo ha il morbo di Alzheimer attraverso l’esame delle cellule cerebrali, si vede che queste stanno degenerando. Una malattia ha un riferimento biologico preciso: nel caso della psichiatria si tratta di interpretazioni di comportamenti. Comportarsi “bene” o “male” non è un problema medico, ma un problema etico: dire che una persona che si comporta bene è sana e che quella che si comporta male è malata non ha senso. Il cervello, essendo un organo, può ammalarsi: è la neurologia a occuparsi di queste patologie e non la psichiatria. Szasz dice che una indagine scientifica o una teoria scientifica non può rivolgersi su entità non materiali come amore o odio, angelo e diavolo, spirito e mente. Questo non significa affermare che queste cose non esistono. Esistono ma non fanno parte del mondo materiale, dello studio dei fatti e quindi della scienza. Eppure eminenti medici, scienziati, pubblicazioni prestigiose, quando si riferiscono al concetto di malattia, di regola ignorano, trascurano, e oscurano il fatto che usiamo il concetto di malattia sia come termine scientifico neutro, senza implicazioni di valore per descrivere e spiegare aspetti del mondo materiale, sia come termine etico, carico di valore, per identificare, scusare, condannare e giustificare aspirazioni, leggi e usanze umane, non materiali. Il fatto che l’omosessuale, il suicida, lo stupratore siano considerati malati non è affatto considerare le cose da un punto di vista scientifico. Non c’è nessun motivo per  considerare sani comportamenti buoni e malati comportamenti cattivi. Qui si entra nel campo dell’etica secondo la quale certe azioni sono accettabili e altre meno: siamo, però, su un altro piano da quello medico. Quando mi occupo di problemi psicologici non uso i termini di malattia e di cura, perché seguo un altro percorso; si ascolta una persona che racconta le vicende della propria vita e chiede un aiuto, un consiglio, o che semplicemente ha bisogno di raccontare tali vicende, perché il fatto stesso di comunicarle è un sollievo, un uscire dalla solitudine.
C. B: Lei ha lavorato tanto con le donne. Mi può dire se effettivamente le donne internate sono le testimoni “privilegiate” di come la psichiatria sia essenzialmente una pratica di conservazione dei costumi etici predominanti?
G. A.: Da un punto di vista storico si può fare riferimento alle vicende narrate da Freud sul suo maestro Charcot, che era il neurologo più famoso dell’epoca e dirigeva la Salpêtrière con cinquemila donne ricoverate. A lezione Charcot mostrava queste donne ai suoi studenti e affermava che erano state internate perché avevano delle lesioni nervose. Però lo stesso Charcot, con i suoi studenti preferiti, tra i quali c’era anche Freud, si incontrava fuori dall’università per continuare a discutere e a dialogare e in uno di questi incontri affermò che, secondo lui, il problema di quelle donne era legato alla questione sessuale. Egli disse che la maggior parte di donne internate erano vittime dei pregiudizi sessuali: Freud in seguito ha fondato la psicanalisi su questo discorso e ad un certo punto, arrivò ad affermare esplicitamente che aveva smesso di fare il neurologo quando si occupava di problemi psicologici, ed aveva incominciato a fare il biografo. Nel 1858, il patologo tedesco Rudolf Virchow pubblicò la sua tesi intorno alla patologia cellulare basata sull’istologia fisiologica e patologica. Da allora, la lesione nel corpo, identificabile oggettivamente con l’osservazione o la misurazione anatomica, fisiologica o di natura fisiochimica, fu la misura scientifica standard. La medicina stabilisce se un individuo abbia o meno una lesione e se questa provoca nell’organismo degli squilibri fisici. La psichiatria, al contrario, non trova delle lesioni in un organismo, ma tratta dei comportamenti non accettati moralmente come se fossero delle patologie. Ma è evidente, per esempio, che l’omosessualità non ha nulla a che vedere con la malattia: è una scelta che fino a non troppo tempo fa (e forse da alcuni ancora oggi) non veniva accettata; era moralmente sbagliato avere gusti sessuali differenti da ciò che stabiliva la norma sociale dominante. Nella società vittoriana, per esempio, faceva comodo scomunicare le donne che provavano piacere perché era la coppia procreatrice a rappresentare il modello dell’unica sessualità possibile. Per concludere, una studiosa di Roma fece tempo fa uno studio che rivelò che le donne sono vittime della psichiatria prevalentemente per problemi sessuali e gli uomini per problemi di lavoro.

I Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2008/08/05/intervista-a-giorgio-antonucci-su-lantipsichiatria-tesi-di-laurea-di-clarissa-brigidi-in-filosofia-della-storia/

II Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/28/intervista-a-giorgio-antonucci-antipsichiatria-clarissa-brigidi-iiparte/

III Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/28/intervista-a-giorgio-antonucci-antipsichiatria-clarissa-brigidi-iii-parte/

Pubblicato il 28 November, 2011
Categoria: Testi

Intervista a Giorgio Antonucci – Antipsichiatria – Clarissa Brigidi – III Parte


La solitudine della persona internata in manicomio è senza paragoni. “Non è solo celle, spioncini e cortili. E nemmeno soltanto psicofarmaci e elettroshock. È’ invece isolamento assoluto di chi, al contrario di tutti gli altri internati di carcere o di lager, è considerato, sia pure arbitrariamente, senza pensiero, o, che è lo stesso, privo di un pensiero razionale o, come si dice, con un pensiero malato”. Giorgio Antonucci

“Fatto sta che all’ospedale di Imola, ci sono dei reparti chiusi dove i ricoverati girano in tondo con tranquilla disperazione e dei reparti aperti (una minoranza) dove uomini e donne che sono stati legati a letti per anni e considerati irrecuperabili ora girano pacifici, liberi di entrare e uscire. Hanno smesso di essere violenti e irresponsabili nel momento in cui si è smesso di trattarli con violenza, come degli irresponsabili”.
Dacia Maraini, Paese sera,6/7/1980

C. B.: So che Dacia Maraini è intervenuta più volte su “La Stampa” per parlare del tuo lavoro di liberazione, assistendo a feste e concerti che avevi organizzato nei reparti. Mi può parlare di quel periodo?
G.A.: Siamo nel 1978, periodo in cui, con la nuova legge, ci doveva essere una ristrutturazione dell’intera istituzione manicomiale. Cotti avrebbe dovuto farmi primario in modo che non dipendessi più da medici che non mi accettavano. Invece questo non successe ed io rischiavo di essere affiancato ad uno di quei medici tradizionali e di dover rincominciare da capo tutto il lavoro che avevo fatto fino a quel momento. Un mio amico, Piero Colacicchi, che era a conoscenza di questa situazione ne parlò con Dacia Maraini che venne a vedere i miei reparti. Prima mi fece un’intervista in cui io descrivevo come erano i miei reparti con le persone libere, che si vestivano a loro piacimento, che assistevano ai concerti, che uscivano per andare all’autodromo, a teatro, al bar confrontandoli con gli altri in cui le persone erano ancora rinchiuse. Dopo questo articolo i sindacati mi accusarono di dire il falso perché, secondo loro, anche le persone degli altri reparti stavano bene ed erano liberi. Allora io mi misi di nuovo in contatto con Dacia Maraini che ritornò a Imola e scrisse un altro articolo in cui riconfermava tutto quello che aveva visto la prima volta. Il giorno in cui lei venne all’Osservanza c’era anche l’orchestra dei giovani dell’Aquila: le ricoverate, vestite di tutto punto, ballavano mentre l’orchestra suonava Mozart; uscivano, entravano, scherzavano. Dacia Maraini volle vedere gli altri reparti. Dovettero aprire le porte con le chiavi; entrarono: c’erano persone tristi, in camice. Così pubblicò altri articoli, raccontando quello che aveva visto con i propri occhi. I sindacati si trovarono completamente spiazzati, perché di lei non potevano certo dire che lo faceva per protagonismo. In seguito, ogni volta che mi accadeva qualcosa di particolare, Dacia Maraini se ne occupò sempre. Per fare una sintesi: siamo partiti dalla camicia di forza e siamo arrivati al Parlamento Europeo, dove le persone ex internate sono state ricevute per discutere dei loro diritti con una commissione del parlamento, in collegamento con Eugenio Melandri, allora parlamentare europeo di rifondazione comunista e con Pannella. Un altro discorso interessante è quello della visita a Giovanni Paolo II. Davanti al manicomio c’è una chiesetta dei francescani e alcune delle donne del reparto 14 o di altri reparti andavano a messa lì oppure a fare una visita in chiesa poiché erano religiose. Una volta trovai il frate francescano che le stava buttando fuori e io gli domandai che cosa stava succedendo: lui mi rispose che non voleva quelle donne in chiesa; io gli ribattei che quelle donne avevano il diritto di andare lì a pregare come tutti gli altri, inoltre di ricordarsi, dal momento che era un francescano, che S. Francesco baciava sulle labbra i lebbrosi. Tornai a casa molto arrabbiato e parlai con mia moglie di questa cosa: lei mi ricordò che avevo aiutato un diplomatico del Vaticano, che sta qui a Firenze, che aveva paura di prendere l’aereo e si era rivolto a me. Allora gli telefonai e gli dissi che avevo intenzione di portare le persone religiose dei miei reparti dal Papa. Egli mi disse che prima di decidere, voleva incontrare queste persone per parlare con loro; così decidemmo di andare a pranzo fuori con le mie ex ricoverate. Egli rimase entusiasta e ne parlò in Vaticano. Così ci decidemmo a partecipare ad un incontro con il Papa, ci sedemmo in prima fila e Giovanni Paolo II parlò volentieri sia con le mie ex ricoverate che con me. Infine facemmo delle fotografie che mandai al frate.
C. B.: Come ha reagito la popolazione internata a questa azione di eliminazione della contenzione e della coercizione?
G. A.: All’inizio non capirono bene cosa stesse succedendo e questo era logico perché io stavo portando avanti un cambiamento mai visto prima, inoltre erano molto spaventate. Vivere in un’istituzione psichiatrica significa avere continuamente paura perché gli psichiatri usano terrorizzare continuamente i propri pazienti. In manicomio le persone che ho visto avevano sempre paura: all’inizio la ebbero anche di me, anche se con il tempo riuscii a conquistare la loro fiducia. Appena cominciai il mio lavoro le internate avevano molta paura ed esitavano spesso a farsi slegare. Spesso alcuni individui del personale mi dicevano che certi ricoverati stavano legati perché lo volevano. Io risposi che ormai potevano “volerlo”, mentre per anni interi la loro volontà non era stata neppure considerata. Trovandosi slegati all’improvviso, avevano paura di fare qualcosa per cui avrebbero potuto essere perseguitati, picchiati e legati di nuovo, quindi preferivano stare legati. Tuttavia la situazione andava affrontata. Per esempio, nel reparto 14 (http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/05/15/teresa-b-dentro-fuori-roberta-giacometti/) c’era una donna che non voleva essere slegata, così io non la slegai subito. Ho passato accanto a lei ore e ore. Le dicevo: “Io sono qui perché Lei deve essere liberata. Ci vorrà tempo, dovrà convincersi; Io sono un medico e non un carceriere e non posso ammettere che Lei stia in questa condizione. Però aspetto, perché Lei ha diritto di esprimere quello che sente e le paure che comporta il ritornare ad essere una persona libera”. Via, via, ci siamo messi d’accordo. Lei ha cominciato a camminare nel giardino e le sue condizioni fisiche spaventose sono lentamente guarite quando è passata dalla condizione di donna legata continuamente a quella di una donna libera che può camminare, parlare, vestirsi, uscire, e così via. Il lavoro che io ho fatto contro il manicomio è stato quello di partire dalla “camera di tortura” e di arrivare alla residenza. Questo sempre nel rispetto delle scelte degli internati e delle loro necessità: non ho mai obbligato nessuno ad uscire se non ne aveva voglia o se non se la sentiva. Anche quando si facevano i viaggi, come ho detto prima, in varie città europee come Venezia, Firenze, Milano, Parigi, Vienna, Strasburgo, venivano soltanto quelli che volevano, quelli che l’avevano scelto individualmente. Dall’ambiente in cui non si è nessuno e non si può scegliere niente si è passati all’ambiente in cui si è considerati una persona che può scegliere senza troppe interferenze altrui. Si è trattato di un capovolgimento completo. Le camere delle internate vennero per esempio abbellite a loro piacimento. Alcune persone trovarono invece sistemazioni esterne al manicomio, si trasferirono in appartamenti. Per esempio, c’erano alcune persone che avevano un rapporto affettivo o amoroso tra di loro che, con l’aiuto del Comune, trovarono degli appartamenti e si sistemarono in essi. Altri tornarono dalle famiglie; chi, invece, rimaneva lì non aveva nessuno fuori, ma viveva in manicomio come in una residenza con i propri oggetti, con le proprie abitudini, con il proprio modo di vestire. Ognuno viveva secondo le proprie scelte.

IV Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/28/intervista-a-giorgio-antonucci-antipsichiatria-clarissa-brigidi-iv-parte/

I Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2008/08/05/intervista-a-giorgio-antonucci-su-lantipsichiatria-tesi-di-laurea-di-clarissa-brigidi-in-filosofia-della-storia/

II Parte dell’inervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/28/intervista-a-giorgio-antonucci-antipsichiatria-clarissa-brigidi-iiparte/

Pubblicato il 28 November, 2011
Categoria: Testi

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo