sono nata sotto un sole nero (Giulia) – Giorgio Antonucci – Poesie ( III parte)
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I guardiani del campo
Io volevo ammazzarmi
e me l’hanno impedito
e me l’hanno impedito
Io volevo ammazzarmi
e me l’hanno impedito
e me l’hanno impedito
Senza noi che fareste?
Io volevo morire
e me l’hanno impedito
Senza noi che fareste?
Che fareste?
Mancherebbe il lavoro
ai guardiani del campo.
Mancherebbe il lavoro
ai guardiani del campo
ai guardiani del campo.
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Il sole
diventa rosso
ogni sera
perchè si vergogna
il sole
diventa
rosso
ogni sera
perchè si vergogna
perchè si vergogna
di aver
fatto
il giro
di aver
fatto
il giro
di questa
nostra
terra
di questa
nostra
terra
schiava
di questa
nostra
terra
che muore
Il sole
diventa
rosso
ogni sera
perchè si vergogna
perchè si vergogna
di avere
fatto
il giro
di questa
nostra
terra
di questa
nostra
terra
schiava
di questa
nostra
terra
che muore
Tra le colline
livide di polvere
tra le vallate
aspre di pietre
io ho
lavorato
ho lavorato molto
poi
quando
avevo
lo sguardo
spento
come
un cavallo
stanco
mi hanno
messo da parte
nella paglia
come
un cavallo
stanco
poi
quando
avevo
lo sguardo
spento
come
un cavallo stanco
mi hanno
messo da parte
nella paglia
come
un cavallo
stanco
Il sole
diventa
rosso
ogni sera
perchè si vergogna
il sole
diventa
rosso
ogni sera
perchè si vergogna
perchè si vergogna
di aver
fatto
il giro
di aver
fatto
il giro
di questa
nostra
terra
di questa
nostra
terra
schiava
di questa
nostra
terra
che muore
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Non conosco la gioia
da quel giorno
Li ho incontrati
Li ho incontrati per caso?
Mi han detto
ti prendiamo con noi
Mi prendete con voi?
ti prendiamo con noi
Non conosco la gioia
da quel giorno.
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Lo so che tutto quello che mi è accaduto
vi è sembrato strano
Ma so anche
che non avete
capito
nulla
Non avete capito nulla e non me ne importa nulla
Vi ho incontrati sulla Neckar e vi ho detto:
non esistono più
i fiumi
Mi avete incontrato sulla Neckar
e volevate sapere
e volevate sapere
e volevate sapere
ma non vi ho risposto
e non vi risponderò
ma non vi ho risposto
e non vi risponderò mai
Mi avete aggredito
e non mi sono difeso
Sapevo anche troppo bene
che sarebbe stato inutile
Mi avete interrogato
e non mi sono difeso
Sapevo anche troppo bene
che sarebbe stato inutile
Mi avete serrato le braccia
e trascinato in Manicomio
e sono venuto senza nemmeno protestare
Non ho protestato
Non ho protestato
Apparentemente
Apparentemente
Mi ero chiuso in me stesso
Mi ero chiuso in me stesso
per sottrarmi
a un’esistenza
divenuta
sempre
più
assurda
Mi avete chiuso in cella
e non mi sono difeso
Sapevo anche troppo bene
che sarebbe stato inutile
Grida pure
vi sarà
qualcuno
che ti risponde?
Grida pure
vi sarà
qualcuno
che ti risponde?
Così diceva
Temanita
Così diceva
Elifaz Temanita
a Giobbe.
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Grande incertezza, inquietudine, senso di
disorientamento.
In sogno corpi che bruciano.
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Vorrei avere la rapidità della luce
per attraversare lo spazio
senza ostacoli
Se la terra avesse la velocità della luce!
Se la luce
Se la luce
Se la luce del sole ci raggiungesse
non saremmo come siamo
sempre disperati
e continuamente feroci
Non saremmo come siamo
sempre feroci
e continuamente disperati
Mi pesano i sassi che ho dentro
mi pesano i sassi che ho dentro
Mi hanno detto – il Sole!
io non conosco il sole
perchè i lupi
la notte
perchè i lupi
la notte
mi spaventano con le loro grida
m’inseguono
mi uccidono
mi divorano
e ridono come nei giorni di festa
Io non capisco
non parlo
non mi muovo
non fuggo
non parlo
non mi muovo
non vedo
aspetto di ritornare
aspetto di ritornare nel sole
per morire
per morire nel fuoco
per morire come sono nato
per morire
per morire come sono nato
per morire nel fuoco bruciando
bruciando
bruciando come i soldati
come i negri
come i soldati
come i negri
come i buddisti
come i bambini
Come i bambini di Londra e di Desdra
come tutti
come tutti nel fuoco
come tutti nelle fiamme di Hiroschima
come tutti nella serenità della morte
Io sono un sasso
sono una torre
sono un uomo di pietra
perchè ho guardato negli occhi
perchè ho guardato negli occhi
perchè ho sputato
perchè ho vomitato
perchè ho battuto la testa nel muro
perchè volevo vivere
e mi sbagliavo
e mi sbagliavo sul serio
e loro lo hanno capito
e mi hanno chiuso qui dentro
e dovrebbero soffocarmi ogni giorno
e dovrebbero soffocarmi
perchè io sono colpevole
colpevole di essere nato
colpevole di vivere
colpevole
colpevole perchè un giorno morirò
e non potrò più gridare
e sarò disperato
senza saperlo.
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Pubblicato il 7 March, 2017
Categoria: Notizie
nata sotto un sole nero (Giulia) – Giorgio Antonucci – Poesie (II parte)
Io non vi capisco
Io non vi capisco
Voi mi avete insultato
Io mi sono difeso
Allora mi avete serrato le braccia
mi avete serrato i piedi
mi avete inchiodato al letto
Poi il dolore
Il dolore
Il dolore dei colpi sulla testa
Il dolore dei pugni nella pancia
Il dolore dell’impotenza e dell’umiliazione
Il dolore
dell’impotenza
e dell’umiliazione
Più volte
mi avete
soffocato
più volte
mi avete
soffocato
Io non vi capisco
Io non vi capisco
Voi continuate
a insultare
a picchiare
a sputare
Voi continuate
a insultare
a picchiare
a sputare
Ora sono muto
e non so più muovermi
Ora sono muto
e non so più muovermi
Voi quando passate
mi spostate col piede
e mi sputate addosso
Voi quando passate
mi spostate col piede
e mi sputate addosso
Io non vi capisco
Io non vi capisco
Lo so che siete feroci
Lo so che siete feroci
Ma non ho capito perché
Lo so che siete feroci
Lo so che siete feroci
Ma non ho capito perché.
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A Ferdinando Faggiani
Ho pensato
Ho pensato
Se ci fossero
Se ci fossero luoghi
Se ci fossero luoghi
dove le persone che vogliono morire
pagano per essere fucilate
Ho spalancato gli occhi
Ho spalancato gli occhi
Avevo questa speranza
Avevo questa speranza
Se ci fossero luoghi
Se ci fossero luoghi
Se ci fossero luoghi
dove le persone
pagano per essere fucilate
non sarei disperato
come sono
non sarei
non sarei
non sarei disperato come sono.
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-Ricordi Barbara
quei giorni
di Montevago
quando eri bella
quando volevi vivere
quando eri libera
quando volevi vivere
quando volevi vivere
Ricordi Barbara
quei giorni
di Montevago?
-La terra è inquieta
Uccidimi ti prego!
La terra è inquieta
la terra è terribile
loro sono finiti
tutti finiti
Uccidimi! Ti prego!
La notte è buia
Il freddo mi fa tremare
e io non posso muovermi
Uccidimi! ti prego!
-Ricordi Barbara
Le sere di Montevago
quando eri bella
quando eri libera
e mi correvi incontro
e mi amavi
con i tuoi occhi di luce?
La luce della luna
La luce della luna
Ricordi Barbara
Come eri viva
Come eri bella?
Ricordi Barbara
le sere di Montevago?
La luce della luna
La luce della luna
-La terra è inquieta
la terra è terribile
tutti che gridavano
sotto le travi
sotto la polvere
Uccidimi! ti prego!
Poi il silenzio
La notte è buia
Il freddo mi fa tremare
E io non posso muovermi
Uccidimi! ti prego!
Poi il silenzio
Poi nessuno.
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Mi rivolgo al sole
come al mio unico amico
per chiedergli di non venire
domattina
a illuminare
me che saltello nel mondo
allegramente
e rido
tra uomini d’acciaio
che tagliano le carni
dei miei fratelli
che per gridare
non hanno più voce.
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A Lionello Mannelli
Mi hanno
mandato
in Russia
a uccidere
uccidere
gelo
del vento
gelo
delle acque
del Don
vetri
rotti
nelle piccole
case
diroccate
vetri
rotti
nelle piccole
case
diroccate
Mi hanno
mandato
in Russia
a uccidere
uccidere
gelo
del vento
vetri
rotti
nelle piccole
case
diroccate
Mi hanno
mandato
in manicomio
a morire
a morire
gelo
del vento
gelo
delle acque
del Don
vetri
rotti
nelle piccole
case
diroccate
Mi hanno
mandato
in manicomio
a morire
L’agonia di un uomo
non è
nulla
Quello
che conta è il regolamento
– Le regole del campo
tagliatemi a pezzi
ma fatelo
con ordine
con metodo
con precisione
Uccideteli tutti
ma fatelo
con ordine
con metodo
con precisione
L’agonia di un uomo
non è
nulla
quello che conta è il regolamento
– Le regole del campo –
Tagliatemi a pezzi
Uccideteli tutti
Tagliatemi a pezzi
Uccideteli tutti
quello che conta è il regolamento
– Le regole del campo –
Tagliatemi
a pezzi!
Uccideteli
tutti!
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Pubblicato il 6 March, 2017
Categoria: Notizie
DOSSIER IMOLA E LEGGE 180
Intervento di Dacia Maraini: https://www.youtube.com/watch?time_continue=335&v=S9HWr7IjKMc
Scritti di
Alberto Bonetti
Giuseppe Favati
Dacia Maraini
Gianni Tadolini
A cura di G. Favati
Idea Book
INDICE
Giuseppe Favati, Dossier. 180 e seguenti – Antonucci: una pratica che disturba 5
Alberto Bonetti, Lettera a Giovanni Berlinguer 19
Delibera degli amministratori dell’Ospedale “S. Maria della Scaletta” 27
Gianni Tadolini, Attenti ai passi indietro 35
Gianni Tadolini, Psichiatria: come volevasi dimostrare 41
Dacia Maraini, Altre grida disperate dal manicomio 45
Documento CGIL, CISL,UIL ospedalieri e Amopi 53
Documento degli amministratori 57
Gianni Tadolini, Dei manicommi. Lettera aperta a Mario Tobino 59
Dacia Maraini, Un’orchestra esegue Mozart all’ex ospedale psichiatrico 65
Dacia Maraini, Imola, festa al Padiglione n. 10 73
Ed è già un anno dalla legge 180 sull’assistenza psichiatrica in Italia, anticipo della riforma e conseguente servizio sanitario nazionale (sic). Anticipo forse stimolato e anzi frettolosamente concesso per paura del referendum abrogativo dei manicomi, ma pur sempre legge che – è stato detto da amici, compagni, generici e primi attori – porta il segno del lavoro di tanti anni, nasce dalla pratica e dalla storia reale degli uomini, storifica lotte e sofferenze. Credo però che nessuno abbia richiamato subito – e oggi a un anno di distanza il riferimento sarà percepibile – il caso costituzione, la legge “suprema” dello stato democratico, che portava – porta – i segni della storia reale, di tanti morti e torture e sangue, parole riecheggianti voci vicine e lontane ( così Piero Calamandrei), e molto prometteva: una costituzione programmatica cui si è opposto una costituzione materiale , il fascio e il fascismo di norme ( e rapporti sociali) tuttora operanti, vigentissime, spolveratissime. Sempre Calamandrei commentava che, nel riflusso del dopoguerra, ci era stata data, appunto con la carta costituzionale, una promessa di mutamento in cambio del mutamento.
Idem con la legge 180. Senza il lavoro di molti uomini e donne, di tanti gruppi rimasti “sconosciuti”, e ai quali non spetta neppure un veloce rimando in nessuna storia, in nessun ripensamento delle esperienze di psichiatria alternativa o non-psichiatriche (anche nel movimento, anche nei vari anti perdura il processo della nominazione, dell’identificazione rassicurante, del protagonismo trasferito e trasferibile in tutti i luoghi deputati all’informazione, video libro di grande editore foglio culturale di sinistra extra), senza quel lavoro la legge 180 non sarebbe mai venuta. Oggi vi è la possibilità di dimensioni diverse, il no al manicomio ha un suo punto di riferimento formale, e da qui può scaturire una maggiore e più dinamica articolazione del nostro fare, da qui può riprendere una carica di esperienze per sfondamenti della realtà segregata e segregante.
La lotta si è fatta più aperta e al tempo stesso più insidiosa. Proprio perché vi è una estensione di scacchiere, uno spostamento di piani, di livelli, un abbassamento e un’alzata di tiro, accompagnati – se mi è consentita questa metafora – da un eccesso di “citazioni”. Intendo dire che il bersaglio istituzionale manicomio sembra affatto scomparso, e che ospedale generale, territorio, ambulatorio, domicilio diventano parole in abbondanza sulla bocca dei potenti, incitano ad asserzioni spericolate, alla “scoperta” di nuovi paradigmi dell’intervento (socio-sanitario) e del comportamento (umano). Questo accumulo di “citazioni” passa ancora sulle teste della gente, stupefatta. Il relatore della 180, l’on. Orsini, afferma, quagliesco, in Tv: “Tutti i malati devono essere curati a casa”. E’ sempre la promessa di mutamento in cambio del mutamento che non si dà e che non si vuole. Infatti l’Orsini difende, offeso, medici e psichiatri allorchè Basaglia brontola, arcigiustamente e fascinosamente, che i medici vogliono conservare il loro potere mentre il corpo è nostro. Se sono mutati o sono divenuti più sofisticati i quadri teorici entro i quali si muove la classe dominante, nell’immagine di mondo trasmessa dall’alto agli strati inferiori nulla è cambiato dalla formalmente sepolta legge 1904, e regolamenti e ritocchi susseguenti. Un assaggio: art. 60 del R.D. 16 agosto 1909, n. 615, ”Regolamento sui manicomi e sugli alienati”: “Nei manicomi debbono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’Istituto. (…) L’uso dei mezzi di coercizione è vietato nella cura in case private”.
A sua volta Basaglia, alla madre angosciata perché non sa dove battere il capo con il figlio “malato di mente”, nessuno ora le dà una mano ( e chi, e come gliela dava prima?) risponde semplicemente e un po’ misteriosamente per la vastissima platea televisiva: “ ora ha una voce suo figlio, ora lei ha una voce”. Parafrasando e correggendo il manicheismo di Hendy: buono, ma soprattutto meno buono. In alcuni manicomi i “malati” avevano conquistato già una voce, il diritto alle assemblee, a criticare l’istituzione, i medici, gli infermieri, ecc. Nell’ospedale generale no, nell’”ospizio” no, negli ambulatori no. Non si ha diritto mai a una parola. Hanno invece diritto loro, di ignorarti, di usarti, di umiliarti in cento e diecimilauno modi. E non è che questo accada con i vecchi e basta. Il potere medico bada all’età: cambiano solo i tipi di umiliazione del vecchio istituzionalizzato o della giovane donna ricoverata (ad es. certi ginecologi sono tra i maggiori maestri di questo genio criminale, troppo spesso direttamente proporzionale ai loro appelli intenti nella camomilla dello spiritualismo, in difesa usque ad mortem del sacro diritto alla vita).
Lo stesso Basaglia definisce efficacemente l’ospedale generale “un grande manicomio di per sé”. E d’altro canto il cosiddetto territorio è interamente da costruire con i suoi “servizi”, con le sue “unità”, funzioni e plessi di funzioni. Cosicchè tutto resterebbe affidato al fatto che “il sociale – sottolinea Basaglia e non solo lui – entra per la prima volta nell’ospedale generale, e quindi vi entra la contraddizione”. Ma, allo stato, nella dimensione interna e nella dimensione esterna, i figli e le madri possono restare provvisoriamente e paradossalmente con minor voce di prima.
Si tratta di provvisorietà in fondo ineliminabili nelle condizioni date. L’argomento – che sembra tagliare la testa a tutti i tori – “prima le strutture poi la legge” – è sostanzialmente fasullo. Per strappare una legge – e la migliore delle leggi non sfuggirà mai alle ambiguità volute – ci vuole fatica e sangue. Per tradurla nei fatti, ci vuole molta più fatica e sangue. Le “strutture” poi devono essere un risultato in continuo divenire, oppure diventano nuove e più sinistre trappole. Insomma, se per l’aborto in Italia, anziché approvare una pur discutibilissima legge, avessimo atteso la disponibilità delle “strutture” (ossia, in primo luogo, i comodi proprio dei ginecologi suddetti) sarebbe scoccato il duemila.
Allora, finalmente, dovrebbe essere agevole l’accordo su uno dei cuori del problema: posto che la legge 180 è assai meglio ci sia che non ci sia, nessuna illusione sulla persistente segregazione istituzionale e sulle spinte e sui rischi della “dilatazione” psichiatrica. L’ospedale accoglie e cura press’a poco come il manicomio. Certo, se il “malato” rifiuta le cure lo si deve mandare a casa, ma il ricovero obbligato “rimane” una misura di polizia; e se il “malato”, dimesso, continua a disturbare un reato almeno di oltraggio non glielo leva nessun santo; e cos’ via. Sullo sfondo il manicomio giudiziario intoccato e intoccabile anche nominalmente.
Ma la tendenza alla “dilatazione” è irreversibile. Non è questione di prendere atto di una tendenza che lo stesso movimento alternativo ha incoraggiato e doveva incoraggiare, nel senso dell’uscita allo scoperto, esponendosi ai colpi di un uso, e di usi più complessi della catalogazione, della schedatura, della manipolazione, della repressione. Il manicomio, edificio fatiscente ma pur sempre in piedi, rischia di moltiplicarsi negli ospedali e nel territorio, metamorfosandosi. Ciò comporta la necessità – pena la disfatta- di coinvolgere non solo il momento psichiatrico con quello sanitario, ma quelli con tutti gli altri nel contesto sociale. Meglio: di “sciogliere” i primi nei secondi.
E’ quest’ultimo un passo che molti contestatori dei criteri nosografici tradizionali e dei meccanismi della violenza, persone ad elevato grado di qualificazione professionale e di riflessione teorica, stentano a compiere o si rifiutano di compiere. “Forse” – avverte Pirella – “costoro finiscono con il rispondere più ai loro bisogni personali di sopravvivenza culturale, di gruppo, di competizione intellettuale, chiudendosi ad ogni verifica sul reale e producendo nuove ideologie di ricambio” (Il corsivo e mio). E ancora: “… certamente gli scritti di Jervis hanno contribuito a favorire questo ritorno di riflessioni separate dai problemi reali e a produrre esercitazioni su ideologie contrapposte e in concorrenza tra loro (ad es. nel recente Normalità e deviazione di Di Leo – Salvini, editore Mazzotta). Non mi sembra tuttavia che possa essere soltanto il problema di un uomo per quanto intelligente e sofisticato esso sia…”: c’è una propensione abbastanza diffusa a lavorare teoricamente senza confrontarsi con “certe esperienze di lotta”.
Viceversa c’è bisogno di pratiche, e ogni pratica ha un suo costo personale elevato cui l’essere nel mondo da intellettuale tradizionale perennemente si sottrae. Non c’è alcun bisogno di ideologie di ricambio, quali la stessa Antipsichiatria, pur suggestiva e meritoria, d’importazione anglosassone. Pirella dice bene che non interessa una conoscenza psichiatrica ulteriore per confermare il ruolo dello psichiatra, del terapeuta decifratore del senso; “noi non dobbiamo essere esperti della follia…”. I problemi delle persone che chiedono una casa, un lavoro, ecc. “non sono uno spazio per la follia (vedi Amati e altri) ma uno spazio per la vita, il diritto di sopravvivere e comunicare, la libertà di rivendicare e, al limite, di lottare. Noi siamo espropriati della libertà di lottare …” Dove si potrà sospettare qualche fraintendimento: ad esempio, è anche questione di spazio per la “follia”, perché mai no? Certo, senza consentire affatto su Follia=Verità, Cammino verso il Centro della Terra (con un rovesciamento “spiritualistico” somigliante a quello di chi pretende di superare “materialisticamente” gli schemi crociani e post assiomatizzando Poesia=Bellezza, Bellezza=Realtà cioè Lotta di classe). Quel punto però è una discriminante assoluta. Il rifiuto, diciamolo chiaro e tondo, dell’intervento sanitario repressivo a piccola verso grande macchia, dunque della medicina gerarchica e manipolatrice, l’adozione di una pluralità di pratiche non-psichiatriche dentro e fuori l’istituzione.
Antonucci: una pratica che disturba
Fra i più tenaci, estremi, e paganti in proprio, sostenitori di questa modalità di essere e rapportarsi al mondo della segregazione vi è Giorgio Antonucci. Già a Cividale del Friuli, poi a Reggio Emilia, quindi a Imola. Dal reparto in ospedale civile affidato a Edelweiss Cotti nel 1968, trascorsi appena sei mesi fu cacciato, lui e i suoi compagni di lavoro, dalla polizia in pieno assetto operativo. E il reparto chiuso. Da Reggio Emilia, Centro di igiene mentale, fu costretto a andarsene non tanto per intervento determinante del “potere” (anche se collezionò denunce, ma tutte archiviate), quanto di “altro” su cui amici stanno portando in concreto la loro riflessione, una riflessione che mi auguro consentirà chiavi di lettura diverse da quelle di recente offerte per le esperienze reggiane post-68.. All’Ospedale psichiatrico “Osservazione” di Imola dove venne chiamato da Cotti, divenutone direttore, nel 1973, il suo lavoro ha richiesto di nuovo quel costo elevato cui accennavo sopra, e che era ed è inevitabile per chiunque si ponga completamente al di fuori della visualità psichiatrica, vecchia o nuovissima o futuribile, dei meccanismi repressivi-espulsivi come delle teoriche autogratificanti.
La scelta di Imola fu in buona misura obbligata, e quindi non scelta, ma Antonucci, da quel provocatore che è sempre stato, chiese il reparto più duro, quello degli “irrecuperabili”, degli “agitati”. Che era il 14, donne. Successivamente vi si aggiunsero i reparti 10 e 17, donne e uomini. Ricominciò la sua sfida all’ambiente, ai codici diffusi, ecc. e anche a se stesso, non solo nel senso della solita contraddizione vissuta e coscienzializzata (un non-psichiatra in manicomio), ma soprattutto per la resistenza fisica duramente messa alla prova come mai prima. Poiché qui non si scrive una biografia, né si confezionano santini o mezzi busti, né d’altra parte si narrano “miracoli” (è termine che ricorre sulla bocca dei gestori della nostra salute irridenti alla categoria del “socio-politico”), basterà accennare al turno di guardia di un medico il quale aveva eliminato tutti i mezzi di contenzione e i massicci psicofarmaci e si ritrovava, per ventiquattr’ore filate, in conflitto insanabile con la situazione di violenza degli altri reparti dell’O.P. Mentre i colleghi medici, a loro volta, in quei turni di guardia dormivano il sonno del giusto. Quanto al personale di cui c’era bisogno, ci hanno pensato tutti i governi e nella fattispecie Stammati con il suo decreto vietante assunzioni, supponiamo in ragione dell’austerità necessaria alla salvezza del paese e comunque della moralità amministrativa. Ma a onor del vero Stammati non avrebbe impedito di affiancare ad Antonucci un altro aiuto medico.
Disgraziatamente, infatti, la pratica di Antonucci dava risultati eccezionali. Non poche testimonianze informazioni al riguardo si ritroveranno qui di seguito, a cominciare della lunga puntuale lettera di Alberto Bonetti a Giovanni Berlinguer, indispensabile per la comprensione di ciò che è cominciato ad accadere ed è infine precipitato a Imola dopo la legge 180.
“In presenza” dei risultati sono venute le insofferenze e le aggressioni morali contro Antonucci. Quel “dottorino” mostrava, con il contributo determinante degli infermieri e delle infermiere, liberatesi anch’essi da un passato di terrore nei confronti dei “pazzi”, che quei poveracci potevano, ma guarda, ancora parlare, comunicare, camminare, perfino gioire; e via via crescevano le irrisioni di corridoio, le denunce, gli articoli, addirittura i manifesti sui muri della città. Il dottor Antonucci era spesso assente per malattia! Informavano responsabilmente dei sindacalisti, che però non pubblicavano nessun volantino, non affiggevano nessun manifesto per chiarire statisticamente quanti secondi dedicavano gli altri psichiatri all’ospedale e quante ore nei propri studi a contatto ben fruttifero con pazienti privati. Il dottor Antonucci aveva aggredito un medico! Il dottor Antonucci aveva maltrattato una infermiera! Anime pie.
Riassumevano i concetti essenziali i sindacalisti della UIL-Uisao, sciarpa littorio dell’aggressione ad Antonucci: La mafia è forse giunta all’Ospedale “Osservanza”? “…Non ci è possibile tacere ulteriormente di fronte ad episodi che denotano il costante sfacelo in cui il nostro Ospedale è direttamente investito…” e “Il Nuovo Diario”, settimanale cattolico emanazione della Dc di Imola, che coniugava fascismo mafia e compagni. Con gli stessi metodi 50 anni fa si instaurò il fascismo. Anzi codesti compagni (Cotti e Antonucci) sono peggio perché dai fascisti “li distingue solo l’ipocrisia che gli altri – pur fra tante malvagità – non ebbero”. Concludeva a caratteri di scatola il foglio dc: …manca solo la lupara! Che non avrebbero dovuto tardare visto che il potere era ormai nelle mani di “compagni di ferro”, “con licenza di uccidere”
Ma il pianeta terra sarebbe troppo bello se tutto fosse colpa di questa benedetta Dc, e di quei fior di galantuomini che si firmavano Uil. Che facevano nel frattempo gli amministratori locali? Che pensavano e facevano il presidente (socialista) e il consiglio di amministrazione (a maggioranza assoluta di sinistra)? Nel complesso qualcosa di molto simile alla tolleranza meditabonda, anziché all’attiva solidarietà; e in almeno un caso richamavano l’Antonucci in termini disciplinari.
Finale provvisorio. Dopo l’approvazione della legge (ora ex) 180, il consiglio ridistribuiva incarichi e direzione dei padiglioni, con un provvedimento (passato poi all’esame, senza intoppi, del comitato regionale di controllo) che obiettivamente incoraggia i medici ostili durante tutti questi anni alle misure innovative e punisce Antonucci, al quale sottrae la responsabilità dei reparti 10, 14, 17.Significativamente è su “Il Forlivese”, settimanale del PCI del comprensorio di Forlì, che il compagno Gianni Tadolini denuncia il fatto. Senza conseguenze. Alla fine di luglio Dacia Maraini intervista Antonucci per la “La Stampa” e il colpo viene accusato. CGIL, CISL. UIL (ahinoi) ospedalieri e Amopi (nientemeno che l’associazione dei medici di ospedali psichiatrici) richiedono che sia ristabilita la verità contro le calunnie. Il consiglio di amministrazione emana un comunicato parapìm parapàm (più avanti tutti i documenti citati, in versione integrale).
Il problema ha investito ormai la capacità di far politica del PCI forlivese ( e non). Sul versante PSI, in compenso, tutto è silenzio, salvo errori e omissioni; forse si sveglieranno domattina accusando i comunisti di Forlì di essere aggrappati alla ciambella del leninismo.
Pubblicato il 2 March, 2017
Categoria: Libri, Presentazione, Testi, Testimonianze
sono nata sotto un sole nero (Giulia) – Giorgio Antonucci – Poesie ( I parte)
Pubblicazione sulla Rivista “Psico-terapia e scienze umane“, aprile-giugno 1974
I moderni sistemi d’indebolimento o di annullamento della volontà individuale con i metodi psicologici e farmacologici sono molto efficaci e più radicali di tutte le torture antiche e moderne.
Si può togliere il pensiero e la volontà in modo silenzioso rapido e pratico senza bisogno di sporcarsi le mani.
Non c’è bisogno di mutilare, non è necessario uccidere, basta consumare i cervelli fino a ridurli all’assenso costante definitivo, fino a portarli alla sottomissione più completa.
Parallelamente le possibilità di guidare le moltitudini come e dove si vuole sempre senza violenza fisica e senza versare sangue.
Questo uno degli aspetti più minacciosi dell’applicazione della scienza nella civiltà contemporanea e futura.
Una civiltà di tutti i popoli, di tutte le culture, e d’infinite relazioni umane che potrebbero essere l’apertura per un mondo d’infinite libertà e che invece sta sviluppando dal suo intimo un potere d’oppressione senza precedenti.
Questo un problema serio e concreto per uomini che abbiano ancora la capacità di preoccuparsi. Giorgio Antonucci
<<Nel profondo del nostro
animo
fluttua un’ansia
di donarsi liberamente
a qualcosa di più alto.>>
(Goethe)
A Noris, con ammirazione
<< Noi siamo come malinconici viaggiatori in una sala d’aspetto di terza classe e tra queste pareti bianche e disadorne aspettiamo un treno che non arriverà mai>>.
Scritto sul muro di un manicomio.
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Se mi ascolti
e mi credi
posso raccontarti
in che modo
sono finita
qui dentro
in che modo
sono finita
qui dentro
posso raccontarti
cos’è accaduto
quando avevo
sedici anni
La mia storia
è molto
semplice
La mia storia
è semplice
e chiara
La ricordo assai bene
e posso parlarne
con serenità
nonostante tutto
Nonostante il ricovero a tradimento
Nonostante gli interrogatori dei primi tempi
Nonostante
gli insulti
Sei agitata!
(io mi ribellavo)
Sei incomprensibile!
(io cercavo di spiegarmi
e di sapere)
Sei pericolosa!
(io mi difendevo)
Nonostante la camerata e il cortile
dove il sole e la luna
concedono poco
per mancanza di spazio
Nonostante i miei anni
senza nulla
La mia storia
è semplice
e chiara
e la ricordo assai bene
e posso parlarne
con serenità
se mi ascolti
se mi ascolti
e se hai il coraggio di credermi
e se hai
il coraggio
di credermi
perché vedi
non mi ha
mai
creduta
nessuno
perché
non mi ha
mai
creduta
nessuno
Ho perduto le gambe sotto il treno
Per loro fu un tentativo di suicidio
Io potrei dirti
forse è successo
per disgrazia
forse volevo uccidermi
Ma che t’importa perché è successo?
Per loro non fu disgrazia
Per loro non fu disperazione
Per loro fu pazzia
loro spiegano
tutto
con la pazzia
e sono venuta qui dentro
e ci resto
e debbo ringraziare l’infermiera
se la mia seggiola a rotelle
viene spinta
dalla cella
al cortile
e dal cortile
alla cella
perché così la mia vita
anche se squallida
non è monotona del tutto
perché così la mia vita
anche se squallida
non è monotona del tutto
Se mi ascolti
e se hai il coraggio di credermi
la mia storia
come vedi
è molto semplice.
————————————————————–
Il mulino di Gemona
L’acqua salta giù dai monti
e fa girare la ruota
fa girare al ruota del mulino
la ruota
gira
gira
gira
e non sa come mai
intanto il grano diventa farina
Il vento salta giù dai monti
e porta via la farina
ma non si sa dove
ma non si sa dove.
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Manicomio di Gemona
400 recluse
Per esempio Bernarda
aveva quattro anni
non la voleva nessuno
l’hanno chiusa qui dentro
Ora ne ha trenta
ma se vuoi
puoi ripassare tra trent’anni
allora ne avrà sessanta
e continuerà ad aspettare
in silenzio.
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Vedendo Gemona dall’orizzonte
tra questi monti
altissimi
non si penserebbe mai
come vivono gli uomini
non si penserebbe mai
come vivono
gli uomini.
Non ti lasciare ingannare
dalla bellezza
(la torre i monti la grande apertura del cielo)
Non ti lasciare ingannare
dalla bellezza
perché la verità
è un’altra.
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Quando sono venuto
mi hanno interrogato
eccetera eccetera
Mi hanno denudato
eccetera eccetera
Mi hanno frustato
eccetera eccetera
Mi hanno sputato
eccetera eccetera
Dovevo cacare e pisciare
nella cella
eccetera eccetera
Nella ciotola di mollica
mangiavo con avidità
una broda da maiali.
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Se tu avessi capito
fino a che punto
l’umiliazione
può distruggere un uomo
se tu avessi capito
se tu avessi capito
sapresti uccidere
sapresti uccidere senza pietà
Tu non mi senti ma io ti voglio dire lo stesso
ti voglio dire
ti voglio dire
che non è il dolore
che non è la tortura
ch’io provo
Ti voglio dire anche se non mi senti
Ti voglio dire che non è paura
non è paura
non è paura
non sono gl’incubi
che attraversano
che attraversano la mia testa
che attraversano la mia cella
e che bruciano i miei occhi
come il fuoco del sole
Ti voglio dire anche se non mi senti
che non ho mai gridato
che non ho mai gridato
per le mie torture
per le mie torture che subisco da anni
Potrebbero tagliare
Potrebbero tagliare
senza farmi nulla
Ma se urlo
Ma se urlo
ma se urlo a pieni polmoni
e vorrei urlare sempre
se mi bastasse la gola
se mi bastasse la voce
Ma se urlo
come un lupo ferito
è la mia umiliazione
che non ha nome
che non ha fine
che non ha vendetta
Se tu avessi capito
fino a che punto
l’umiliazione
può distruggere un uomo
Se tu avessi capito
Se tu avessi capito
sapresti uccidere
sapresti uccidere senza pietà.
———————————————————————————
Pubblicato il 28 February, 2017
Categoria: Notizie
Eugen Galasso – Considerazioni sulla mostra “Buffoni, Villani e Giocatori”. Firenze
Buffoni, villani e giocatori alla corte dei Medici, Palazzo Pitti, Firenze.
Il Seicento (anche e soprattutto mediceo a Firenze) è quello della Controriforma, della Guerra dei Trent’Anni(1618-1648), dell’Inquisizione come delle grandi “Rivoluzioni” scientifiche (Galilei, Kepler etc.), come anche dell’interesse per la “deformità”, l'”anormalità”, ciò che sfugge ai canoni armonici della natura e della cultura, gli elementi costitutivi del Potere. Nani e “deformi”,”altri” diventano protagonisti dell'”altro”, appunto, della teratologia, del “mostro” esibito (in seguito verrà esibito come tale nei circhi), di quanto è “incomprensibile” dalla Ragione ma anche da quanto accettato meramente per Fede… Ciò che avrebbe fatto la gioia scientifica di un Cesare Lombroso, è qui visibile e visto a Firenze, in Palazzo Pitti. Giusto Suttens, Olandese fiorentinizzato è qui decisamente molto rappresentato, come anche l’Anonimo Fiorentino, ovviamente coevo di Suttens, ma c’è anche Joseph Heintz il giovane, Tedesco di Augsburg (Augusta) ma quasi sempre vissuto a Venezia, con un”Orfeo agli Inferi-Orpheus in the Underworld” impressionante, pur se non propriamente “attinente” al tema, se non per l'”eccentricità” del tema, dove il quadro, quasi rutilante per gli elementi in color oro (quasi un revival bizantino, pur se sembra impossibile, considerato il décalage temporale), sembra essere un’affiche o addirittura una scena di un musical o al limite di un film. Tematiche disarmoniche, peraltro teorizzate da autori come Torquato Tasso, come Baldassar Castiglione, a dimostrazione dell’irruzione di quanto risulterà troppo duro e inaccettabile per un mondo “razionale” e dominato “secundum rationem”, ma che al tempo stesso inizierà a farsi largo, a divenire non “accettabile”, ma comunque discusso, insinuando “pericolosi veleni” nel ciclo potere-“Ratio”-dominio…pur se poi tutto verrà inglobato e ammortizzato, almeno (beninteso) in appparenza… fino ai tempi nostri, nei quali la “democrazia”, la “tolleranza”, la “scientificità” (e forse bisognerebbe evidenziare la prima lettera di questi lemmi con la maiuscola) sembrano obnubilare quanto non rientra nei loro canoni e dunque “ammortizzarlo”. Ma il “perturbante” torna sempre, nella letteratura fantastica come nelle vicende che caratterizzano la “realtà” o ciò che intendiamo per tale… e quanto definiamo variamente come “incomprensibile”, “perturbante”, “assurdo” è l’ombra della “Follia”, da sempre demonizzata in quanto irriducibile a quanto si intende dominare, “regolare” e – invero – irreggimentare.
Eugen Galasso
Pubblicato il 5 February, 2017
Categoria: Notizie
Il lavoro di Reggio Emilia.
La prima volta che arrivai in città (siamo nel 1970) lasciai la macchina per proseguire a piedi fino alla sede dei Centri di Igiene Mentale, ma al ritorno non ricordavo dove l’avevo lasciata e faticai a ritrovarla.
Quel giorno ero venuto da Firenze soltanto per vedere.
Mi aveva invitato Giovanni Jervis a lavorare con lui a Reggio Emilia, dove lui era stato chiamato a dirigere i nuovi servizi psichiatrici della provincia, con lo scopo di evitare per quanto possibile i ricoveri in manicomio intervenendo con nuovi criteri, e con una diversa concezione dei nostri compiti e delle nostre responsabilità di fronte ai cittadini.
Dovevamo aiutare le persone a vivere senza separarle dal loro ambiente e senza sottoporle a interventi di coercizione.
Superare il manicomio significa smettere di ricoverare.
Jervis mi aveva scelto perché aveva visto come nel 1969 avevo impostato il mio lavoro nell’Istituto psichiatrico di Gorizia diretto da Franco Basaglia, dove ero stato incaricato di occuparmi dei reparti di “osservazione donne”. Per me quello di Gorizia era stato un periodo breve ma ricco di significato e di interessanti e utili esperienze.
Jervis e io avevamo avuto anche moltissime discussioni e divergenze ma ci eravamo intesi lo stesso.
Ci sembrava che lo scopo fosse il medesimo. Una divergenza che si sarebbe riproposta anche a Reggio era che Jervis praticava l’uso dell’elettrochoc mentre io ero decisamente contrario tanto che a Gorizia lo avevo tolto dai reparti delle donne dove si usava ancora mentre era stato tolto dai reparti degli uomini allora diretti da Domenico Casagrande.
Jervis sosteneva anche l’utilità della lobotomia specialmente per le persone con stati ossessivi di difficile controllo come mi disse una sera a Gorizia mentre ero a cena a casa sua.
A Gorizia c’era la convivenza di grandi novità e di antiche tradizioni, come è logico aspettarsi dove è arrivato un rivoluzionario che si dibatte dentro le trappole del conformismo e le paure dei conservatori.
L’idea del superamento del manicomio era un pensiero di Basaglia e non degli altri medici, i quali si adattavano per adeguarsi, tra molte incertezze e profondissime resistenze.
Avevano dubbi teorici e inefficienze pratiche. Nessuno poi si rendeva conto di quanto lontano portasse questo pensiero e quali potessero essere le conseguenze nel modo di concepire i rapporti umani, e nel modo di affrontare la convivenza sociale.
Jervis era un buon neurologo, ma a mio parere non era adatto a occuparsi dei problemi pratici della psicologia, e non mi sembrava nemmeno interessato e disponibile per avventurarsi ad affrontare e capire le difficoltà esistenziali. Questa storia si sarebbe vista anche a Reggio.
Non si capisce come mai i medici sono chiamati a occuparsi di psicologia.
Anche questo è un vero equivoco da chiarire.
Lasciata Reggio, nel tornare verso la Toscana, vidi per la prima volta il colle di Bismantova, maestoso e triste, come mi sarebbe apparso molte volte in seguito, quando mi occupavo dei paesi di montagna, che fornivano molte persone al manicomio.
Pubblicato il 21 December, 2016
Categoria: Notizie
Cipriano versus Antonucci – Eugen Galasso
(Mi riferisco ad “A”, novembre 2016, n.411, pp.29-33)
Due premesse: A) La mia non è difesa d’ufficio del dott. Antonucci, che si difende benissimo da solo. Avendo seguito, però, da anni, le vicende di Giorgio Antonucci e di chi lo attacca, credo di avere diritto di intervenire; B) Da non anarchico, però, credo sia opportuno precisare alcune cose. In primis, delegando alla dott. Mailardi, psicologa, psicoterapeuta a Roma presso la Fondazione Roma Solidale onlus l’intervista al dott. Cipriano, autore di vari libri (tutti editi da “Eleuthera”, significativamente, casa editrice di cui “A” pubblica la pubblicità – scusate il bisticcio di parole…, mentre di Antonucci ne aveva pubblicato solo uno, per così dire con un “no more” implicito), la rivista “A-rivista anarchica” fa una scelta di campo, ben più che instaurare un dialogo a distanza… Premetto, però, che credo nella sincerità assoluta di entrambi(intervistatrice e intervistato) e lo dico in buona fede, senza alcun “retropensiero” da “Ma Bruto è un uomo d’onore…” (uncle Bil l’immortale, alias William Shakespeare, Giulio Cesare, Atto III°, scena seconda). Certo, anche le domande -“obiezioni” della dott. Mailardi sembrano offrire il destro a risposte-chiarimenti non dico “orientati” (questo no) ma in qualche modo appaiono “facilitanti”. Poi, Cipriano prende apertamente le parti di Basaglia versus Antonucci: assolutamente legittimo e anzi scopre subito le carte, ma è scelta a priori, con toni estremamente duri e dogmatici: “Quello di Antonucci è un discorso che trovo demagogico” (sarebbe da chiarire questo termine, ormai, troppo usato-abusato. Chi dava del “populista” e del “demagogo” a Donald Trump l’ha fatto vincere. Mio inciso). Dire che comunque la sofferenza esiste e che “la libertà l’ha già perduta prima che intervenga la psichiatria con le sue armi di precisione e di repressione” è contraddittorio: prima di tutto non sappiamo se sia vero che la persona abbia già perso la sua libertà (l’autore ci dà ciò come assioma, quale “articulus fidei”) e poi Cipriano ammette che quelle della psichiatria sono “armi di precisione e repressione”. Segue poi l’argumentum princeps: “…in certi casi, bisogna assumersi la responsabilità di decidere, per quella persona non più in grado di farlo (sic! Se lo fa il dott. Goebbels, però, o comunque tutta la psichiatria istituzionale, poi, sappiamo come va a finire… e.g.). Per cui, io pure revoco, o non convalido, moltissimi trattamenti sanitari obbligatori. Però non contesto lo strumento del TSO”. Ma se questo esiste, viene usato e come… Cipriano lo sa e però difende (ripeto: credo fermamente che sia in buona fede e quindi non creda di farlo) la casta degli psichiatri e chi ne legittima l’esistenza. A Szasz, poi, contesta di “aver fatto una scelta di campo…dedicandosi solo a gente ricca e poco sofferente”. Mi sembra un riduzionismo totale, quanto meno. Non parliamo dell’attacco ad Antonucci, poi, “la cui impresa più rilevante è stata troppo veloce, pretenziosa e controproducente”. Ne è certo, prima di tutto? Sa come si siano svolti i fatti? Ne dubito, in specifico. Lascio ad altri la possibilità di replicare, concludendo solo con la constatazione che il “gradualismo”, in buona fede, di Cipriano, non cambierà nulla a livello normativo e di prassi clinica.
Eugen Galasso
Nota: Eleuthera ha pubblicato diversi libri importanti del dottor Giorgio Antonucci.
Pubblicato il 28 November, 2016
Categoria: Notizie
“Cappelli e serpenti boa” di Giorgio Antonucci– Il Piccolo Principe, una storia a fumetti di Enzo Jannuzzi e Antoine de Saint-Exupéry
Excalibur srl
Nelle prime pagine del Piccolo Principe che Vincenzo Jannuzzi ha riproposto a fumetti, il bambino vede il serpente boa, mentre l’adulto vede il cappello. Si evidenza qui il rapporto che il bambino ha con la fantasia, fintanto che non gliela organizzano e non gliela impediscono.
Fin dall’antichità, il conflitto tra creatività e controlla sociale è una costante. Già nell’Iliade incontriamo personaggi che affermano come a volte, per un istante, si sentono oscurati, come se qualche demone impedisse loro di pensare. Dalla concezione dei demoni che impediscono il pensiero, agli inquisitori, fino ai controlli sociali dell’epoca moderna, l’intelligenza creativa si scontra con le regole autoritarie della società.
Socrate rappresentava la forza creatrice attraverso l’intelligenza e il dialogo, ma lo stato ateniese ne fu impaurito e lo condannò a morte. Socrate, ricchissimo d’immaginazione, cercava di stimolare la gente a ragionare attraverso il dialogo, per raggiungere la conoscenza di se stessi, per ricercare la verità, per arrivare alla sapienza. Fu condannato a morte con l’accusa di corruzione della gioventù. Dal punto di vista di chi lo ha giudicato, dare impulso allo sviluppo del libero pensiero dei giovani era quindi considerato corruzione.
“Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle”, scrive Dante (Purgatorio, Canto XXXI, v. 106), che ho sempre citato per la sua indipendenza di pensiero e per la fantasia, era un individualista e riteneva, in un’epoca come quella medievale, che le sue opinioni dovessero essere rispettate sia dal potere temporale, quello di Firenze, sia da quello ecclesiastico di Roma. Basta leggere la Divina Commedia per vedere cosa ha scritto, quando definisce il Vaticano la cloaca del sangue e della puzza e quando mette i papi nell’inferno.
Gli artisti e i pensatori di ogni epoca hanno trovato ostacoli e repressione, con la condanna a morte, con la reclusione e i trattamenti psichiatrici, oppure con l’esclusione. Torquato Tasso è stato rinchiuso nella torre di Sant’Anna, perché il suo modo di pensare era stato ritenuto sospetto. Vincent Van Gogh è stato internato in manicomio, come Antonio Ligabue e Antonin Artaud, che è stato sottoposto all’elettroshock. Charles Baudelaire è stato addirittura interdetto, perché il suo modo di essere e di pensare non corrispondeva alla moralità dei costumi, come la chiama Friedrich Nietzsche, cioè quei costumi che sono stabiliti e imposti con la forza. Ci sono persone che col pensiero sembrano disturbare la tranquillità delle persone perbene, sottomesse al potere costituito.
Ritornando ai giorni nostri, Il Piccolo Principe è un’opera in cui la fantasia prevale su tutto il resto: quello che è simile al reale è scartato, mentre conta quello che è immaginario. Per questo motivo, come pure Alice nel Paese delle Meraviglie o Pinocchio, non possono essere inquadrate; hanno un testo semplice, ma ricco di pensiero, adatto sia ai bambini sia agli adulti. Libri semplicissimi, ma di una ricchezza che non finisce mai: la fantasia. Sono testi che non hanno fine, anche per la figurazione; sono stati, infatti, reinterpretati numerosissime volte.
Il Piccolo Principe fa volare la fantasia: il pilota trascorre la sua vita da solo, senza nessuno con cui parlare, in quanto le persone importanti a cui sottopone il suo disegno vedono solo un cappello – i “grandi” si riferiscono solo alle forme che sono accettate – poi, finalmente, incontra il Piccolo Principe, che gli chiede di disegnare e che capisce i suoi disegni; e, alla fine, il pilota, Antoine de Saint-Exupéry stesso, è scomparso nella vita reale come se facesse parte di questa sua opera.
Anche oggi la fantasia è guardata con sospetto e gli artisti sono sopportati con fastidio. Nel ’68 gli studenti parlavano di fantasia al potere, era un paradosso, una sfida, un modo di dire: la fantasia avrebbe dovuto sovvertire il potere, superarlo, per costruire una società nuova. Tuttavia la fantasia e il pensiero libero, non vanno d’accordo con un sistema che ha bisogno di situazioni prevedibili e controllabili, e vuole mettere limiti precisi. La fantasia, al contrario, non è né prevedibile né controllabile. Questo conflitto, messo in luce dal Piccolo Principe, sta diventando, ora, sempre più pressante, anche perché viviamo in un’epoca in cui la fantasia va scomparendo. Al contrario la fantasia dovrebbe essere presente anche nella politica. Goethe diceva: <io amo chi brama l’impossibile>. Perché chi brama l’impossibile è chi immagina e sogna un mondo nuovo, lavora per una società diversa, vuole fare la rivoluzione per avere una società differente. Ora invece ci si ferma sul dato di fatto, senza andare oltre. Siamo nella civiltà dei supermercati, una civiltà in cui veniamo consumati. I giovani non hanno punti di riferimento e le persone sono scoraggiate, per cui si accetta lo stato delle cose.
L’immaginazione, anche nei regimi per così dire democratici, che sono democratici soltanto in parte, è diventata sempre più estranea ai costumi della nostra società e, anche se a volte viene accettata, è sempre controllata. Lo scontro tra creatività, intelligenza, immaginazione e le regole del sistema che cerca di soffocarli, è presente in tutte le epoche e con metodi diversi a seconda dei tempi, però il conflitto è sempre lo stesso. La qualità particolare del Piccolo Principe è quella di dare un impulso alla riflessione, al pensiero e mettere in luce lo scontro tra l’immaginazione e le organizzazioni del potere, tanto nel XX come nel XXI secolo. Quest’opera, come è stata immaginata da Vincenzo Jannuzzi, ma anche come è stata rivisitata nella traduzione realizzata con Erveda Sansi, è un inno alla poesia. Il lavoro è un trionfo dell’immaginazione, un’esaltazione del libero pensiero non sottomesso contro il conformismo; le persone importanti vedono solo il cappello ma solo chi non è conformista, ci vede altro.
Marzo 2016
Giorgio Antonucci.
Pubblicato il 18 November, 2016
Categoria: Notizie
Il “PREMIO GIORGIO ANTONUCCI” 2016
La serata avrà luogo sabato 26 novembre alle ore 15:00 a Firenze, presso l’Auditorium di Sant’Apollonia, in Via San Gallo 25A.
Il pomeriggio vedrà le premiazioni della Dott.ssa Eugenia Omodei Zorini e del Dott. Massimiliano Boschi, e sarà allietato dal piano del Maestro Andrea Passigli che suonerà musiche di Schubert e la prima esecuzione di “Sonatina fiesolana” per lui composta dal M° Anthony Sidney.
A seguire la presentazione del libro “La chiave comune” di Giovanni Angioli e la proiezione del filmato “Noris e Giorgio” di Anthony Sidney.
I premiati
Eugenia Omodei Zorini
Laureata in medicina nel ’65, desiderava capire qualcosa chi siamo e perché soffriamo, e sperava di farlo attraverso lo studio della psichiatria. Presto si rese conto di come questa disciplina ignorasse e svalutasse profondamente l’essere umano, e scelse la specializzazione in psicologia clinica, anche se sei mesi di lavoro in reparto furono sufficienti a rivelarle la disumanizzazione della pratica medica.
Nel ’69 si sentiva parlare di Gorizia, di Basaglia e dell’antipsichiatria. La dottoressa Omodei Zorini approdò al servizio di Igiene Mentale di Reggio Emilia, dove lavorò con Giorgio Antonucci e condivise il suo approccio ai problemi mentali. Dal ’95 insegna alla Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica, per trasmettere ai giovani la sua esperienza, nella ricerca di un rapporto non violento e fondato sul rispetto della persona.
Massimiliano Boschi.
Nato a Bologna, è emigrato in Alto Adige nel 2012. Giornalista pubblicista, collabora alle pagine culturali del Corriere del Trentino e dell’Alto Adige. In passato ha collaborato con “Diario della settimana”, “Micromega” e il “Venerdì di Repubblica”. Da anni lavora a una biografia su Giorgio Antonucci.
Il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus – è lieto di presentare il “Premio Giorgio Antonucci 2016” in onore dei Difensori i Diritti Umani nel campo della salute mentale.
Ringraziamenti al “Premio Giorgio Antonucci”:
“http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2015/12/22/premio-giorgio-antonucci-ringraziamenti-di-jan-eastgate-foto/”
Le passate edizioni del “Premio Giorgio Antonucci”:
http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2016/10/03/sesta-edizione-del-premio-giorgio-antonucci-premiati/
Pubblicato il 15 November, 2016
Categoria: Notizie
Ricordi di pace e di guerra – Giorgio Antonucci
“Se moro, ricopritemi di fiori
e sottoterra non mi ci mettete:
Mettetemi di lì de chelle mura
Dove più volte vista mi ci avete”
Da un rispetto toscano musicato da Ugo Wolf
Giorgio Antonucci –
In quella sala anatomica di via Alfani, all’istituto di anatomia normale, mi pareva che gli ostacoli sulla via della conoscenza, fossero teoricamente infiniti, e che fosse in pratica impossibile laurearsi in medicina.
Il corpo di una giovinetta quindicenne, portato il giorno prima, era già oggetto dell’interesse anche licenzioso di un gruppo di studenti.
Io me ne stavo da una parte con un cuore in un vaso di formalina a cercare di capirne la struttura contorta in aperto conflitto con la mia scarsa capacità di concentrarmi almeno in quell’ambiente.
In quel periodo la notte facevo sogni spaventosi con corpi che si contorcevano nelle fiamme o con mani bianche che mi stringevano. Tra gli studenti universitari io (abituato alla vita più familiare) mi sentivo completamente estraneo e fuggivo via spesso perché mi sentivo addosso l’impressione spiacevole di essere di troppo. Del resto i miei diciassette anni erano d’una tristezza che raramente poi ho ritrovato di nuovo.
Non riuscivo a capire dove era che gli altri giovani miei colleghi trovavano la loro sicurezza che spesso anche si trasformava in esuberanza.
Mi ritiravo per conto mio e al più presto mi allontanavo facendo lunghe passeggiate per la città da solo e tra sogni a occhi aperti puramente immaginari e impossibili a realizzarsi.
La morte (che vedevo nei corpi della sala anatomica) mi pareva a portata di mano, sul punto di verificarsi, e mi angosciava il vuoto d’esperienza che mi sentivo dentro.
Era la conoscenza intuitiva del distacco dalla vita reale in cui mi avevano educato. Ero un giovinetto cerebrale, con niente corpo, oppure con un corpo che mi pesava come un’appendice superflua.
Un rapporto col corpo soltanto al negativo era dovuto a una molteplicità di esperienze che andavano dal disprezzo culturale del corpo in genere, al disprezzo del proprio corpo individuale visto come qualcosa di irrimediabilmente difettoso.
E questo doppio concetto concavo era stato costruito colpo su colpo fin dall’infanzia.
Naturalmente non era legato a nessun difetto reale: mia madre mi diceva sempre: – non vedi che sei magro come uno stecco -.
A livello astratto la religione m’era sembrata inaccettabile e ridicola fino dai dodici anni quando ero un lettore ammirato del “Dizionario filosofico” di Voltaire e già da tempo avevo in antipatia l’autoritarismo o ipocrita o brutale dei preti che avevo conosciuto.
L’orgoglio dell’individualità e l’insofferenza alla sottomissione sono una delle mie esperienze interiori più antiche.
Però pareva un paradosso questa congiunzione dell’individualismo più spinto con il sentirsi di troppo e in condizione d’inferiorità in ogni momento.
Non riuscivo a capire quali sarebbero stati gli effetti di questa stessa mescolanza.
A volte così pensavo che sarebbe stato molto meglio morire subito (visto che poi in realtà non sarebbe cambiato niente) e andavo a passare pomeriggi interi fino a sera davanti ai binari della stazione del Campo di Marte.
Ma era anche questa una fantasia irrealizzabile.
Era un altro modo di sognare a occhi aperti, aiutato anche della mia passione per i treni che mi s’era sviluppata fin da bambino.
Il professore di anatomia era un ometto opaco che faceva lezioni pignole sugli strati del pelo e che nella sua giovinezza, si diceva, era stato molto fedele al fascismo.
Il custode della sala anatomica era un uomo grasso e grosso che preparava i pezzi di cadaveri con l’accetta e si chiamava Dante.
L’istituto di via Alfani era un labirinto di stanze e di chiostri, che a me pareva uno di quei luoghi in cui si entra e poi non si trova più la via d’uscita come succede spesso in sogno.
Una volta lì io mi ero rifugiato in un sotterraneo per sfuggire ai cacciatori di matricole.
L’Università degli anni ’50 a Firenze era una istituzione morta con studenti timorosi e conformisti che si preoccupavano di informarsi in anticipo delle domande che i professori avrebbero fatto agli esami legate all’ignoranza e ai pregiudizi che quegli individui nulli di cultura e privi di immaginazione si erano portati in cattedra. I professori venivano tutti dalla cultura anteguerra basata esclusivamente sulla sottomissione alle autorità e sulla chiusura totale ad ogni tipo di emancipazione sociale.
Fu ad Arcetri alle lezioni di Fisica che conobbi per la prima volta Jervis, uno studentello diligente e presuntuoso con la puzza sotto il naso che viveva già da privilegiato perché veniva da una famiglia bene.
I più disprezzati erano gli studenti che venivano di fuori città e non avevano una famiglia importante.
Io in quel tempo leggevo con molto interesse un librettino sugli esistenzialisti che a proposito di Kafka portava un capitolo col titolo che definiva lo scrittore come uno straniero nella città degli uomini. Mi ricordo che per questo comprai i “Diari” di Kafka e cominciai a occuparmi delle sue poesie e del suo pensiero. Allargavo le mie letture che in precedenza per le poesie erano state prevalentemente leopardiane. Al liceo la mia passione per Leopardi poeta e pensatore era per lo più ritenuta una stravaganza da considerarsi con sospetto e con ironia specie in un ragazzo come me già chiaramente orientato a non accettare passivamente l’ipocrisia moralistica e la retorica culturale degli insegnanti. Particolarmente disgustosi erano gli insegnamenti di religione.
La corruzione morale che deriva dall’etica cattolica pervade gli uomini fino al midollo delle ossa. L’ambiguità diventa apparentemente un fatto naturale.
Devo dire che nella mia famiglia non erano religiosi né mia madre né mio padre. Però i pregiudizi della morale religiosa arrivano anche per via indiretta.
Altra cosa è pensare ore intere nella penombra di Santa Maria del Fiore a riflettere sulla morte e a guardare i cavalli antichi disegnati dai pittori.
Nei miei anni di Liceo pensavo che una conoscenza dettagliata del corpo umano, come avrebbe dovuto fornire la medicina, sarebbe stata molto utile per capire meglio il significato del nostro essere nel mondo. Avevo scelto la medicina (invece che l’ingegneria o la fisica come avrebbe preferito mio padre) si può dire per ragioni filosofiche, o meglio per affrontare più da vicino il problema della conoscenza da cui pensavo che sarebbero derivati logicamente principi di vita pratica.
In questa logica l’interesse per l’anatomia e per l’istologia erano grandi e a livello teorico mi parevano un’avventura straordinaria.
Così mi ero internato da solo nello studio del grandioso “Trattato di istologia” del Levi cercando di approfondire al di là delle strutture minute delle cellule anche i problemi chimici e fisici a cui rimandavano.
Pubblicato il 12 October, 2016
Categoria: Notizie