S.P.Q.R. “Sono pazzi questi romantici?” Ovviamente no! – Conferenza-Dibattito
S.P.Q.R. «Sono “pazzi” questi romantici»?
Ovviamente NO!
Un movimento culturale “strano” frainteso, sul quale le accuse di “trasgressione” e “pazzia” sono piovute e tuttore cadono, quasi fossero manganelli per il fraintentidmento.
Un ulteriore contributo per smontare le menzogne della macchina di potere psichiatrico.
Presenta Maria D’Oronzo
relatore Eugen Galasso
Vedi anche
LA MORTE DI SCHUMANN- racconto di Giorgio Antonucci
Pubblicato il 28 November, 2011
Categoria: Notizie
Intervista a Giorgio Antonucci – Antipsichiatria – Clarissa Brigidi – II Parte
“La solitudine della persona internata in manicomio è senza paragoni. Non è solo celle, spioncini e cortili. E nemmeno soltanto psicofarmaci e elettroshock. È’ invece isolamento assoluto di chi, al contrario di tutti gli altri internati di carcere o di lager, è considerato, sia pure arbitrariamente, senza pensiero, o, che è lo stesso, privo di un pensiero razionale o, come si dice, con un pensiero malato”. Giorgio Antonucci
“Fatto sta che all’ospedale di Imola, ci sono dei reparti chiusi dove i ricoverati girano in tondo con tranquilla disperazione e dei reparti aperti (una minoranza) dove uomini e donne che sono stati legati a letti per anni e considerati irrecuperabili ora girano pacifici, liberi di entrare e uscire. Hanno smesso di essere violenti e irresponsabili nel momento in cui si è smesso di trattarli con violenza, come degli irresponsabili”.
Dacia Maraini, Paese sera,6/7/1980
C. B.: Mi può parlare dell’esperienza che ha fatto a Imola soprattutto per quanto riguarda la liberazione degli internati e la pratica di autogestione all’interno dei reparti psichiatrici?
G. A.: Io sono arrivato a Imola, come ho già detto, su richiesta di Edelweiss Cotti a cui era stata assegnata la direzione dell’ospedale psichiatrico Osservanza di Imola, il quale riceveva tutti i ricoveri della Romagna. Quando Cotti mi chiamò, io andai a visitare il manicomio e tutti i suoi reparti e mi colpì specialmente il reparto detto delle agitate donne, di fronte a quello degli agitati uomini. Cotti era il direttore del manicomio e a livello teorico aveva delle grandi qualità nella critica alla psichiatria visto che aveva letto anche Thomas Szasz, però nella pratica non riusciva sempre a entrare in rapporto con le persone. In quel periodo si ritrovava direttore di un manicomio di milletrecento persone circa, ma nel quale lavoravano quindici medici tutti tradizionalisti. Allora mi chiamò; da una parte, ero appoggiato da Cotti ma, dall’altra parte, mi trovai contro tutti i medici e tutti gli infermieri che sapevano che ero arrivato per cambiare le cose. Io decisi di fare un’azione che poteva sembrare troppo incauta, perché scelsi di lavorare nel reparto che gli altri medici consideravano il più pericoloso, il più difficile, il più pesante: il reparto 14-donne detto delle “agitate”. Questo per dimostrare, una volta che avessi finito di liberare le persone, che se ero riuscito a farlo nel reparto più pericoloso, tanto più si poteva operare allo stesso modo con le altre. Scelsi di partire dal più difficile per ottenere un effetto sul resto dei medici; così, in riunione, chiesi agli psichiatri di dirmi qual’era per loro il reparto più problematico e tutti mi risposero il 14. É molto difficile da descrivere l’angoscia che provai addentrandomi in questo reparto: si entrava da una porta di ferro, poi, ti ritrovavi in un corridoio con delle porte molto spesse di legno e con lo spioncino e da dentro le stanze si sentivano le urla delle internate che erano tutte legate al letto. Le persone erano quindi chiuse in cella e legate ai letti; ce n’erano anche alcune legate agli alberi, fuori nel cortile. Si sentivano urla dappertutto, le infermiere giravano con grossi mazzi di chiavi perché ovunque c’erano porte e barriere; c’erano addirittura gli allarmi da azionare in caso di pericolo per richiamare rinforzi. Era una situazione da campo di concentramento nel senso più stretto della parola e non so ancora come queste persone abbiano fatto a sopravvivere in quelle condizioni. C’erano quarantaquattro donne legate ai letti, chiuse nelle rispettive celle e con quattro o più farmaci addosso: tutte erano ridotte male dal punto di vista fisico perché l’immobilità sommata agli psicofarmaci è nociva. Alcune di queste donne avevano addirittura la maschera di plastica o di cuoio:era una cosa orrenda. Dal punto di vista fisico le loro condizioni erano preoccupanti; io, infatti non stavo affrontando un problema soltanto di liberazione dall’internamento psichiatrico, ma anche il problema difficile della difesa della salute perché le donne erano tutte in condizioni drammatiche. Presentavano disturbi cardiaci, crisi epilettiche, muscoli atrofizzati così io ho dovuto fare il medico nel vero senso della parola perché le loro condizioni fisiche erano tragiche. Ci tengo a dire questo perché a volte se ne dimenticano che, accanto alla mia opera di liberazione, io ho fatto veramente il medico come persona che si occupa dei danni e dei disturbi del corpo, delle malattie provocate dall’immobilità e dall’intossicazione. Per cui ho dovuto lavorare tantissimo, non solo per liberarle, ma anche per rimetterle in salute. Se, dopo essere state liberate, sono andate a Vienna, al carnevale di Venezia, al Parlamento Europeo, in udienza da Giovanni Paolo II, è segno che anche dal punto di vista medico ho fatto un buon lavoro perché all’inizio, quando le ho trovate, non erano in grado neanche di camminare per cento metri: non si reggevano in piedi. Per fare quest’opera di liberazione, ho cominciato a slegarle una per volta e sono stato un mese in reparto, notte e giorno, senza andarmene, con qualche momento di riposo passato sempre in reparto. Dovevo far capire a queste persone quello che stavo facendo, perché le internate avevano paura che io le slegassi per poi rilegarle in futuro come erano abituate dagli psichiatri. Io, invece, dovevo dimostrare alle internate che le avrei slegate definitivamente; d’altra parte si trattava di un processo lungo e difficile perché queste donne avevano il terrore di qualsiasi cosa. Mi trovavo in una situazione di grande diffidenza non solo da parte delle internate, ma anche da parte di tutto il personale. Fortunatamente trovai delle infermiere che mi avevano capito e che cominciarono ad aiutarmi; d’altra parte il personale era diviso tra chi mi voleva seguire e chi mi ostacolava. Era un pandemonio insomma. All’inizio del mio lavoro, nel reparto, c’erano le persone ricoverate che dovevano piano, piano, capire quello che stava succedendo, oltre al personale medico che stentava a collaborare. In più gli altri medici, appena mi allontanavo da Imola, scavalcavano il mio lavoro riportando la situazione a come era prima che io arrivassi. Ho sempre cercato di fare direttamente le cose in modo che le infermiere non dicessero che davo ordini difficili e mi prendevo personalmente tutte le responsabilità. Slegavo la persona con le mie mani, stavo lì, attento a eventuali conseguenze pericolose. E a volte lo erano perché una persona che è stata legata per tanto tempo, dopo, come minimo è arrabbiata. Dovevo stare lì anche di notte perché la notte è un periodo critico. Per esempio se una persona passava una notte inquieta e si ricordava che prima la rinchiudevano o la legavano, io stavo accanto a lei tutta la notte. Dopo un mese, quando le ebbi slegate tutte, presi tutti i mezzi di contenzione, li misi in un sacco e lo consegnai a Cotti, il direttore, accompagnato da un biglietto ironico che diceva: «Questi strumenti di tortura devono uscire da un reparto ospedaliero». Perché consegnarli? Perché fino a che si tengono lì, anche se non si usano, hanno ancora una potenzialità terroristica. Io sono stato sempre disponibile a discutere con le infermiere e le aiutavo in tutte le difficoltà in cui si trovavano, ma non ero certamente disponibile a discutere con loro se si dovevano slegare le persone o meno. Come quando decisi che le inferriate andavano tolte perché questo posto doveva diventare una residenza e non doveva più essere un carcere. Alcune infermiere capirono per fortuna che stava succedendo qualcosa che avrebbe migliorato non soltanto la condizione delle ricoverate, ma anche la loro: avrebbero smesso di fare le carceriere e incominciato a fare un lavoro diverso, di comunicazione umana. Gradualmente le condizioni delle internate migliorarono: iniziarono di nuovo a camminare, a uscire in giardino, a mangiare regolarmente. Prima che arrivassi io, quando non volevano mangiare, le costringevano a farlo con la sonda: era un metodo basato sulla forza. C’era anche un altro metodo allucinante detto “della strozzina”: quando un’infermiera aveva paura che una persona l’aggredisse, un’altra infermiera prendeva la persona in questione alle spalle, le metteva attorno al collo un panno bagnato e lo strizzava finché la persona cadeva in terra. Io tolsi ogni mezzo di coercizione come ogni intervento autoritario. Ho un aneddoto da raccontare per dimostrare questo. Una volta dovevo venire a Firenze e avevo l’intenzione di partire verso le tre del pomeriggio, ma una persona del reparto 14 si mise a sedere nella mia macchina e non se ne voleva andare. Le infermiere dissero che l’avrebbero presa con la forza per toglierla dalla macchina. Io mi opposi e partì alla sera tardi quando si alzò: questo per dimostrare che io, degli interventi autoritari, non ne volevo sapere. Piano, piano, era diminuita la violenza; prima il personale picchiava continuamente le persone e naturalmente, nei reparti psichiatrici, anche in quelli dove ho lavorato io, le violenze contro le giovani donne erano una cosa all’ordine del giorno. Dove ci sono le persone che non contano nulla, quelli che sono stati designati dalla società per controllarli, ne abusano in tutti i modi. Cotti, vedendo il risultato della liberazione, mi chiese di prendere un altro reparto. Dopo il reparto 14, passai al 10 donne dove trovai una situazione molto simile e perciò procedetti come per il 14. Poi andai al 17 uomini e anche lì feci lo stesso lavoro. In seguito, la direzione dei due manicomi di Imola diventò unica e io fui chiamato nell’altro manicomio, il Lolli, dove arrivavano le persone da Bologna. Lì un po’ di lavoro era stato fatto da un medico basagliano che mi aveva preceduto e, dal momento che lui aveva stabilito assemblee con gli infermieri, il reparto si chiamava Reparto autogestito. Io cercai anche qui di trasformare il reparto in una residenza, in cui le persone avevano la chiave delle proprie camere e potevano uscire quando lo ritenevano opportuno. Per esempio, uno di loro, il pittore (http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2010/07/02/490/), la sera andava a Bologna per divertirsi nei locali notturni. Io gli dicevo soltanto che, se gli succedeva qualcosa, doveva avvisare così potevamo essergli vicino. Vorrei aggiungere una cosa molto importante: io non mi sono mai occupato del pensiero degli internati e cioè non mi interessava se qualcuno pensava delle cose “sbagliate” su di sé. Io non mi sono occupato di modificare il loro pensiero perché questa cosa è una violenza e non mi sono mai permesso di far cambiare le idee a qualcuno. Io mi sono occupato di rendere loro liberi e quindi anche liberi di pensare ciò che vogliono. Anche ora, quando mi occupo di evitare gli internamenti alle persone, non discuto con loro perché cambino il loro pensiero. Piuttosto ci parlo di problemi pratici relativi anche alla nostra differenza nel modo di affrontarli. Il nocciolo della psichiatria è, invece, modificare il pensiero degli altri con la forza. La libertà di pensiero non significa pensare certe cose e altre no; anche nella storia della filosofia ci troviamo davanti ad un orizzonte di idee differenti una dall’altra e spesso contrastanti. Per me il problema è cominciato non come psichiatra o antipsichiatra, ma dall’idea semplice che una persona ha diritto di pensare quello che vuole senza che nessuno interferisca. Certamente si può discutere: per esempio, se uno mi dice che si sente Carlo Magno io gli posso controbattere che ho studiato la storia e che Carlo Magno è vissuto in un’altra epoca; allora lui mi potrà ribadire che è una sua reincarnazione e così via. Però, costringere una persona ad aderire a quello che io ritengo vero è una forma di tirannide. Su questo mi trovo d’accordo con Thomas Szasz che mi ha dato anche un premio (http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2009/09/06/thomas-szasz-award/) in cui c’è scritto: « I problemi sociali scambiati per problemi psichiatrici offrono illimitate possibilità di tirannide». Nel premio che mi è stato dato, in particolare, c’è scritto: «Per gli eccezionali contributi alla lotta contro lo stato terapeutico». Che cos’è lo stato terapeutico? È quel tipo di Stato che, attraverso la medicina, vuole controllare il pensiero delle persone.
I Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2008/08/05/intervista-a-giorgio-antonucci-su-lantipsichiatria-tesi-di-laurea-di-clarissa-brigidi-in-filosofia-della-storia/
III Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/28/intervista-a-giorgio-antonucci-antipsichiatria-clarissa-brigidi-iii-parte/
Pubblicato il 28 November, 2011
Categoria: Notizie
Giuseppe Uva e Stefano Cucchi: responsabilità legate a vicende psichiatriche – Eugen Galasso
Tornano “sotto i riflettori” i casi di Giuseppe Uva (3 anni e mezzo fa circa) e Stefano Cucchi (poco più di due anni fa) presentano vari elementi di affinità: un passato (ma in parte anche qualche traccia nel presente) di tossicodipendenza, la requisizione da parte dei carabinieri, la morte improvvisa: fermo restando che la verità giudiziaria è ancora da stabilire, che quindi molte ipotesi rimangono aperte, in particolare sui pestaggi cui le due persone, grosso modo anche della stessa età (poco più che quarant’anni), sarebbe state sottoposte, a parte la droga e uno stile di vita che la società e la cultura dominanti condannano (problema del proibizionismo sul tema droga, eventuali responsabilità delle forze dell’ordine, c’è da dire dei medici e delle loro “colpe”: per Uva c’era stato un TSO e qui c’è da ribadire, con Giorgio Antonucci e non solo, che il TSO è una sottrazione ingiustificata di libertà, una sua violazione, che nulla può sostituire; è vero che il TSO è precedente al pestaggio in caserma (a Varese), mentre il romano Cucchi, che pure in precedenza con i reparti pischiatrici aveva avuto a che fare, è morto nella clinica (o ospedale, le definizioni valgono e neppure troppo, in alcuni casi) del carcere, dunque, foucaultianamente è stato vittima di entrambi i due poteri, carcerario e ospedaliero. Medici, nel caso di Cucchi, che hanno affermato essere l’uomo “incapace di intendere e volere” e anche qui le considerazioni si sprecherebbero. Quindi, fattualmente: A) responsabilità, per quanto ci riguarda, a livello di privazione di libertà, legate direttamente o meno (ma praticamente sempre, pur se con modalità diverse) al TSO e alle vicende psichiatriche pregresse; B) storie di vita spezzate dalle violenze dei poteri spesso confliggenti, magari senza saperlo, altre volte alleati; C) chi scrive, pur non esercitando attualmente, è ctp (consulente tecnico di parte): ora che molte cose, nei due casi, non siano state chiarite, è fuori di dubbio, pur se non è possibile da esterni, pur se relativamente informati, dire molto di più. Casi da ristudiare, ma soprattuto vite spezzate, ingiustamente (ogni vita spezzata lo è, ma quando di mezzo ci sono i poteri, la cosa viene ad essere più grave). Persone, più che casi (altro, appunto, è la valutazione giuridica). Se ne parlerà ancora, prima, durante e dopo i processi, se ci saranno nuovi rilievi e nove scoperte, ma… per ora temo di aver detto fin troppo, sperando non si tratti di riflessioni troppo scontate, pur se non posso escludere che invece sia propio così…
Eugen Galasso
Pubblicato il 27 November, 2011
Categoria: Notizie
Prospettive diverse per il superamento della questione psichiatrica
Negli ultimi tempi, quando la psichiatrizzazione sembra essere un toccasana secondo molti, si riaffaccia il problema degli approcci non-anti-a- psichiatrici (sono contro inutili nominalismo, nella linea antonucciana), che tendono a distinguersi e a separarsi, anche a seconda di orientamenti politici, ideologici, ma anche personali. Qui l’esempio di due proposte diverse, ma convergenti verso un unico obiettivo, cioè il superamento delle inutili conflittualità. Diversità, si può dire, ma senza contrapposizioni, appunto.
Del resto, un po’ di storia non fa mai male: nell’anno topico 1968 proprio il compianto dott. Edelweiss Cotti, bolognese e il dott. Giorgio Antonucci, fiorentino, costituivano a Cividale del Friuli il “Centro di relazioni umane”(http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2008/12/21/giuseppe-gozzini-esercizi-di-memoria-il-68-visto-dal-basso-sussidio-didattico-per-chi-non-cera-ed-asterios/), quale luogo simbolico-emblematico del superamento del pregiudizio psichiatrico. Un’esperienza, in gran parte, pre-basagliana, comunque più radicale di quella dell’assolutamente importante medico e teorico veneziano. Con una foto (http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/16/edelweiss-cotti-e-giorgio-antonucci-a-cividale-del-friuli-foto/) fortemente esplicativa, come sempre le immagini, che vivificano le parole.
(seguono i testi)
Giuseppe Bucalo:
Oggi 17 novembre 2011 viene presentata pubblicamente un’esperienza antipsichiatrica unica che ci vede attivi da 10 anni in Sicilia e che abbiamo deciso di chiamare “Soccorso Viola”.
Esperienza ultima in ordine di tempo di una serie di speriment/azioni che fa del Comitato Iniziativa Antipsichiatrica non solo l’organizzazione antipsichiatrica più longeva del panorama italiano (la data di nascita si perde nel lontano 1986), ma anche quella che ha saputo coniugare la lotta ad ogni forma di abuso psichiatrico con la ricerca di opportunità concrete per fare a meno della psichiatria.
Dall’autogestione collettiva delle esperienze di crisi sociale a Furci Siculo, con l’azzeramento dei TSO, alla Sindrome Associativa esperienza di autogestione delle esperienze allucinatorie; dalla scoperta dell’ “accettazione delle cure” come strategia legale maestra per sottrarsi ai TSO alla costruzione di una rete di accoglienza antipsichiatrica capace di ospitare, rifocillare e sostenere quanti, nella loro ricerca di autonomia e libertà, tentano di sfuggire dalla psichiatria; dalle battaglie per l’abolizione della non punibilità per vizio di mente e il superamento dell’OPG alla creazione di luogo intermedio per sostenere la fuoriuscita delle persone dal circuito psichiatrico-carcerario.
Il “Soccorso Viola” prende atto di questa realtà antipsichiatrica viva e concreta che si confronta con il quotidiano, tenendo insieme nel “viola” le partiche legali che da sempre hanno contraddistinto l’azione di tutela dei diritti e della libertà degli im-pazienti psichiatrici e nel “soccorso” l’urgenza di dare una mano concreta a quanti per fare a meno della psichiatria rischiano di rimanere privi di qualsiasi rete o appoggio sociale e familiare.
Il grande valore di questa esperienza è che mostra che si può fare a meno della psichiatria. Il grande limite che essa si è limitata a sud, in Sicilia. Non ha trovato negli anni nessuno che accettasse la sfida di andare oltre la mera rivendicazione del diritto alla follia e ne replicasse, magari innovandola e in maniera originale, l’esperienza in altre realtà d’Italia.
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Chi scrive è convinto da sempre della bontà e sincerità dell’attività, importante, di Giuseppe Bucalo, che opera nel settore anti-psichiatrico, non-psichiatrico, a-psichiatrico (niente nominalismi, please!). Idem ritiene che chi opera, a vario titolo, in quest’ambito, debba collaborare con le altre realtà – dividersi non ha senso e porta acqua al mulino della reazione, id est della psichiatria, diffranta in realtà diverse ma (queste sì, sempre e appassionatamente) convergenti… Ciò che forse vorremmo da parte dell’amico e “compagno”(nell’accezione letterale del lemma, cioè chi mangia il pane insieme, senza bisogno di riferimenti cristici, che a me andrebbero anche bene…) Bucalo sarebbe un minimo di ritrosia in più: rivendicare primogeniture va bene, ma, acconsentendo a riconoscere che il dott.Giorgio Antonucci, in anni pericolosi, affrontava processi e reprimende, negando dall’interno l’istituzione manicomiale, per es… Se c’erano Laing, Cooper, Basaglia (già scomparso, però, nell’86 citato), c’era chi, in loco, non lesinava critiche all’istituzione…
Eugen Galasso
Pubblicato il 26 November, 2011
Categoria: Notizie
Edogawa Ranpo e l’ “incomprensibile” – Eugen Galasso
Nell’ambito di recenti riscoperte di autori ignoti o quasi da noi (intendendo: Europa, “Occidente”, non solo Italia) ottima quella di Edogawa Ranpo, pseudonimo di Taro Hirai, giapponese (1894-1965), autore di “noir” e più ancora di racconti e romanzi fantastici, che ora in italiano esce con “L’inferno degli specchi”, Milano, Mondadori, 2011, racconti, anzi meglio raccolta di essi, di eccelso valore, ispirati da quello che era il mito di Ranpo, Edgar Allan Poe, cui l’autore si rifà anche per lo pseudonimo (attenzione alla fonematica: si legga lentamente il nome con scansione sillabica e si capirà perché – e certo non c’è bisogno di conoscere la lingua giapponese). Ma c’è un tema in questi racconti, che ci sconcerta e interessa: il protagonista dei racconti si chiede, di fronte al’ “orribile non sublime”, all’incomprensibile, se egli sia pazzo? Concezione atavica, inculcata da molte culture (in accezione antropologica, beninteso, non di “cultura alta”), anche orientali. Ma regolarmente l’autore respinge tale affermazione, la nega. In Poe, alcolizzato e “drogato” d’oppio, invece, la questione non si pone neppure. Il grande americano, in effetti, si chiede (fa chiedere al protagonista dei racconti) se ciò che vede/esperisce sia un’altra realtà oppure prodotto dei fumi dell’alcol e della droga. Ma la risposta, comunque, è sempre la prima, dato che Poe non era un materialista o un meccanicista.
Eugen Galasso
Poesia di Giorgio Antonucci
“Se mi ascolti e mi credi” (http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2010/11/27/giorgio-antonucci-poesia-se-mi-ascolti/)
Pubblicato il 24 November, 2011
Categoria: Notizie
Edelweiss Cotti e Giorgio Antonucci a Cividale del Friuli – Foto
In questa foto si vedono Edelweiss Cotti e Giorgio Antonucci, e altri, davanti al reparto neurologico di Cividale del Friuli, chiamato – Centro di Relazioni Umane -, nel 1968.
PUBBLICATA SU: VIE NUOVE, ANNO XXIII, 29 AGOSTO 1968
Interno del reparto chiamato “Centro di relazioni umane”
altre foto del reparto di Cividale: qui
Approfondimenti:
GIUSEPPE GOZZINI – “Esercizi di memoria – il ‘68 visto dal basso- sussidio didattico per chi non c’era”
VI CONGRESSO ENUSP “Il futuro per gli utenti e sopravvissuti della psichiatria – Tributo a GIORGIO ANTONUCCI
Da: “Report del VI congresso del Network Europeo di (ex) Utenti e Sopravvissuti della Psichiatria (ENUSP)” di Salonicco.
28 Settembre – 1 Ottobre, 2010
Determining our own future: “The way forward ford all European user and survivors of psychiatry”
pag 156:
This piece is in recognition of Giorgio Antonucci’s work, who was the first person in Italy to create a self managed asylum psychiatric ward and freed psychiatric prisoners by giving them back their money, their documents and the keys.
“Il testo è il seguente:
“Questo pezzo è un riconoscimento del lavoro svolto da Giorgio Antonucci, la prima persona in Italia che ha creato un reparto autogestito dentro un manicomio e che ha liberato i prigionieri psichiatrici, restituendo i loro soldi, i loro documenti e le chiavi”.
Un ringraziamento a Erveda Sansi (http://senzapsichiatria.blogspot.com/)
Pubblicato il 9 November, 2011
Categoria: Notizie
“DISAGI MENTALI IN SCENA DA COSTANZO”- Pazienti ed ex pazienti, con Giorgio Antonucci, a “Costanzo show”
20 luglio 1996 — pagina 34 sezione: SPETTACOLI E TV
ROMA – Giovedì sera la puntata del Maurizio Costanzo show è stata davvero speciale. Su Canale 5, dalle 23 in poi (per più di due ore) sul palcoscenico del Teatro Parioli non c’ erano i soliti ospiti, ma solo degenti ed ex degenti di ospedali psichiatrici (sei in tutto), accompagnati dal professor Giorgio Antonucci, direttore del reparto autogestito dell’ Istituto ‘ Lolli’ di Imola. E’ la prima volta che questo accade in un talk show. Un fatto che farà sicuramente discutere, ma di cui Maurizio Costanzo va particolarmente fiero. Costanzo, ci spiega come è nata questa puntata? Per parlare di ‘ disagi mentali’ era proprio necessaria questa provocazione? “Io sono sempre stato contro l’ etichetta della diversità. Mettere i normali da una parte, gli anormali dall’ altra. Perciò, due mesi fa, parlando con il professor Antonucci, primario dell’ ospedale di Imola, ho cominciato a pensare ad una puntata da dedicare a chi ha o ha avuto dei ‘ disagi mentali’ : offrendo l’ intero palcoscenico a loro disposizione. Ma lo sapete che, per legge, il 31 dicembre di quest’ anno in 33 mila dovrebbero lasciare gli ospedali psichiatrici italiani? Bene, io allora ho voluto fare un tentativo: quello di dimostrare che non esiste la diversità, o almeno che è molto difficile stabilire quali sono i limiti”. I telespettatori avranno capito il suo messaggio? Come ha reagito il pubblico del teatro Parioli? “E’ andata benissimo: ci hanno seguito 1 milione e 400 mila telespettatori di media. Abbiamo avuto il 22 per cento di share. Ma anche il 15 per cento sarebbe stato un buon risultato. Io conosco il pubblico del Parioli: vi posso garantire che erano rapiti. Alcuni di loro, che ho sentito dopo la registrazione, mi hanno detto di aver trovato la trasmissione molto interessante. Sono contento, con questa puntata ho coronato un sogno, è l’ appagamento di un desiderio: bisogna creare la cultura della non diversità”. Tutto è filato liscio. Ma con questi ospiti, se ci fossero stati dei problemi, l’ avrebbero accusata di fare una speculazione televisiva… “Sì, sapevo di giocare una carta molto delicata. Ma con il mio show corro dei rischi tutte le sere, e non mi interessa più quello che dicono certi critici. Nessuna scaletta per questi ospiti: assieme al professor Antonucci, e agli psichiatri Rosaria Iacoponelli ed Ettore Pasculli, abbiamo cercato solo di farli sentire a loro agio. Ho fatto apposta a non mettere altri ospiti nella puntata: avrei detestato qualsiasi parola di ‘ comprensione’ nei confronti di chi vive il disagio mentale. Un momento difficile? Quello dei due fidanzati, Mariella e Giorgio: lei ha espresso il desiderio di lasciarlo, lui soffriva, io ho lasciato che finisse di parlare mentre mi allontanavo”. Questa puntata è un preludio al tanto annunciato ‘ nuovo corso’ del Maurizio Costanzo show del prossimo autunno? “E’ un test molto importante”, dice Costanzo, mentre Alberto Silvestri, autore dello show, ci legge soddisfatto il testo di un fax di approvazione. A Costanzo lo ha inviato Anna, da Pistoia, e dice: “Una settimana fa le ho scritto perché mi aveva offeso la presenza di Sabani nel suo show. Avevo detto che avrebbe perduto una fedele telespettatrice. Ma oggi le chiedo scusa, e mi complimento per la straordinaria puntata”. – di LEANDRO PALESTINI
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/07/20/disagi-mentali-in-scena-da-costanzo.html
Pubblicato il 28 October, 2011
Categoria: Notizie
“Libertà nella produzione poetica e saggistica di Giorgio Antonucci” – Eugen Galasso
Vorrei partire, ancora una volta, da un testo compreso in “Diario dal manicomio” di Giorgio Antonucci, dove Giorgio commenta un incontro tra Francisco Varela, grande biologo e neuroscienziato nonché epistemologo cileno, scomparso circa 10 anni fa (nel maggio del 2001, per la precisione) e il Dalai Lama, dove entrambi convengono sul fatto che certi atteggiamenti, comportamenti e modi di pensare dei mistici buddhisti in Occidente, da molti, in specie psichiatri, verrebbero considerati schizofrenici; ma, aggiunge Antonucci, né l’uno né l’altro, ne traggono la debita conseguenza, per cui bisogna mettere in discussione ogni tipo di psichiatria. Sviluppando tali concetti e altri ancora del libro ed in genere del pensiero di Antonucci, la dottoressa Maria Rosaria D’Oronzo, presidente del Centro di Relazioni Umane, ha articolato la sua interessantissima relazione al convegno bolzanino sull’opera e il pensiero di Giorgio Antonucci, mostrando come non si possano in alcun modo conculcare i dirtti umani, costringendo a un TSO, all’ “obbligo” di assumere psicofarmaci, al letto di contenzione, all’elettroshock etc. (cito tutto ciò assieme, in una serie un po’ confusa, ma molti psichiatri con queste cose fanno una gran confusione eppure su ciò tengono ferma la loro convinzione, anzi tendono ad imporla o la impongono tout court), ad altro ancora, quasi non ci fosse alcuna capacità di discernimento della persona (o individuo che dir si voglia, pur se si tratta in entrambi i casi di lemmi pesantemente connotati), quasi avessero valore scientifico le loro diagnosi, dove invece la dottoressa D’Oronzo, rifacendosi al pensiero di Antonucci ma anche all’esperienza semantica, cioè diretta, mostra come si oscilli , quasi in un valzer grottesco ma anche drammatico per il “paziente” tra “schizofrenia”, per es., di moda più che altro un tempo e “disturbo bipolare”, con cui oggi invece si largheggia, notoriamente, tanto che termine designante e relativa diagnosi appaiono decisamente inflazionati, ormai. Proprio rifacendosi a ciò, dunque, la dottoressa D’Oronzo ha sviluppato argomenti e controargomenti rispetto a prese di posizione, addotti dai partecipanti, a parziale difesa di posizione da”psichiatria democratica”. Maria Rosaria D’Oronzo, a questo proposito, informata su specifiche realtà altoatesino/sudtirolesi (“Casa Basaglia” alla periferia di Merano, in specifico) ha messo in evidenza manchevolezze locali, invitando giustamente a porre maggiore evidenze sulle stesse, spesso trascurate e/o tout court rimosse. Il convegno-incontro, svoltosi lo scorso 20 settembre a Bolzano, presso la biblioteca provinciale “Claudia Augusta” del capoluogo altoatesino, ha fatto rilevare tre aspetti: A)l’interesse vivo dei/delle partecipanti (decisa la prevalenza femminile) per la tematica, nonostante si trattasse di una matinée, il che ha ridotto per molte persone la possibilità di partecipare; B)l’interesse anche umano, empatico per la problematica; C)la convinzione sostanziale di varie persone, per le quali la psichiatria dovrebbe essere “soft”, “democratica”, “Umana”, ma ha/avrebbe comunque da essere, convinzione fondata in ogni caso sull’illusione che una diagnosi psichiatrica sia possibile e che possa discenderne in qualche modo, una terapia adeguata e non solo velleitaria-arbitraria. Ma, parafrasando Freud, da non freudiano che però ne riconosce i meriti di “pioniere”, il quale però ne parlava in tutt’altro contesto (“L’avvenire di un’illusione” è un saggio freudiano che parla polemicamente della religione), c’è da augurarsi che tale illusione non abbia alcun avvenire…
Eugen Galasso
Pubblicato il 3 October, 2011
Categoria: Notizie
Seminario – Disegno Onirico – Eugen Galasso
“Volete conoscere e soprattutto conoscervi divertendovi? Provate con il disegno onirico, dove in gruppo si impara e ci si diverte, riscoprendo anche il piacere dell’espressione grafica”
E’ NECESSARIA LA PRENOTAZIONE.
IL DISEGNO ONIRICO
… Siete invitati/e a sognare ad occhi aperti ma senza dormire. Modalità creativa per conoscersi, conoscere aspetti “curiosi” della propria personalità, anche divertendosi.
Oltre che a interpretare, almeno a grandi linee, i disegni onirici, e proprio attraverso questa intepretazione, con il disegno onirico si impara a conoscersi, non razionalmente, ma nell’interezza della nostra person…alità, quindi nelle componenti emotive, sentimentali, nella trama di ricordi e pulsioni. Stare con gli altri nel gruppo implica la possibilità di conoscere anche gli altri, proprio anche confrontandosi con una situazione in cui ognuno supporta gli altri, li aiuta magari anche non rendendosene conto.
Cenni storici: La tecnica, che non è solo tecnica ma anche teoria complessiva (fondamentale la “lettura” e l’”ermeneutica” del disegno), nasce negli anni Settanta del 1900 a Buenos Aires da due psicoanalisti di formazione e ispirazione (non dogmatica, però) junghiana, Alberto Bermolen e Maria Grazia Dal Porto, ma anche dalla loro collaborazione con Abel Raggio, artista post-surrealista (la definizione è limitativa).
Teoria del disegno onirico:
“… è notorio che ogni persona si esprime con dei segni, delle tracce anche grafiche…Ma, già in età puberale-adolescenziale (dai 13 ai 15 anni) la persona si vergogna a produrre disegni, ad esprimersi graficamente; ma ciò, sicuramente, è dovuto ai pre-giudizi, al clima culturale ammorbante”
“Non ha senso parlare a priori e interpretando prima il disegno onirico, perché si “rovinerebbe il gioco” interpretando i disegni prima che si facciano.
A) ”onirico” implica il sogno, ma è “sogno” ad occhi aperti, senza che si dorma, senza che ci sia ipnosi (non sarei capace di usare l’ipnosi né autorizzato a farlo, inter cetera), uno stato di coscienza vigile, attraversato, però, dal “sogno ad occhi aperti”, appunto;
B) conta l’uso dei colori, le forme, la posizione delle forme-figure nel foglio, ma ciò non vuol dire che, per es. l’uso di un colore implichi la possibilità di interpretare tale colore (e quindi tale uso) univocamente……
C) Non esistono non-colori. Il nero, il bianco, il grigio lo sono, dunque, a pieno titolo, contro interpretazioni classicamente “accettate” quanto oltremodo fallaci;
D) Leggere-interpretare un disegno onirico non vuol dire in alcun modo “giudicare la persona” (ci mancherebbe….!), anzi tutelarne la privacy, capirne le grandi potenzialità, sempre insite anche nella persona più schiva, meno “appariscente”;
E) Il disegno onirico si fa in gruppo, non da soli.
Che il gruppo o alcuni suoi componenti si conosca(no) o meno, ci si diverte sempre, comunque e divertendosi, come si sa, si impara, ma non nozioni astratte che servono a bene poco.
Termine iscrizioni: il 13 ottobre 2011
Iscrizioni: centrorelazioniumane@gmail.com , cell 339 3040009
Per informazioni:http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2010/12/09/disegno-onirico-eugen-galasso/#more-692