Un’ipotesi di “normalità” di Herbert Read – Eugen Galasso



C’è un libro che consiglio a tutti/e, “Education trough Art” (Educazione attraverso l’arte) di Herbert Read, degli anni Quaranta dello scorso secolo, ma preparato già prima, come rileva l’autore stesso. Un testo tuttora importante, ma certamente prigioniero dello spirito del suo tempo: riferendosi a Freud, a Kretschmer, alla Gestalt ma anche al meccanicismo behaviorista(Pavlov, per es.), il grande psicologo dell’arte, sociologo e “filosofo” nonché creativo (scrisse anche romanzi e testi poetici importanti) Read scrive: “Altri psicologi (Trigant Burrow, per es., in The Social Basis of Consciousness), hanno dimostrato la natura ipotetica della normalità, ma un’ipotesi di normalità e senz’altro utile e Kretschmer ha adottato il termine”sintonico”, introdotto per la prima volta da Bleuler (era stato un collaboratore di Freud, e.g.) per indicare la persona puramente ipotetica i cui stati  d’animo si siano armoniosamente equilibrati e sviluppati liberamente rispetto alle oscillazioni e reazioni tipiche dei tipi insani” (cito dalla traduz. spagnola, “Educaciòn por el arte”, Barcelona, Paidòs Educador, pp.94-95). Ecco un “corno” del problema: accettare l’idea di normalità e di normotipo è comodo, per gli psichiatri e per il volgo, ma anche per persone intelligenti e colte (ricordo il compianto Orazio  Costa, geniale drammaturgo e regista, che però in questo senso poteva discriminare tale…Carmelo Bene). Ma fosse solo un vezzo intellettuale, passi. Il problema è che tutto va a finire nella clinica del manicomio (pardons, clinica psichiatrico, reparto di psichiatria), TSO, psicofarmaci e (non solo talora) elettroshock.  Certo Read non era colpevole di tutto questo, ma anche epistemologicamente avrebbe potuto essere più chiaro; la cultura del tempo, però, lo condizionava troppo, dirò così per brevità; e l’ipotesi di lavoro diveniva cogente per nosografare e distinguere.

Eugen Galasso

Pubblicato il 3 June, 2011
Categoria: Testi

Misseri nella villa dei misteri – Eugen Galasso



Il caso, criminologicamente interessante (ma scandalizza, almeno chi scrive, certa curiosità morbosa del paese di Avetrana, prima colpevolista, poi innocentista, poi critico verso il “maschio soggetto al matriarcato”, con concezione ancora maschilista dei rapporti di genere, non tra persone umane, dotate degli stessi diritti) di Sarah Scazzi tiene “attanagliati” vasti strati della popolazione italiana, ma, invece di dolersi dell’orribile uccisione di una persona, di una ragazzina, come nel caso di Yara Gambirasio, c’è chi parteggia per l’uno o l’altra dei possibili colpevoli, dei più che indiziati. Il fatto è che, oltre alla questione del colpevole, c’è da dire che pochi giorni fa “zio Miché”, alias Michele Misseri, scarcerato, era stato sottoposto a TSO, pur se solo per poche ore, su ordinanza del sindaco di Avetrana, con nessuna indicazione di uno psichiatra, come invece vorrebbe l’attuale vigente-pessima-legge.  Il provvedimento era stato adottato, in quanto la motivazione ufficiale era il rischio di suicidio dell’uomo. Legge pessima, ma anche scavalcata quando fa comodo. Sarebbe senz’altro meglio abolire il TSO, così neppure il caso grottesco di Avetrana sortirebbe effetti ancora così “strani” e inquietanti, con il sospetto di deviazione di prove e indizi…

Eugen Galasso

Pubblicato il 3 June, 2011
Categoria: Testi

La solitudine – Eugen Galasso



La solitudine può essere al calor bianco, oppure non esistere: a parte il bellissimo poemetto omonimo – poi chanson – di Léo Ferré, dove nella scrittura poetica lucidamente surrealista, “la solitude” si introduce/inserisce sempre e improvvisamente, quale presenza perturbante, atrocemente invasiva, nel contenutissimo, monolemmatico réfrain, mentre poi  in un’altra chanson omonima, “La solitude…ça n’existe pas” di Gilbert Bécaud,  essa sembra venir derubricata  a semplice condizione soggettiva, anzi individuale. Inutile che io in questa sede citi i precedenti poetici in Baudelaire, che però parla di spleen, che è una condizione altra, non di pura solitudine, ma anche di noia e “mal d’e^tre moi” (male di esistere).  Chiaro che in questo “mix” la solitudine (scelta, voluta, subita) è solo una componente.  Inutile poi (o no?) tornare alla famosa frase di impronta stoica: “Beata solitudo, sola beatitudo” (Beata solitudine, sola beatitudine), che però, ovviamente, vale come motto – frase programmatica per la solitudine scelta-voluta quasi come “filosofia di vita”. Per la scrittrice e poetessa Maria Teresa Bernabei, che però in questo caso commenta il volume fotografico di Paolo di Giosia “Solitudini” essa è “condizione, quasi una dote peculiare dell’uomo… Fa parte del nostro essere impastati di tempo ed eternità, di spirito e di carne, del nostro collocarci tra terra e cielo” (op.cit., p.59). Specifica poi anche, per l’autrice, la solitudine femminile, in quanto, come dice con bella espressione, “amante non amata”(p.609),  condizione non scelta,  e qui, giustamente, la Bernabei parla della condizione in absentia per cui non ci sono anacorete donne… Anche per quella che l’autrice considera il culmine della condizione femminile, Maria di Nazareth, “figura femminile per eccellenza”(cit. p.62). Di formazione e cultura anche cattolica, ma “eretico”, di convinzione mistico-gnostica (non agnostica, preciso) posso rispettare la “Vergine madre, figlia del tuo Figlio” (Dante, Divina Commedia),  ma non venerarla. , in quanto credo che sarebbe uno scalfire l’unicità (beninteso tutt’altro che maschile, anzi!) del mistero dell’Assoluto.  Credo comunque che storicamente e antropologicamene la sua condizione fosse migliore di quella delle donne greche, dove la pòlis “democratica” solo di nome, chiaramente, escludeva la donna e la separava rigorosamente dagli uomini, trattandola al pari dei non cittadini, metèci, schiavi etc. , escludendola  da ogni diritto civile, rinchiudendola nel recinto della casa, quel recinto che è ancora previsto dall’autoeducazione di Jean-Jacques Rousseau (cfr.l’Emile) e dalla condizione mediterranea così ben emblematizzata in “La casa de Bernarda Alba” di Garcia Lorca.  Belle, anche quando non ne condivido alcune, le considerazioni di Maria Teresa, con l’invito, per es., a partire della solitudine per conoscere (e qui anche il genere maschile dovrebbe sentirsi coinvolto, sperabilmente!). Aggiungo solo che luoghi di reclusioni quali manicomi e altre istituzioni totali possono essere orribili prove di solitudine, nell’accezione, ovvio, di quella subita-imposta. E chi invece vorrebbe essere solo, anche “naturaliter”, quali coloro che vengono etichettati/e quali “soggetti autistici”.  O c’è la volontà di capire-comprendere vivendo con loro(Deligny) oppure vengono prese misure quali medicalizzazione forzata ed esclusione, che derivano comunque dalla non-comprensione, come si è già detto. E chissà se anche  per chi scrive, decisamente convinto, del tutto gnosticamente,  di  “essere stato gettato nel mondo bassamente materiale” non si prenderebbero volentieri misure di emarginazione, magari fino al TSO… Si potrebbero addurre elementi quali le “caratteristiche asociali”, per andare un po’ più in là.  Ma qui, forse, saremmo già fuori dal perimetro  conosciuto di quanto definiamo come “solitudine”.


Eugen Galasso

Pubblicato il 30 May, 2011
Categoria: Testi

Paola Cooper, 16 anni, aspettava l’esecuzione della condanna a morte. – Piero Colacicchi

di:  Piero Colacicchi

Tra i tanti oggetti che inzeppano la mia stanza c’è un piccolo cucchiaio di legno il cui manico è malamente attaccato al fondo, il cui fondo stesso è spaccato in due, è mal incollato ed è mancante della parte davanti: malgrado ciò mi è particolarmente caro perché mi ricorda un episodio importante della mia collaborazione con Giorgio Antonucci. Il cucchiaio è intagliato a mano in legno di “òcchiule”, (come lo chiamano in Basilicata ) un legno duro, compatto e piuttosto pesante. Potrebbe esser stato fatto in Aspromonte o a Senise, in Basilicata, dai pastori. In realtà so soltanto che proviene dalla Calabria.

Mi fu regalato da Noris Antonucci parecchi anni fa con un commento scherzoso: ” Tienilo te: tanto, tra tutte la roba che hai, una cosa in più non ti fa differenza. Io non lo voglio, ma non voglio neppure buttarlo via. Sai, apparteneva ad una zia a cui ero molto affezionata, quella che per le feste mi mandava sempre i salamini piccanti e le altre golosità calabresi che anche a te piacevano tanto.”  Lo accettai sorridendo. Noris mi prende sempre in giro per tutte le cose che tengo in casa, lei che invece non sopporta di aver roba tra i piedi e che – scherzo io – uno di questi giorni butterà nella spazzatura anche il marito!
In quel periodo  passavo  più spesso del solito da casa di Giorgio e di Noris, e mi fermavo anche a mangiare. Eravamo, come ai vecchi tempi, continuamente in contatto perché seguivamo una questione importante in cui c’eravamo imbarcati e che ci  teneva con i nervi tesi.

Era cominciata così. Una mattina – per l’esattezza sabato 13 dicembre del 1986, verso le undici –  me ne stavo a casa mia a ciondolare in pigiama quando Giorgio Antonucci mi telefonò e mi lesse una lettera appena pubblicata su La Nazione, a firma di Maria Luigia Guaita. Non conoscevo personalmente la Guaita, ma  ne avevo molto sentito parlare, anche in casa. Era stata partigiana, aveva partecipato a varie attività (durante le quali aveva conosciuto anche i miei genitori), era stata amica di Enzo Enriquez Agnoletti (l’ex vice sindaco e direttore della rivista Il Ponte su cui anche noi scrivevamo ) e ora dirigeva una scuola d’incisione molto nota a Firenze, il Bisonte.
La lettera della Guaita, pubblicata col titolo “Per non far morire Paula” nella rubrica ” Parliamone insieme” tenuta da Laura Griffo, diceva: <<  In questi giorni che sanno già di Natale [ …] vorrei richiamare il ricordo della gente buona, ma forse distratta, su Paula Cooper. E’ una ragazzina nera che oggi ha sedici anni  e che, in una cella della morte del carcere di Indianapolis, sta aspettando di salire sulla sedia elettrica. Ha commesso un delitto orribile: riconosciuta mentre tentava un furto nell’abitazione della insegnante di catechismo, Ruth Pelke, l’ha assassinata con un coltello. L’opinione pubblica locale, emozionata e indignata, ha plaudito la pena di morte a cui è stata condannata. […] Figlia di alcoolizzati, violentata la prima volta dal padre davanti alla madre indifferente, cresciuta in un clima di violenza e di abiezione […] è fuggita più volte dall’inferno della famiglia e puntualmente restituita a casa dalla solerte polizia locale […] Dopo qualche negativa esperienza in orfanotrofio[…]  quando la madre e il padre si allontanano, […] resta affidata alle cure della sorella, maggiore di lei di soli tre anni.
< [ …] A pregare per lei oggi c’è solo la sorellina disperata. A battersi per lei solo l’avvocato difensore, che spera nella grazia. Che potrà essere ottenuta solo se l’opinione pubblica europea si organizzerà in ” movimento per la vita di Paula ” e chiederà per lei il perdono del popolo americano.[…] A te, Laura, chiedo di sollecitare una raccolta di firme a favore di un mutamento di pena e umana solidarietà verso questa ragazzina disperata e sola davanti alla morte che ormai si è già insediata, quasi entità palpabile in attesa paziente, nella sua cella .[ …] Si può scrivere al governatore Robert Orr, State house, Indianapolis 46204 USA. >>
Commentava Laura Griffo: << Raccolgo l’appello di Maria Luigia Guaita  con emozione.[..] A Firenze, nel 1786,il Granduca Pietro Leopoldo, sovrano illuminato, abolì la pena di morte ritenendola iniqua. Giusto, quindi, che da Firenze parta una iniziativa di solidarietà con Paula Cooper, che ha solo sedici anni e che dovrà morire fra poche settimane[…] Invitiamo Firenze a scriverci per intervenire in nome della sua tradizione civile: gli amministratori […] gli studenti […] e anche gli altri; il movimento per la vita […] i radicali[…]; chiunque voglia, per Natale, in uno slancio di altruismo, farsi il regalo della vita di Paula>>.
Giorgio, al telefono, mi proponeva di scrivere anche noi una lettera al governatore Orr. Dissi che era una buona idea e che bisognava studiare bene il testo. Decidemmo che ci saremmo risentiti più tardi, in giornata.
Riattaccata la cornetta mi misi a pensare alla questione: che glie ne interessava al governatore Orr se gli arrivavano alcune lettere dall’Italia? Niente! Tempo sprecato, o quasi. Meglio provare a pensare a qualcosa di più forte. Ma che cosa?

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Pubblicato il 25 May, 2011
Categoria: Testi, Testimonianze

Ritratti dal Senegal- Massimo Golfieri





http://vimeo.com/24120995


Massimo Golfieri


da Dakar alla Bassa Casamance…
“L’Africa non ha bisogno di sostegno progettuale o di ingerenze umanitarie che prolunghino la sua agonia, permettendole esclusivamente di sopravvivere. Per aiutare l’Africa non è necessario essere animati da un sentimento altruistico che spinge a dare incondizionatamente, ma sempre con il rischio di affermare la nostra pretesa superiorità. Si tratta piuttosto di portare avanti un’azione di sensibilizzazione al Nord che ci permetta di cambiare i nostri modelli di vita, le cui ricadute al Sud sono devastanti. Solo autolimitando le nostre società opulente e riorientando radicalmente i nostri stili di vita in Europa, possiamo sostenere l’Africa. Invece di esportare il nostro immaginario materialistico economicistico e tecnicistico, occorre cominciare a decolonizzarlo, elaborando nuovi parametri di ricchezza e riconoscendo le altre priorità dell’umano. Per questo l’Africa non ha bisogno della nostra sollecitudine interessata ma piuttosto di fiducia, di dignità e di riconoscimento. D’altronde, se si vuole aiutare qualcuno bisogna cominciare con l’avere qualcosa da chiedergli e non solo qualcosa da offrirgli. Solo chiedendo all’Africa di aiutarci a risolvere i nostri problemi dimostriamo di riconoscerla davvero come partner.”
(tratto da un testo di Sergio Pasini)

Pubblicato il 25 May, 2011
Categoria: Notizie, Video

Shabbetày Tzevì, etichettato cosidetto “bipolare” – Eugen Galasso


Shabbetày Tzevì, fondatore del sabbatianesimo, che riprende in modo originale la Qabbalà, che è già un movimento “gnostico” (esoterico ed “altro” rispetto all'”ortodossia” che però propriamente non si dà, nell’ebraismo), Ebreo di Smirne (vi nasce nel 1626, i suoi genitori forse provenivano dalla Grecia), proponeva a sé e ai suoi seguaci digiuni, immersioni rituali nell’acqua anche in inverno inoltrato, dopo qualche incertezza si propone come il nuovo Messia, non senza incontrare vivaci resistenze e anche pesanti boicottaggi da parte di autorità civili(islamiche), come anche da parte della sinagoga. “Eccentrico” nei comportamenti(ma anche qui andrebbe detto che la cultura, occidentale e nonorientale-turcomanna, nella fattispecie di Costantinopoli etc., prescrive norme che vanno rispettate e anche nel presunto “libertarismo” degli anni Duemila un’imposizione di norme e comportamenti si dà, escludendo chi non si “conforma” e non acconsente). Sposato varie volte senza aver “consumato” il matrimonio, in varie occasioni, al suo terzo matrimonio Shabbetày sposa Sarah, ragazza passata attraverso differenti esperienze di vita e di fede (un tempo, segnatamente nel 1600 vita e fede tendevano ad identificarsi o quasi), quasi una sorta di evocazione di Elena, sposa di Simone, uno dei grandi esponenti storici esponenti della gnosi, detto Simone Mago dalla chiesa cattolica per condannarlo, ma anche della storia del profeta Osea, che sposa una prostituta “salvandola”. Questo sarà un matrimonio fecondo (cosa importante, in quella fase e condizione in specie nell’ebraismo della diaspora), ma poi Shabbetày lascerà e “riprenderà” Sarah, staccandosene poi, per un quarto matrimonio, invero solo “teorico”(cfr.sopra). Nel frattempo SHabbetày era divenuto apostata, convertendosi all’Islam, dopo esser stato costretto a tale passo con la violenza. Dopo un ulteriore fidanzamento, non pervenuto a matrimonio per la morte della ragazza, Shabbetày si sposa una quinta volta.

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Pubblicato il 24 May, 2011
Categoria: Testi

Incontro-Dibattito con Giuseppe Bucalo, Verona

 

Pubblicato il 24 May, 2011
Categoria: Eventi, Notizie

“ECT” di Paolo di Giosia e vari – Eugen Galasso

In relazione all’intervento precedente, in cui richiamavo le parole di Giorgio Antonucci sulla necessità di parlare di persone, delle loro sofferenze, di reclusi o “ospiti” di istituzioni totali quali cliniche psichiatriche, manicomi criminali (OPG, anzi, pardon, Ospedali Psichiatrici Giudiziari) etc. Ora, consultando non solo il bel volume di Paolo di Giosia, operatore tecnico nell’ Ospedale di Teramo, fotografo, “poeta” (certamente, in senso ampio), “Solitudini“, ma anche solo il volumetto “ECT”, ossia Electro Convulsive Treatment, troviamo proprio questo: corpi e cuori non tanto “messi a nudo” (andrebbe anche bene, fosse fatto nell’accezione baudelairiana), ma martirizzati, vittima di quel sacrificio che René Girard, con tutte le critiche che possiamo rivolgergli, soprattutto in quest’ultima fase, di “maturità estrema”, vede nel bouc emissaire, cioé nel capro espiatorio: in ogni società , dice Girard, i persecutori identificano gli “individui nocivi”, i “cattivi”, i “reprobi”, fino a farne dei capri espiatori. Il problema, semmai, è nel fatto che Girard vede gli “agnelli sacrificali” quasi esclusivamente nell’ “agnus Dei”, nell’ “agnello di Dio” e nei suoi seguaci, senza considerare , per es., che un grande drammaturgo e poeta cattolico quali Giovanni Testori identifica tale “agnello sacrificale” anche nell’omosessuale, drogato, malato di AIDS (in “In exitu”, per es, testo teatrale ormai non più rappresentato, in quanto non “commerciale”, ma senz’altro leggibile, anche perché Testori scrive benissimo anche per la pagina, non solo per la scena), ma suggestioni simili le troviamo anche in Pier Paolo Pasolini, “ateo” e “materialista storico” (forse sedicente tale). Cioè: per essere agnelli sacrificali non occorre essere nella “sequela Christi”, basta essere scomodi, per i motivi più vari, ai poteri dominanti in una certa epoca. Lo saranno rasta, neo-e post- hippies, harekrishna, come lo erano e sono omosessuali, dissidenti politici (di ogni orientamento), “pazienti” (perché poi, dico ancora con Giorgio Antonucci, continuano ad esserlo?), negri, Ebrei, non-cristiani o cristiani, sinti,  rom, ma anche semplicemente chi “non si rassegna a portar le catene” (“Il fannullone”, antica canzone di Fabrizio De André, testo di Paolo Villaggio). La donna sola dell’ex-manicomio del volume e del volumetto di Paolo, realizzato con tanti collaboratori, tutti giustamente elencati, da Alessandra Lisciani a Vito Bianchini, a tanti altri/tante altre. Da vedere, guardare, leggere, per “compatire” (da “cum-pati”, soffrire ma anche “sentire” insieme con), un sentimento tra i più nobili, che io credo profondamente essere presente, in forme diverse, anche in tante specie animali (ma siamo “animali” anche noi, attenzione!), certo in maniera diversa. Lo si evince da molti studi recenti, in specie made in USA, ma anche da quel “rudere politico” che critico ma ammiro, Petr Kropotkin, che era anche uno straordinario naturalista.

Eugen Galasso

Pubblicato il 22 May, 2011
Categoria: Testi

Testimonianza di Eleftherio Tzirarkas sul lavoro di Giorgio Antonucci al manicomio di S.Lazzaro

“Eleftherio Tzirarkas
Un saluto affettuoso,rispetto ed ammirazione, da una persona che dal lontano 1970 ricorda il tuo lavoro, la tua lotta presso le comunita’ montane (Reggio Emilia-Ramiseto-Castelnuovo Monti ) ove si sono organizzate mobilitazioni e manifestazioni per la chiusura dei manicomi e per il riconoscimento dei diritti civili per le persone affette da disturbi mentali. Personalmente e’ stata un’ esperienza sconvolgente, ed ammiro la tua abnegazione e dedizione in questa causa che ancora oggi ha bisogno di persone come te, perche’ la strada da percorrere e’ ancora lunga.”


La testimonianza scritta nella pagina pubbica del dott Giorgio Antonucci, sulla piattaforma sociale FACEBOOK il giorno 19 maggio 2011, si riferisce ai fatti raccontati nel libro del dottor Giorgio Antonucci: “I pregiudizi e la conoscenza critica alla psichiatria” ed Coop. Apache, 1986, capitolo 8 “Le calate, visite popolari al manicomio di S. Lazzaro”, e-book http://www.spunk.org/library/health/sp001619/.

foto:

Le visite popolari al manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia

http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2008/12/02/le-calate-al-san-lazzaro-di-reggio-emilia/

Pubblicato il 21 May, 2011
Categoria: Notizie, Testimonianze

“Solitudini” di Paolo di Giosia – Eugen Galasso

In questo bel volume “Solitudini” di Paolo di Giosia, troviamo, con i testi importanti del compianto filosofo dell’educazione Antonio Valleriani e di altri, una documentazione ricca su come ci sia emarginazione, anzi meglio, di come l’emarginazione venga creata. Concezione dicotomica del mondo, nata con e da (almeno, personalmente credo anche da prima) Parmenide e Platone, con il mito cui tutti/e (compreso chi scrive, ma oggi con riserve) indugiamo di “Hellàs”, della filosofia greca dove “il pensiero vede finalmente terra” (G.W.F.Hegel), dove c’è la “ragione” e la “sragione”, la verità e la sua negazione e…tertium non datur. Concezione poi confermata da Descartes, Kant, da Hegel, che pure ci pone di fronte alla complessità, da una concezione miope ed escludente del marxismo (di cui Marx ed Engels non furono in alcun modo né colpevoli né correi), dalla grande parte del pensiero dell’Occidente, magari “cristiano” (definizione coniata da Novalis, poeta romantica che ingenuamente rincorreva il Medioevo, poi statuito in ogni fascismo, in quello spagnolo “In nome dell’Occidente cristiano fucilateli”, in quello greco dei colonnelli e di Pattakòs, in quello cileno di Pinochet o salvadoregno di D’Aubisson, in quello in salsa argentina di Viola e Videla, nella superiorità del WASP (White Anglo- Saxon Protestant) à la Ku-Kux-Clan, nel razzismo di Piek Botha in Sudafrica etc.. Ma anche nel razionalismo “democratico”, “tollerante” (aggettivo che già dovrebbe far riflettere, infuriare chi lo legge!) le sacche di “emarginazione” vanno represse, se c’è bisogno, anche “a ferro e fuoco”…  Idem con tanti altri, tante altre manifestazioni orribili, dove il “matto”, l’ “extracomunitario”, il “deviante”, chi parla altre lingue o ha altre culture (in accezione antropologica, cioè usi, costumi, abitudini, modi di pensare) viene ripreso/represso/disperso, “emarginato” e…scegliete voi quale termine sia più adatto, a seconda delle situazioni e dei contesti.  “Follia”,  dunque, miseria, diversità, da vedere in queste foto e da leggere in questi testi, dove, con riferimenti a Ricoeur, a Lévinas, a Maria Zambrano, a Galimberti (filosofo e psicoanalista, sia detto inter cetera), a Cambi etc., si documenta e si riflette sul “Monde comment ça va”,  come diceva Franòois Marie Arouet, id est Voltaire e cioè, per dirla solo con un avverbio: “male”, finché il rispetto non la vincerà sulla pelosa “tolleranza”, la giustizia sociale non avrà la meglio sulla pelosa “carità”etc.

Eugen Galasso

Pubblicato il 20 May, 2011
Categoria: Libri, Testi

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo