La Promessa di un Mondo Migliore – Giorgio Antonucci


per Senza Confine




“Sono nato da un ventre
per cantare e ripetere
a chi deve ascoltarmi
di miserie, di poveri
e di terra”
da Miguel Hernandez


Il razzismo sistematico è un’invenzione della scienza accademica dell’ottocento, alimentata fortemente dalle presunzioni illuministe, che ponevano il progresso tecnologico e l’espansione imperialistica degli Europei e degli Americani al centro del mondo, e al culmine della storia universale.
Troviamo questa idea guida già nell’ – Enciclopedia – di Diderot.
Non si deve dimenticare che la nuova cultura si fa avanti a colpi di ghigliottina e di massacri militari.
E’ una nuova forma di fanatismo.
La sopraffazione organizzata viene teorizzata come trionfo dello spirito e come affermazione della civiltà dei più giusti.
Poeti e musicisti inneggiano alla gloria della armi.
Hegel identifica il potere dello Stato con lo spirito universale.
Napoleone Buonaparte è il modello dell’uomo riuscito.
Pure i teorici della rivoluzione adorano la forza e l’autorità.
Il razzismo è uno dei figli della storia del potere.
E’ stato coltivato anche da molti socialisti e non ne sono estranei artisti di prim’ordine come Dostoievskij e Wagner.
Il popolo che aspira al dominio deve sentirsi il migliore.
E’ il popolo che salva il mondo, con la religione, con la politica, con l’arte, con la conoscenza scientifica, con la gloria e l’antichità delle sue origini.
Così accanto al razzismo genetico dei medici e dei biologi nasce il razzismo culturale degli storici e dei linguisti, e il razzismo mistico degli psicologi, degli antropologi e degli artisti.
I professori universitari in collaborazione tra di loro fabbricano armi di ogni natura e elaborano teorie razziste di tutti i tipi.
Se le risorse sono scarse se le devono scippare i superuomini, se le devono godere gli eletti, se le spartiscono i più riusciti.
Questa è l’etica.
Specialmente in un mondo troppo piccolo e troppo popolato.
Gli altri non c’entrano perché non fanno cultura, sono, come diceva Churchill , insignificanti e trascurabili espressioni geografiche, incapaci di valore storico.
Infatti per Churchill Gandhi era un fastidioso piccolo avvocato mentre Mussolini era uno degli uomini più intelligenti del secolo, e Stalin un uomo di profonda saggezza.
Ora però, siccome non fa immagine e non è di moda e non sembra fine, nessuno si dichiara razzista così su due piedi.
L’immagine di Auschwitz è uno spot che non giova.
Allora sono tutti aperti al mondo e nemici del provincialismo.
Anche i missini e quelli della Lega.
Ma i più illuminati storcono il naso.
Salvo incitare i naziskin a bruciare i turchi o a picchiare i neri, o invitano il sindaco di Milano a espellere gli stranieri non legalizzati o non ancora riconosciuti che sono la maggior parte, o a chiamare la polizia per arrestare il barbone che dorme sulla panchina.
O a rimpiangere i casini con le donne schedate o i manicomi con i cittadini internati squalificati e privi di diritti civili.
O a chiedere la condanna a morte ogni volta che capita.
O a proporre, come a Firenze, l’affidamento dei bambini zingari a famiglie borghesi perbene, magari di fede fascista.
O a fermare una bambina straniera che affoga mentre chiede soccorso dichiarando che non ha diritti perché clandestina.
Quello che voglio dire è che il razzismo non è un fenomeno marginale né un frutto di ignoranti e di analfabeti, ma va cercato proprio dentro la cultura, nel nostro Pantheon, tra i cervelli più preparati.
E quando si parla di nazismo conviene partire da Martin Heidegger e da altri professori come lui, espressioni rivedute e corrette di Socrate ateniese, maestro dei giovani.
Dobbiamo leggere – I Diari – di Anna Frank insieme ai suoi discorsi politici universitari a favore di Hitler.
Invece di rifarsela sempre e solamente con i fanatici ingenui, per nascondere la propria complicità, secondo l’ipocrisia e la malafede dei farisei.
Probabilmente deve ancora nascere una scienza dell’uomo che sia anche rispetto della libertà.


Firenze 6 settembre 1993

Pubblicato il 14 July, 2015
Categoria: Testi

Libertà di scelta, fulcro di ogni… medicina – conversazione con Giorgio Antonucci


Conversazione con Giorgio Antonucci
‘I Gazetin, maggio-giugno 2015-07-04



Paul Klee

Riprendiamo il filo… Tempo fa un gruppetto di amici decide di andare a Firenze per incontrare il Dr. Giorgio Antonucci, intrattenendo con lui una conversazione ‘a ruota libera’, come si suol dire. Il giornale già ne ha riportato stralci, in due parti ( G. Antonucci, “L’importanza di Dante“, giugno-luglio 2014 e “Si fa presto a dire follia“, novembre 2014) e, prima che cessi la pubblicazione non intende mancare di proporne la conclusione. Qui di seguito trovate la terza puntata – incentrata su libertà di scelta, aiuto e auto-aiuto – mentre nella prossima edizione troverete l’ultima, che si soffermerà, sempre in questa formula colloquiale, su figura e ruolo del Dr Antonucci nell’ambito della critica alla psichiatria.


Quand’è che bisogna iniziare ad aiutare? Cioè, una persona che si trova completamente focalizzata su una piccola porzione della sua coscienza potrebbe dimenticare di mangiare, di pulirsi, non riuscire più a dormire…

Primo punto: se una persona ha bisogno di aiuto lo chiede lei e non deve esservi costretta. Il nocciolo della psichiatria, da cui nascono i manicomi, è il fatto di obbligare una persona a sottoporsi a dei trattamenti. Ma poi io non capisco, ci sono tanti modi di vivere. C’è chi sceglie, o si trova nella condizione di scegliere di trascurarsi, di mangiar poco; c’è chi sceglie di mangiar troppo. Ci sono tante possibilità, ma non c’entra nulla la malattia mentale. Se uno vuole aiuto lo chiede, e allora uno che ha l’insonnia può andare da un medico e chiedergli qualcosa che serva per dormire. Questo non è psichiatria e non c’ una malattia di mente da curare.


Ok, ma possono rompersi una gamba, o la testa…

Eh bé, me la sono rotta anch’io: bisogna che vada dal chirurgo, se no muoio; ma non c’entra nulla la psichiatria. La psichiatria è un giudizio sul comportamento. La neurologia, le malattie del cervello del cervello sono come le malattie delle gambe. Non a caso si chiama il neurologo, non lo psichiatra. Il neurologo si occupa delle malattie del cervello e se io ho un’emorragia alla testa, come m’è capitato, si vede l’emorragia, con la TAC; ma se io invece decido di fare l’eremita e qualcuno dice che non mi funziona la testa, questo è un arbitrio.

Uso di nuovo la parola schizofrenia, perché nel corso degli anni ’50 c’è stato l’avvio di una terapia utilizzata per una categoria di schizofrenia.


Susa, ma schizofrenia non corrisponde niente in testa. Io avevo un’emorragia, e questo è un disturbo neurologico, un altro ha l’Alzaheimer e le cellule del cervello sono in distruziione, queste sono malattie del cervello, e nessuno mette in discussione le malattie del cervello. Quello che si mette in discussione è la psichiatria.

E la psicosi? Il fatto che non c’è più nessun controllo sui neurotrasmettitori…


Psicosi non vuol dir nulla. Psicosi è un termine inventato dai tedeschi che vorrebbe dire degenerazione della psiche. La psiche non è un organo e non degenera, per cui non vuol dire niente. Ma comunque è così semplice! Io sono un medico, perbacco! Lo so che ci son le malattie del cervello, ma che c’entrano le malattie del cervello con l’omosessualità? Che c’entrano le malattie del cervello con l’isterismo della donna che soffre, perché ha una vita sessuale sbagliata? Questo non lo dico io , lo ha detto Charcot, all’inizio del secolo. Quando Freud è andato a Parigi per studiare con Charcot, il più grande neurologo d’Europa, Charcot aveva cinquemila donne ricoverate in manicomio ed era anche professore alla Sorbona in anatomia patologica. Prendeva queste donne dal manicomio e le portava lì, davanti ai suoi studenti, e diceva, siccome era fine: “Probabilmente hanno dei disturbi nei nervi”. Poi a Freud, che era uno dei suoi allievi prediletti, e agli altri che andavano con lui all’osteria o a casa sua a discutere, diceva che non hanno nulla i nervi, il problema è la repressione sessuale. Freud ha fondato la psicanalisi su questo fatto e, all’inizio del ‘900, ha detto che non è una malattia. Noi non abbiamo fatto altro che riprendere il suo discorso, la malattia è una lesione biologica, ma essere omosessuale non è una lesione biologia; essere religiosi fino a vedere gli angeli non è una lesione biologica, per cui questi sono comportamenti e pensieri. I comportamenti e i pensieri non c’entrano nulla con la malattia. La malattia è un fatto biologico che si vede. Se io ho un tumore al fegato, si vede. Si osservano le cellule e si vede che c’è il tumore, se ho un tumore alla testa si vede, se ho una meningite si vede, se ho l’epilessia si vede, ma essere in un modo invece che in un altro è una questione morale. Ai tempi di Freud dicevano che le donne che fanno all’amore con molti uomini sono malate. Malattia mentale è come dire malattia dell’anima. O c’è una malattia del cervello o non c’è nulla. Ma la malattia mentale non vuol dire nulla, è una metafora, perché la mente non è un organo.



Io abito in Spagna. In Spagna c’è una Società Spagnola di Psichiatria e una Società di Psichiatria Biologica. La mia domanda è: dato che esistono la psichiatria e la neurologia, qual è lo spazio attribuito a qualcosa che si chiama Psichiatria Organicista? Se non c’è malattia della mente, la psichiatria può essere considerata parte della medicina?


No. La medicina si occupa delle malattie degli organi, delle malattie reali. La malattia è un processo biologico che prende le cellule del cervello, del fegato, dei muscoli, delle ossa, quello che volete, della milza, del sangue, che si modificano, e se il processo va avanti senza essere fermato porta a un progressivo squilibrio dell’organismo e alla morte. Oppure porta alla guarigione se si ferma questo processo biologico. La psichiatria biologica è una bischerata, lo dico alla fiorentina, nel senso che non c’è niente di biologico nell’essere eterosessuali, omosessuali, poligami, o monogami. Ma vi rendete conto che in America hanno detto che sono malati di mente i neri che scappavano dai campi per non fare più gli schiavi? Allora, i comportamenti non sono sani o malati.

Ancora due domande. Che cosa hai fatto durante questi anni come dottore? E che ruolo dobbiamo avere noi come volontari ex-utenti, nella nostra organizzazione di utenti della psichiatria?


Io ho incominciato a fare il medico in un ospedale e il medico condotto, cioè il medico generale. Poi dopo anche a Imola, in un grande manicomio, facevo il medico perché, a prescindere da fatto che le persone erano rinchiuse lì per i loro problemi di pensiero, avevano i reumatismi, il fegato che non funzionava, poi tanti guai perché erano stati rinchiusi e immobilizzati per anni interi. Per cui ho fatto il medico e come medico so distinguere una malattia quando c’è o quando non c’è. Ho curato le malattie di tutti gli organi, come fa un medico. Ho fatto il medico anche durante il terremoto, in Irpinia e in Sicilia, o anche in condizione di emergenza. Questo per dire della mia esperienza di medico. Per la seconda domanda, prima di tutto: voi siete utenti perché qualcuno vi ha fatto una diagnosi psichiatrica, se no che utenti siete?


Io sono scappato via dalla psichiatria, ho dovuto farlo da solo, ma sapevo che avevo bisogno di aiuto. Sono scappato via perché loro, i dottori, avevano un’idea su cui non ero d’accordo. Potevo scappare, intendo legalmente, e infatti ho attuato un modo mio per guarire. Penso però che qualcuno possa aver bisogno di aiuto in certi momenti.

Sì, sì, in ogni modo il problema è questo; infatti il nocciolo del mio discorso è: non accetto che le persone siano obbligate. Perché se io ho u tumore alla prostata che mi porta al cimitero in una settimana e il medico mi dice che va operato e io gli dico che non mi opero e muoio, sono libero di farlo. Tutto il mio lavoro è stato contro: nei manicomi per tirar fuori quelli che vi erano stati obbligati; fuori per evitare che vi fossero obbligati. Per cui, poi, il problema dell’aiuto mi interessa secondariamente. Io ho le mie idee, ma se uno vuole andare dallo psichiatra volontariamente, non ho niente in contrario. Il punto è che lo psichiatra non debba avere il potere di obbligare.


Qual è il ruolo delle organizzazioni degli utenti?

E’ difendere la loro libertà di scelta. Ognuno ha il diritto di chiedere aiuto a chi gli pare. La domanda è se si è obbligati ad andare da qualcuno. Cioè il mio problema è la libertà: deve essere la persona a scegliere dove andare e anche che cosa fare. Eventualmente lo psicanalista o il medico danno consigli, non direttive.


Questo è chiaro per me, infatti ho l’impressione che la depressione, per esempio, così come il trauma, non siano veramente biologici.

Se noi due parliamo è un fatto biologico: siamo due esseri viventi; le scimmie parlano tra di loro, questi sono fatti biologici; non siamo mica anime. Il problema è che si dice “patologico” solo quando c’è un processo patologico nell’organismo. Punto e basta.


La depressione è o non è una malattia, allora?

La depressione non è una malattia, perché non c’è niente di biologico; è una condizione umana. Uno può essere felice o infelice, sentirsi entusiasta o non avere più voglia di vivere.
Di solito l’unica risposta che gli viene offerta è quella psichiatrica.
Una risposta che poi non serve a niente. Tu puoi anche scegliere la pastiglietta, ma non ti aiuta a risolvere il problema. Per capire che cosa significa bisogna ragionarci sopra insieme, non che io dico:; quello lì è depresso, va curato. Si ragiona insieme per vedere cosa ci rende meno tristi. Se a una persona gli si nega la scelta, la libertà, altro che depressione!


Infine lo stigma… Come evitare lo stigma sociale?


Lo stigma deriva dal fatto che se si prende una persona con la forza e la si costringe ai trattamenti, si comunica agli altri che questa persona non è capace di decidere da sé. E’ questo lo stigma. Perche se tu dici: “sono depresso”, posso dirti: “lo sono anch’io; vediamo un po’ cosa si può fare per uscire dai guai, per essere meno tormentati; alla pari, eccetera”. Ma se io penso che devo decidere per te e ti squalifico davanti a tutti, questo è lo stigma. Lo stigma è che quella persona, e questo è ufficiale, viene presa con la forza, dunque non è capace di decidere da sola, non è più un cittadino.


http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2015/08/12/il-ruolo-misconosciuto-di-antonucci/

Pubblicato il 5 July, 2015
Categoria: Testi

Lettera da un istituto psichiatrico – Giorgio Antonucci –

“Pablo Picasso”


I miei giorni sono passati via più leggermente che la spola del tessitore e sono venuti meno senza speranza.
Dal libro di Giobbe


Il ghetto di Dachau era più pulito, all’esterno aveva un aspetto perfino piacevole a vedersi, poteva sembrare una serra dove si coltivano i fiori più rari che vengono da paesi lontani, certamente non stonava tra i boschi profondi di quell’antica regione della Germania: si trattava di una criminalità di stato amministrata con responsabilità e con discrezione secondo i criteri aziendali più moderni.
A Dachau le vittime sparivano in silenzio, “il cammino della storia ha bisogno di uomini donne e bambini che rinunciano”, ma tutto ciò deve avvenire senza clamore: i dirigenti lavoratori dell’ordine nuovo, gli uomini sani onesti buoni fedeli devono procedere sicuri, senza nessun turbamento.
Ma la mia storia non finisce a Dachau: fui liberato dopo dieci anni di detenzione, ero un prigioniero politico con una condanna a scadenza: nel ’43 il conflitto era nel momento più critico e più violento, la Germania di Hitler cominciava a prevedere la sua fine.
Io ormai non avevo più nessuno, a trentatré anni mi trovavo completamente solo in un mondo che secondo me, in mezzo alle sue disgustose violenze e ai suoi avvenimenti insensati, non aveva nessuna prospettiva, nessun futuro.
Non parlo della Germania di Hitler, né dei disastri e delle ingiustizie della mia vita personale, piuttosto queste esperienze disperate mi avevano convinto che quello era soltanto l’inizio di un mondo che avrebbe fatto dell’eccidio e della discriminazione la sua caratteristica più rilevante, anzi la sua regola e il suo significato, se di significato si può parlare–questo dunque era quel “mondo dei fini”, di cui mi aveva parlato mio padre, studioso di Kant, prima che l’uccidessero mediante impiccagione perché politicamente sospetto.
Anzi, i miei primi anni erano stati felici in un ambiente culturale effimero (e ora mi rendo conto falso) ma apparentemente ricco di valori, tra la solida saggezza di Goethe e la profondità riflessiva delle Cantate chiarissime e belle (anche se un po’ misteriose) di Giovanni Sebastiano Bach, quasi il nume tutelare della nostra famiglia, come di molte famiglie di ingenui e forse un po’ ipocriti piccoli borghesi della Germania.
Non vale trastullarsi con la grandezza dei poeti e con la dialettica dei filosofi quando il crimine e il sopruso continuano a essere padroni del mondo.

Ma tornando alla mia storia più recente, quando uscii da Dachau fui mandato nelle truppe di punta operanti in Italia come soldato specialista, nel pericoloso settore dei guastatori. Ne ero quasi contento, speravo di morire, speravo di essere annullato, non volevo niente, ma quello che volevo meno di tutto era il ritorno a casa, non avevo paura delle mine, né dei mitra, né delle esecuzioni sommarie, né dei carri armati che passavano diritti sulla carne viva dei miei compagni di violenza e di morte, quello che più mi faceva paura, quello che trovavo insopportabile, quello che trovavo intollerabile e disgustoso era il ritorno, il ritorno a quella che sarebbe stata ipocritamente definita una nuova vita normale. Ma nonostante le azioni più audaci, nonostante i momenti più pericolosi (molti come me facevano di tutto per essere uccisi), nonostante il furore che avevo dentro di me per dileguarmi e sparire, nonostante tutto ti dico caddi prigioniero e la mia vita fu salva: e quanti ne ho visti che volevano vivere e cadevano subito alla prima azione nei modi più assurdi e ridicoli, magari sparati alle spalle per errore dai loro compagni di squadra o uccisi da un tiro corto della nostra artiglieria!
Ma queste sono inezie, t’assicuro sono inezie nella vita d’un uomo!
L’essenziale è da un’altra parte, magari nelle pagine ingiallite di un trattato di filosofia, di un libro di Hegel gelosamente custodito in una preziosa biblioteca di Heidelberg!

Ho cominciato col dirti che il ghetto di Dachau era più pulito e se vuoi era anche più logico, più pulito e più logico dell’insensato cortile di cemento dove sono ormai segregato e dimenticato da più di vent’anni.
Qui nessuno dei miei compagni parla se non da solo, qui molti si salvano seguendo le vie innumerevoli e meravigliose dell’immaginazione (i nostri guardiani ci chiamano deliranti), qui chi non crea continuamente mondi immaginari come i poeti più fantasiosi, prima o dopo cerca di sfuggire ai guardiani per raggiungere i binari della ferrovia, per spezzettarsi sotto il treno, unica via di scampo.
A Dachau era possibile uccidersi o farsi ammazzare, qui riesce di rado.
Qui non sei più nessuno, qui non puoi decidere più nulla. Qui dentro nella tua ultima ricerca disperata di un significato sia pure illusorio della tua indescrivibile condizione umana sei considerato senza cervello e ti sorvegliano di continuo anche al gabinetto, e se parli ridono e ti sputano addosso con un disprezzo e con una ottusità che anche noi che abbiamo provato tutto stentiamo a sopportare.
Purtroppo durante la prigionia in un campo americano nelle vicinanze di Napoli, io avevo tentato di sparire, ma il colpo di pistola di cui mi ero servito mi attraversò la bocca e il collo senza uccidermi.
Così sono qui dentro e ci resto, ho passato anni interi immobile in cella o in un angolo del cortile, ho ripercorso tutta la mia vita passata, ho udito di nuovo le promesse di felicità di Goethe e di Bach, ho riascoltato la voce chiara e serena di mio padre acceso di entusiasmo per il ragionare pacato e penetrante di Immanuel Kant e degli Illuministi, ho rivissuto sussultando la violenza dei Lager e dei campi di battaglia, ho sognato spesso i boschi profondi e i larghi fiumi della mia terra d’origine, ho parlato e mi sono agitato da solo perché ormai nessuno mi si rivolgeva più se non per insultarmi, ma tutto questo ti assicuro non vale niente, non serve a nessuno, e se mi offrissero di uscire mi rifiuterei, non tornerei per nessuna ragione in un mondo che sopravvive soltanto per nascondersi la sua disumanità e il suo non senso, preferisco restare qui più vero più genuino più autentico perché ormai inchiodato nella mia lucidità e nella mia immutabile disperazione.
Dicono che sono dissociato perché non mi associo più all’ipocrisia del mondo – non vedo il vestito dell’Imperatore anche se non c’è -, dicono che sono un delirio di disastro perché una volta ho gridato che Hitler non era nessuno se non un modesto precursore, dicono che c’è un’ombra inspiegabile che d’improvviso si è impadronita della mia mente.
Sembrano molto compassati e tranquilli – sono i custodi dell’ordine, sono i custodi e i guardiani della verità e della saggezza – ma diventano feroci e spaventosamente agitati ogni volta che qualcuno di noi tenta ancora di dire qualcosa, di parlare, di spiegarsi, di mescolarsi con loro.
Una volta sono stato in camicia di forza per un mese di seguito, non me la toglievano neanche per i pasti, e mangiavo per terra acchiappando il cibo con la bocca e strisciando nel cortile come una biscia–e tutto questo perché avevo avuto l’imprudenza di dire a una suora sorvegliante che la croce di Cristo è una truffa e che gli Apostoli forse avevano capito che la morte di Gesù non era servita a niente.
Ricordi Federico Nietzsche, ricordi gli Apostoli che si domandano davanti al corpo torturato e ucciso del Maestro `’Chi era costui? Che cos’era costui? Cosa voleva?”.
Forse te ne ricordi, forse no. Ma non importa. Piuttosto sai dirmi tu che cos’è questa saggezza che per sopravvivere ha bisogno di asservire o di uccidere milioni di persone? Piuttosto sai dare una risposta a questa vita normale che ha attraversato Auschwitz e Treblinka, e che è passata su Stalingrado, su Dresda, su Hiroshima, su Nagasaki?
Non ascoltare le mie domande, dimenticami, dimenticami, dimenticami presto e continua a seguire la via della saggezza, ch’è più sicura, che è più serena, forse è falsa come dico io, forse mi sbaglio, ma sicuramente in quella direzione potrai illuderti di vivere, magari di una vita artificiale, magari di un’esistenza finta come quella dei burattini che saltano sotto i fili nei piccoli teatri di periferia delle grandi e delle piccole città di quel mondo che io ho rifiutato e che per non mettersi in discussione mi ha confinato dietro le mura gialle sporche e assolate di questo squallido istituto di pena 47.


Note: 47) Pubblicato in: IL PONTE n.12 dicembre 1970
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Brano tratto da “I PREGIUDIZI E LA CONOSCENZA CRITICA ALLA PSICHIATRIA” di Giorgio Antonucci, ed Apache

Pubblicato il 12 May, 2015
Categoria: Testi

L’ infinito – Giorgio Antonucci



Pubblicato su “Senza confine”, 1992





Dire 1000 anni luce per un matematico è come dire un chilo di pane.
L’ astrazione è la stessa e anche il processo mentale. Ma se invece uno pensa in termini che una volta si sarebbero detti di filosofia naturale, o se uno corre con la fantasia o naviga con l’immaginazione, allora arriva la vertigine, quella che afferrava Pascal e Leopardi, o che preoccupava Cartesio e Spinoza.
Allora girano nella testa ‘le fughe’ di Bach.
Ora dicono che a 1300 anni luce vi sono altri pianeti che ruotano intorno a una stella lontana, che pulsa negli spazi.
E io corro col pensiero e trovo la solitudine, e mi perdo.
Eppure la solitudine più grande è l’odio tra gli uomini, con la nostra ferocia di assassini, con il nostro fanatismo di ottusi, paurosi di ogni novità e chiusi alla luce come sepolcri.
Assistiamo all’esecuzione di un uomo che brucia sulla gratella come una bistecca, o al bombardamento di una metropoli che invoca soccorso dal cielo come Gerusalemme nei giorni di rovina, e torniamo a parlare di affari, di realismo politico, e di ordine costituito, come custode della nostra tranquillità di privilegiati, soddisfatti di vivere sulla morte degli altri.
Tra le persone da me liberate dalle celle psichiatriche a Imola ricordo una donna che, come gli psichiatri volevano, aveva identificato la sua femminilità e i suoi desideri con una forma di alienazione o malattia di mente, e diceva con candore “Io sono schizofrenica perché mi piacciono gli uomini”.
La storia vera è che era stata internata per coprire lo scandalo e salvare l’onorabilità della famiglia dopo essere stata violentata dal padre con la madre silenziosamente complice.
E ormai da anni pensava con la testa degli altri.
Prima del mio arrivo era vissuta in cella per trent’anni di continuo.
Anche ora i ricoveri nei ‘Centri di diagnosi e cura’ nascondono storie come questa, o altre storie di moralismo, che una volta erano nascoste dai roghi delle streghe.
Il fatto è che le società moralistiche non possono sopravvivere senza ipocrisia, e l’ipocrisia ha bisogno di vittime come capri espiatori.
In una visita di un mese fa a ‘Santa Maria della Pietà’ a Roma, insieme al presidente del Centro di ecologia umana della Lega Ambiente, Alessio Coppola, ho veduto nel grande recinto del vecchio manicomio della capitale persone abbandonate o sorvegliate, terrorizzate o legate ai letti, seguite a vista o rinchiuse, dopo più di dieci anni da una legge che pretendeva di dare il via e aprire la strada al superamento dei manicomi.
Dopo siamo andati a trovare in una borgata della periferia un giovane di ventidue anni mutilato a una gamba per essere rimasto immobilizzato in un letto di contenzione che ha preso fuoco.
La sua storia psichiatrica era cominciata a diciassette anni con la tristezza naturale e fisiologica di una delusione d’amore.
Così mi ha raccontato lui stesso e mi hanno confermato i genitori.
Nella malinconia delle metropoli, tra uomini opulenti e disoccupazione, non solo non è ammessa la rivolta, ma è vietata ogni forma di sensibilità, perché tutto funzioni a perfezione.
Intanto i legislatori puntano su nuove forme di controllo e i farmacologi su nuove sostanze per paralizzare il cervello, e il desiderio di libertà è considerato pericolosa utopia.
Scriveva Daniil Charms (morto in un ospedale psichiatrico nel 1942 per mano di Stalin): ‘Komorov e l’artista Michel Angelo si siedono sull’erba, e se ne stanno seduti sull’erba come dei funghi. Si tengono per mano e guardano il cielo. In cielo intanto prende forma un enorme cucchiaio. Cos’è mai? Nessuno lo sa. La gente corre a chiudersi in casa. Chiudono porte e finestre. Ma può forse servire a qualcosa? Macchè! Non serve a niente”.


Vedo una terra
dietro la luna

che risplende
in un sogno di gioia.


Giorgio Antonucci, Firenze, febbraio 1992

Pubblicato il 14 January, 2015
Categoria: Testi

Antonucci sulla Denuncia per volantinaggio sull’ADHD

Intervento di Giorgio Antonucci sulla denuncia per un volantinaggio sull\'ADHD
Intervento di Giorgio Antonucci sulla denuncia al Telefono Viola di Bologna per un volantinaggio sui danni della “cura” della pseudomalattia dell’ADHD.

VISIONA IL VIDEO

Pubblicato il 1 July, 2008
Categoria: Video

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo