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La cultura “fa anche mangiare” – Eugen Galasso


Contro la retorica del “Bambole non c’è una lira”, che (ricavo la notizia da Internet, lo confesso, pur conoscendo l’espressione da tempo), era uno spettacolo italiano di avanspettacolo-varietà degli anni 1970, Franco Cardini, studioso e docente di storia medievale e non solo, intellettuale di grande spessore (da cui molto mi allontana, in specie il suo orientamento da cattolico-conservatore, ma che apprezzo e stimo comunque), ribadiva, meno di una settimana fa, che la stretta economica non deve andare versus la cultura che invece, anche contro quanto affermava l’ineffabile (ex-) ministro Tremonti, “fa anche mangiare” cfr.(turismo, luoghi artistici in Italia). Importante, il rilievo cardiniano: se riuscissimo a convincere chi di dovere (?) che lavorando con e per la cultura si riesce anche ad aprire/far aprire, gradualmente, gli occhi alla gente, sarebbe anche meglio. Se abbiamo sradicato la credenza nelle streghe, nel “malocchio”, nelle superstizioni varie, a fortiori o almeno parimenti dobbiamo sradicare la credenza nella malattia mentale, che sarebbe fòmite di delinquenza, di infiniti danni etc.   Accettare chi pensa diversamente, chi si comporta come vuole e non come vorrebbe la “maggioranza silenziosa” (ma anche gridante, a tratti) significa capire e ancor più far capire, ragionare e pensare insieme a chi pensa e agisce diversamente da noi. Senza la credenza, puramente “normalizzatrice-castrante” che qualcuno abbia la Verità, gli “Altri” (le altre persone) solo opinioni false, assurde, “pazzesche”… Più probabile (non è pessimismo, ma realismo quasi da bottega) che invece si incoraggi la “saggezza” (!?!) della psichiatria, assurta ancora una volta a paradigma regolatore ed “equilibratore” (come? Quando va bene, con i  “tranquilizers”…!).
Eugen Galasso

Pubblicato il 6 December, 2011
Categoria: Testi

Intervista a Giorgio Antonucci – Antipsichiatria – Clarissa Brigidi – IV Parte


La solitudine della persona internata in manicomio è senza paragoni. “Non è solo celle, spioncini e cortili. E nemmeno soltanto psicofarmaci e elettroshock. È’ invece isolamento assoluto di chi, al contrario di tutti gli altri internati di carcere o di lager, è considerato, sia pure arbitrariamente, senza pensiero, o, che è lo stesso, privo di un pensiero razionale o, come si dice, con un pensiero malato”. Giorgio Antonucci

“Fatto sta che all’ospedale di Imola, ci sono dei reparti chiusi dove i ricoverati girano in tondo con tranquilla disperazione e dei reparti aperti (una minoranza) dove uomini e donne che sono stati legati a letti per anni e considerati irrecuperabili ora girano pacifici, liberi di entrare e uscire. Hanno smesso di essere violenti e irresponsabili nel momento in cui si è smesso di trattarli con violenza, come degli irresponsabili”. Dacia Maraini, Paese sera,6/7/1980

C. B.: La popolazione di Imola, invece, come ha reagito?
G. A.: Molti cittadini di Imola non furono d’accordo con quello che stavo facendo nel manicomio della loro città. Via, via, si sono abituati perché videro che, anche se le persone andavano in giro fuori dal manicomio, nelle loro vite non cambiava assolutamente niente. La mia intenzione, però, era anche quella di portare la popolazione esterna all’interno del manicomio. Per questo ho fatto molta fatica, tanto che ho organizzato a volte concerti con pianisti, violoncellisti, violinisti, e chiamai perfino Baccini, un cantante italiano. Volevo attirare le persone di Imola e facevo queste iniziative in reparto per tutta la città. Ma era certamente più facile lasciare uscire le persone fuori dal manicomio che vedere le persone della città venire dentro il reparto. All’autogestito “Lolli”, sempre ad Imola, venne addirittura un corpo di danza del Giappone che stava facendo spettacoli in Europa, ma in Italia fece l’unica data all’autogestito. Io cercavo di stare il più possibile in contatto con artisti per trovare sempre nuove occasioni da portare all’interno del manicomio perché mi interessava che gli internati avessero la vita che avevano tutti gli altri. Per esempio, andare con loro dal Papa significava che le persone rifiutate da tutti venivano ricevute perfino dal Pontefice che non riceve proprio chiunque. Oppure andare al Parlamento Europeo significava esprimere il fatto che gli internati sono cittadini, con i loro diritti civili e politici. Tutti i viaggi che abbiamo fatto sono stati un modo per restituire alla vita civile persone per le quali qualcuno aveva deciso che alla vita civile non avrebbero partecipato mai più.( Foto di Massimo Golfieri dei reparti di Giorgio Antonucci)
C. B.: Lei sostiene che la malattia mentale non esiste in quanto non si tratta di una malattia fisica e perciò distingue le malattie organiche dai problemi psicologici. Vuole aggiungere qualcosa a questo proposito.
G. A.: Potrei dire una cosa molto semplice, di cui parla anche Szasz, e cioè che il concetto medico di malattia ha un contenuto preciso. Per esempio, supponiamo che tu vada da un medico e dica di avere il diabete. Da un altro medico affermerai invece di non avere il diabete. Cosa succede? Vengono fatti degli esami che serviranno a diagnosticare o meno il tuo diabete e cioè attraverso questi esami risulterà, in maniera oggettiva, se tu sarai affetta o meno da questa patologia. Qualunque malattia, che sia del fegato o del cervello, ha dei riferimenti oggettivi. Se un individuo ha il morbo di Alzheimer attraverso l’esame delle cellule cerebrali, si vede che queste stanno degenerando. Una malattia ha un riferimento biologico preciso: nel caso della psichiatria si tratta di interpretazioni di comportamenti. Comportarsi “bene” o “male” non è un problema medico, ma un problema etico: dire che una persona che si comporta bene è sana e che quella che si comporta male è malata non ha senso. Il cervello, essendo un organo, può ammalarsi: è la neurologia a occuparsi di queste patologie e non la psichiatria. Szasz dice che una indagine scientifica o una teoria scientifica non può rivolgersi su entità non materiali come amore o odio, angelo e diavolo, spirito e mente. Questo non significa affermare che queste cose non esistono. Esistono ma non fanno parte del mondo materiale, dello studio dei fatti e quindi della scienza. Eppure eminenti medici, scienziati, pubblicazioni prestigiose, quando si riferiscono al concetto di malattia, di regola ignorano, trascurano, e oscurano il fatto che usiamo il concetto di malattia sia come termine scientifico neutro, senza implicazioni di valore per descrivere e spiegare aspetti del mondo materiale, sia come termine etico, carico di valore, per identificare, scusare, condannare e giustificare aspirazioni, leggi e usanze umane, non materiali. Il fatto che l’omosessuale, il suicida, lo stupratore siano considerati malati non è affatto considerare le cose da un punto di vista scientifico. Non c’è nessun motivo per  considerare sani comportamenti buoni e malati comportamenti cattivi. Qui si entra nel campo dell’etica secondo la quale certe azioni sono accettabili e altre meno: siamo, però, su un altro piano da quello medico. Quando mi occupo di problemi psicologici non uso i termini di malattia e di cura, perché seguo un altro percorso; si ascolta una persona che racconta le vicende della propria vita e chiede un aiuto, un consiglio, o che semplicemente ha bisogno di raccontare tali vicende, perché il fatto stesso di comunicarle è un sollievo, un uscire dalla solitudine.
C. B: Lei ha lavorato tanto con le donne. Mi può dire se effettivamente le donne internate sono le testimoni “privilegiate” di come la psichiatria sia essenzialmente una pratica di conservazione dei costumi etici predominanti?
G. A.: Da un punto di vista storico si può fare riferimento alle vicende narrate da Freud sul suo maestro Charcot, che era il neurologo più famoso dell’epoca e dirigeva la Salpêtrière con cinquemila donne ricoverate. A lezione Charcot mostrava queste donne ai suoi studenti e affermava che erano state internate perché avevano delle lesioni nervose. Però lo stesso Charcot, con i suoi studenti preferiti, tra i quali c’era anche Freud, si incontrava fuori dall’università per continuare a discutere e a dialogare e in uno di questi incontri affermò che, secondo lui, il problema di quelle donne era legato alla questione sessuale. Egli disse che la maggior parte di donne internate erano vittime dei pregiudizi sessuali: Freud in seguito ha fondato la psicanalisi su questo discorso e ad un certo punto, arrivò ad affermare esplicitamente che aveva smesso di fare il neurologo quando si occupava di problemi psicologici, ed aveva incominciato a fare il biografo. Nel 1858, il patologo tedesco Rudolf Virchow pubblicò la sua tesi intorno alla patologia cellulare basata sull’istologia fisiologica e patologica. Da allora, la lesione nel corpo, identificabile oggettivamente con l’osservazione o la misurazione anatomica, fisiologica o di natura fisiochimica, fu la misura scientifica standard. La medicina stabilisce se un individuo abbia o meno una lesione e se questa provoca nell’organismo degli squilibri fisici. La psichiatria, al contrario, non trova delle lesioni in un organismo, ma tratta dei comportamenti non accettati moralmente come se fossero delle patologie. Ma è evidente, per esempio, che l’omosessualità non ha nulla a che vedere con la malattia: è una scelta che fino a non troppo tempo fa (e forse da alcuni ancora oggi) non veniva accettata; era moralmente sbagliato avere gusti sessuali differenti da ciò che stabiliva la norma sociale dominante. Nella società vittoriana, per esempio, faceva comodo scomunicare le donne che provavano piacere perché era la coppia procreatrice a rappresentare il modello dell’unica sessualità possibile. Per concludere, una studiosa di Roma fece tempo fa uno studio che rivelò che le donne sono vittime della psichiatria prevalentemente per problemi sessuali e gli uomini per problemi di lavoro.

I Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2008/08/05/intervista-a-giorgio-antonucci-su-lantipsichiatria-tesi-di-laurea-di-clarissa-brigidi-in-filosofia-della-storia/

II Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/28/intervista-a-giorgio-antonucci-antipsichiatria-clarissa-brigidi-iiparte/

III Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/28/intervista-a-giorgio-antonucci-antipsichiatria-clarissa-brigidi-iii-parte/

Pubblicato il 28 November, 2011
Categoria: Testi

Intervista a Giorgio Antonucci – Antipsichiatria – Clarissa Brigidi – III Parte


La solitudine della persona internata in manicomio è senza paragoni. “Non è solo celle, spioncini e cortili. E nemmeno soltanto psicofarmaci e elettroshock. È’ invece isolamento assoluto di chi, al contrario di tutti gli altri internati di carcere o di lager, è considerato, sia pure arbitrariamente, senza pensiero, o, che è lo stesso, privo di un pensiero razionale o, come si dice, con un pensiero malato”. Giorgio Antonucci

“Fatto sta che all’ospedale di Imola, ci sono dei reparti chiusi dove i ricoverati girano in tondo con tranquilla disperazione e dei reparti aperti (una minoranza) dove uomini e donne che sono stati legati a letti per anni e considerati irrecuperabili ora girano pacifici, liberi di entrare e uscire. Hanno smesso di essere violenti e irresponsabili nel momento in cui si è smesso di trattarli con violenza, come degli irresponsabili”.
Dacia Maraini, Paese sera,6/7/1980

C. B.: So che Dacia Maraini è intervenuta più volte su “La Stampa” per parlare del tuo lavoro di liberazione, assistendo a feste e concerti che avevi organizzato nei reparti. Mi può parlare di quel periodo?
G.A.: Siamo nel 1978, periodo in cui, con la nuova legge, ci doveva essere una ristrutturazione dell’intera istituzione manicomiale. Cotti avrebbe dovuto farmi primario in modo che non dipendessi più da medici che non mi accettavano. Invece questo non successe ed io rischiavo di essere affiancato ad uno di quei medici tradizionali e di dover rincominciare da capo tutto il lavoro che avevo fatto fino a quel momento. Un mio amico, Piero Colacicchi, che era a conoscenza di questa situazione ne parlò con Dacia Maraini che venne a vedere i miei reparti. Prima mi fece un’intervista in cui io descrivevo come erano i miei reparti con le persone libere, che si vestivano a loro piacimento, che assistevano ai concerti, che uscivano per andare all’autodromo, a teatro, al bar confrontandoli con gli altri in cui le persone erano ancora rinchiuse. Dopo questo articolo i sindacati mi accusarono di dire il falso perché, secondo loro, anche le persone degli altri reparti stavano bene ed erano liberi. Allora io mi misi di nuovo in contatto con Dacia Maraini che ritornò a Imola e scrisse un altro articolo in cui riconfermava tutto quello che aveva visto la prima volta. Il giorno in cui lei venne all’Osservanza c’era anche l’orchestra dei giovani dell’Aquila: le ricoverate, vestite di tutto punto, ballavano mentre l’orchestra suonava Mozart; uscivano, entravano, scherzavano. Dacia Maraini volle vedere gli altri reparti. Dovettero aprire le porte con le chiavi; entrarono: c’erano persone tristi, in camice. Così pubblicò altri articoli, raccontando quello che aveva visto con i propri occhi. I sindacati si trovarono completamente spiazzati, perché di lei non potevano certo dire che lo faceva per protagonismo. In seguito, ogni volta che mi accadeva qualcosa di particolare, Dacia Maraini se ne occupò sempre. Per fare una sintesi: siamo partiti dalla camicia di forza e siamo arrivati al Parlamento Europeo, dove le persone ex internate sono state ricevute per discutere dei loro diritti con una commissione del parlamento, in collegamento con Eugenio Melandri, allora parlamentare europeo di rifondazione comunista e con Pannella. Un altro discorso interessante è quello della visita a Giovanni Paolo II. Davanti al manicomio c’è una chiesetta dei francescani e alcune delle donne del reparto 14 o di altri reparti andavano a messa lì oppure a fare una visita in chiesa poiché erano religiose. Una volta trovai il frate francescano che le stava buttando fuori e io gli domandai che cosa stava succedendo: lui mi rispose che non voleva quelle donne in chiesa; io gli ribattei che quelle donne avevano il diritto di andare lì a pregare come tutti gli altri, inoltre di ricordarsi, dal momento che era un francescano, che S. Francesco baciava sulle labbra i lebbrosi. Tornai a casa molto arrabbiato e parlai con mia moglie di questa cosa: lei mi ricordò che avevo aiutato un diplomatico del Vaticano, che sta qui a Firenze, che aveva paura di prendere l’aereo e si era rivolto a me. Allora gli telefonai e gli dissi che avevo intenzione di portare le persone religiose dei miei reparti dal Papa. Egli mi disse che prima di decidere, voleva incontrare queste persone per parlare con loro; così decidemmo di andare a pranzo fuori con le mie ex ricoverate. Egli rimase entusiasta e ne parlò in Vaticano. Così ci decidemmo a partecipare ad un incontro con il Papa, ci sedemmo in prima fila e Giovanni Paolo II parlò volentieri sia con le mie ex ricoverate che con me. Infine facemmo delle fotografie che mandai al frate.
C. B.: Come ha reagito la popolazione internata a questa azione di eliminazione della contenzione e della coercizione?
G. A.: All’inizio non capirono bene cosa stesse succedendo e questo era logico perché io stavo portando avanti un cambiamento mai visto prima, inoltre erano molto spaventate. Vivere in un’istituzione psichiatrica significa avere continuamente paura perché gli psichiatri usano terrorizzare continuamente i propri pazienti. In manicomio le persone che ho visto avevano sempre paura: all’inizio la ebbero anche di me, anche se con il tempo riuscii a conquistare la loro fiducia. Appena cominciai il mio lavoro le internate avevano molta paura ed esitavano spesso a farsi slegare. Spesso alcuni individui del personale mi dicevano che certi ricoverati stavano legati perché lo volevano. Io risposi che ormai potevano “volerlo”, mentre per anni interi la loro volontà non era stata neppure considerata. Trovandosi slegati all’improvviso, avevano paura di fare qualcosa per cui avrebbero potuto essere perseguitati, picchiati e legati di nuovo, quindi preferivano stare legati. Tuttavia la situazione andava affrontata. Per esempio, nel reparto 14 (http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/05/15/teresa-b-dentro-fuori-roberta-giacometti/) c’era una donna che non voleva essere slegata, così io non la slegai subito. Ho passato accanto a lei ore e ore. Le dicevo: “Io sono qui perché Lei deve essere liberata. Ci vorrà tempo, dovrà convincersi; Io sono un medico e non un carceriere e non posso ammettere che Lei stia in questa condizione. Però aspetto, perché Lei ha diritto di esprimere quello che sente e le paure che comporta il ritornare ad essere una persona libera”. Via, via, ci siamo messi d’accordo. Lei ha cominciato a camminare nel giardino e le sue condizioni fisiche spaventose sono lentamente guarite quando è passata dalla condizione di donna legata continuamente a quella di una donna libera che può camminare, parlare, vestirsi, uscire, e così via. Il lavoro che io ho fatto contro il manicomio è stato quello di partire dalla “camera di tortura” e di arrivare alla residenza. Questo sempre nel rispetto delle scelte degli internati e delle loro necessità: non ho mai obbligato nessuno ad uscire se non ne aveva voglia o se non se la sentiva. Anche quando si facevano i viaggi, come ho detto prima, in varie città europee come Venezia, Firenze, Milano, Parigi, Vienna, Strasburgo, venivano soltanto quelli che volevano, quelli che l’avevano scelto individualmente. Dall’ambiente in cui non si è nessuno e non si può scegliere niente si è passati all’ambiente in cui si è considerati una persona che può scegliere senza troppe interferenze altrui. Si è trattato di un capovolgimento completo. Le camere delle internate vennero per esempio abbellite a loro piacimento. Alcune persone trovarono invece sistemazioni esterne al manicomio, si trasferirono in appartamenti. Per esempio, c’erano alcune persone che avevano un rapporto affettivo o amoroso tra di loro che, con l’aiuto del Comune, trovarono degli appartamenti e si sistemarono in essi. Altri tornarono dalle famiglie; chi, invece, rimaneva lì non aveva nessuno fuori, ma viveva in manicomio come in una residenza con i propri oggetti, con le proprie abitudini, con il proprio modo di vestire. Ognuno viveva secondo le proprie scelte.

IV Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/28/intervista-a-giorgio-antonucci-antipsichiatria-clarissa-brigidi-iv-parte/

I Parte dell’intervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2008/08/05/intervista-a-giorgio-antonucci-su-lantipsichiatria-tesi-di-laurea-di-clarissa-brigidi-in-filosofia-della-storia/

II Parte dell’inervista http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/28/intervista-a-giorgio-antonucci-antipsichiatria-clarissa-brigidi-iiparte/

Pubblicato il 28 November, 2011
Categoria: Testi

La questione psichiatrica e mass-media – Eugen Galasso



“Tuttora la prospettiva non-anti o a-psichiatrica è, diciamo così, poco frequentata. Confesso di non aver seguito la cosa, ma giorni fa, da ammalato, avevo visto forse la conclusione di un servizio TV (RAI 1, mi pare) in cui l’ottica psichiatrica era pienamente accettata, anzi data per assolutamente scontata, come se non solo il tertium della logica classica, ma anche il secundum non daretur, non esistesse alternativa, insomma. Si condannava la “damnatio”, ossia lo stigma verso il paziente psichiatrico, ma nessun dubbio veniva avanzato sulla liceità epistemologica dell’esistenza della malattia mentale stessa. Non ho visto se non tre minuti scarsi del servizio stesso, ma nonostante febbre e malessere, ho sufficiente dimestichezza con la decifrazione dei messaggi dei mass-media, TV compresa, per dire che il servizio nella sua integralità non sollevava dubbi sul fatto e la sua interpretazione, anzi, per meglio dire, per opinione (già platonicamente distinta dalla verità) si dà per acquisito il fatto della malattia mentale, interpretando e sur-interpretando… Tutto questo come se la rete ammiraglia non avesse mai trasmesso sceneggiati o fictions su Basaglia, non avesse mai proposto dibattiti in merito… Come nelle società totalitarie, cioè in quelle dove Stato e Partito assorbono la società, facendosi tutt’uno con essa, si vuole inculcare nelle menti degli (ignari? Speriamo proprio di no) spettatori una verità unica, à la Hitler-Mussolini-Stalin pensiero, dove il modello inarrivabile, dal punto di vista letterario, rimane “1984” di George Orwell… Non si può sperare che un domani non proprio troppo spostato nel tempo, potenzialmente ad infinitum, ci sia un canale TV pubblico o privato (ma pubblici sono tutti, perché vanno ad extra) che, se proprio vogliamo dire così, “erudisca er pupo” in modo problematico, sollevando il dubbio che la pazzia non esista, magari invitando chi dello smontaggio sistematico del pregiudizio psichiatrico è stato l’alfiere e corifeo, il grande amico Giorgio Antonucci ? Sembra invece, che purtroppo, vada bene il progetto Ulisse del “mitico” (sì, perché Ulisse ha a che fare con il mito fondatore oppure perché il personaggio era stato un esponente del picchettaggio neofascista nell’Anconetano, circa quarant’anni fa) on .Cicciòli- circa due mesi fa un amico di colà m’ha corretto sull’accento, che tendevo ad anticipare ponendolo sulla prima sillaba. La speranza è l’ultima a morire, ma temo che anche a sinistra, ora, magari aggrappandosi alla teoria delle “priorità”, la “questione psichiatrica” venga rinviata sine die o dai marxisti puri e duri, considerata ancora una volta “sovrastrutturale”, il che, in realtà, è una sciocchezza totale, perché, guarda caso a venire penalizzate e costrette al TSO sono sempre persone povere e/o indifese…

Eugen Galasso

Pubblicato il 2 November, 2011
Categoria: Testi

Rosy Bindi favorevole all’elettroshock – Eugen Galasso



Candidata del centro-sinistra (no, scusate, senza  trattino: centrosinistra) pare possa essere Rosy Bindi.   A parte altri tipi di critica (è ipercattolica quanto irrispettosa della dialettica tra le diverse anime del cattolicesimo: un lustro fa circa “distrusse” in TV Rocco Buttiglione, il filosofo ciellino, meglio  credette d’averlo fatto), veniamo al non-politico, che in realtà è più “politico”di tante dichiarazioni fatte e proclamate: la Bindi è favorevole all’elettroshock, come sostenne in un pubblico dibattito con Giorgio Antonucci; la Bindi, sia detto per inciso, che si occupa di politica, diritto, non di medicina… In tempi di controriforma psichiatrica (con tanto di pazienti psichiatrici al guinzaglio-cfr. un articolo relativo alla psichiatria in…Olanda, paese considerato all’avanguardia in tutto, ad iniziare dalla droga “libera” quanto alla cannabis, ossia alle “droghe leggere”) si vuole far votare la Bindi? Speriamo proprio di no: forse la notte (o un periodo di tempo più lungo) porterà consiglio. O invece “coniglio”, come si suol dire con acre humor?

Eugen Galasso

17 febbraio 2011

Pubblicato il 1 November, 2011
Categoria: Testi

Guy de Maupassant “pazzo” – Eugen Galasso



La vita di Guy de Maupassant (1850-1893) si può considerare terribile: cresciuto tra un padre violento e scioccamente libertino (libertinismo non dichiarato, ma imposto alle donne, in particolare alla moglie come regola di vita maschile intangibile) e una madre vittima, un fratello vittima della psichiatria meccanicistica del tempo, lo scrittore descrive le condizioni liminali dell’esistenza (paura estrema, che poi certa psichiatria e psicologia chiameranno fobia,  terrore, angoscia, la deprivazione di ogni pulsione vitale) in alcuni racconti che per comodità chiamiamo “fantastici”, “de l’étrange”, “grotteschi”, senza che alcuna di queste approssimazioni raggiunga in qualche modo l’obiettivo. Nulla a che vedere con Hoffmann, Poe, Stevenson (solo alcuni nomi di autori grosso modo coevi) , dove l'”Altro” è dichiarato come tale:  se in Stevenson  “The strange case of the dr.Jekyll and Mr. Hyde” lo “sdoppiamento di personalità” e comunque attribuito alla ricerca, al filtro-intruglio dello scienziato, quindi causato dall’esterno, dalla “droga”, comunque da un tramite, se in “WIlliam Wilson” di Poe e in Hoffmann vale l’elemento ancora metafisico del “doppio”, del “Doppelgaenger” (in parte, volendo, il duende spagnolo), in Maupassant è interna, la scossa, anzi meglio il dissidio tra l’io-l’altro. A parte il più famoso “L’Horlà”, conviene esaminare “La nuit”(1)(1)cito dalla raccolta “Apparition”, Paris, Gallimard, 2009, pp.89-97, in cui il protagonista-io narrante che dichiara programmaticamente all’inizio “J’aime la nuit avec passion”, ma anche “Le jour me fatigue et m’ennuie”(2)(2) op.cit, p.89 (“Il giorno m’affatica e annoia”), si trova ad attraversare Parigi (?) di notte, dove però la notte sarà più che altro simbolica… Lungi dallo happy end, “La nuit” propone uno scenario terribile, da deprivazione sensoriale atroce, “spaventoso”, con l’assenza di luce, il freddo (il lemma”froid”è ripetuto molte volte, insistentemente), per cui alla fine l’io narrante dice:”Et je sentais bien que je n’aurais plus jamais la force de remonter… et que j’allais mourir là… moi aussi, de faim- de fatigue-et de froid”(3)(3)op.cit., p.97.(“E sentivo chiaramente che non avrei mai più avuto la forza di risalire.. e che sarei morto là…anch’io, di fame, stanchezza, e freddo”). Con il consueto stile, contratto, paratattico, improntato alla brevitas, in una parola modernissimo, Maupassant ci descrive l’emozione più atavica, cioè la paura, portata all’estremo (“fobia”, l’ho detto e lo ripeto, è lemma che serve agli psichiatri per “sorvegliare e punire” o, se volete, per aiutare a farlo), in una condizione liminale, da “altro stato” (uso l’espressione con prudenza, anche perché quando essa viene usata molto frequentemente – Musil – siamo già negli anni Trenta del 1900, quindi comunque parecchio dopo Maupassant e in una “temperie culturale” del tutto diversa, indicando altro, oltre a tutto) quello che danno le febbri e (o) l’eccesso di alcol o, in determinate condizioni, le droghe…   Ho scelto di analizzare questo racconto, perché trascurato dalle analisi più diffuse. Certo, anche “L’endormeuse” (l’addormentatrice”), dà ragione dell’interesse e del “senso” di questo intervento:  in questo  racconto, del 1889, quindi di due anni dopo quello prima analizzato, Maupassant immagine un’organizzazione, segreta ma “ufficiale”, dove si aiutano gli aspiranti suicidi a compiere il loro proposito, se ciò viene richiesto seriamente, con convinzione. Che ciò sia attribuito a una sorta di cauchemar-nightmare-Incubo, non toglie la “gravità” del tema e del suo svolgimento. Una prospettiva che anticipa prese di posizione ulteriori, da quelle di Jean Amery, scrittore tedesco del Novecento, che parlerà di “Freitod”, “libera morte”, come anche le importanti riflessioni di Giorgio Antonucci sul suicidio, ma l’orizzonte storico-critico di Maupassant è rivolto ai romantici, spesso tentati dal suicidio e autori di tentativi di suicidio (Schumann, in particolare) o direttamente suicidi (Nerval). L’atteggiamento di Maupassant è oltremodo rispettoso verso la “tentazione suicidiaria” romantica, pur se l’orizzonte di pensiero e azione romantica è lontanissimo dal suo. Non contemplo qui le riflessioni di Emile Durkheimn (“Essai sur le suicide”), perché lontanissime da quelle maupassantiane ab imo.   Anche il problematismo che è in un racconto come “Magnétisme” (1882) è degno di nota: ovvio che Maupassant si riferisca alle teorie psichiatriche dell’epoca (Charcot, in primis, su cui si forma Freud), ma non le assolutizza mai. Come quando commemora il mistico-rivoluzionario italiano (il “profeta dell’Amiata”) David Lazzaretti, morto ucciso sul Monte Labaro nel 1878, Maupassant non ricorre alle argomentazioni “castranti” cui invece ricorse nello studio dello stesso Lazzaretti,  Cesare Lombroso, che non sapeva far a meno di applicare rigidamente le sue categorie tassonomiche.

Eugen Galasso

Pubblicato il 30 October, 2011
Categoria: Testi

Su Enzo Mazzi – teologia della liberazione – Eugen Galasso


Enzo Mazzi, uomo, “cristiano ribelle”, il parroco “altro” (da non confondere con il quasi omonimo Antonio, onnipresente in TV, dicono), che nel quartiere più povero ed emarginato di Firenze, l'”Isolotto”, di emigrati dal Sud Italia un tempo, oggi, però, da ogni parte del mondo(“extra-comunitari”, con tutte le zeppe razziste che i pregiudizi portano con sé), aveva saputo creare una comunità viva, fuori dai “sacri tempi” e “sacri luoghi” (cito da Walther Kern, teologo cattolico neppure “radicale”) e dai sacri recinti, portando una visione a-clericale nel cristianesimo. Da quando il cardinale Florit lo sospese a divinis (su ciò cfr. anche in Pio Baldelli, “Informazione controinformazione”, Milano, Mazzotta, 1976) si dedicò con intelligenza anche alla teoria, dedicando due preziosi volumi a Giordano Bruno e a Gerolamo Savonarola (entrambi Roma, Manifesto Libri), intervenendo con intelligenza su tante questioni spinose del nostro tempo, dalle questioni di bioetica e biopolitica a quelle del carattere storicamente condizionato dei Vangeli. Vero grande Fiorentino (partecipe totale alla vita della città) non sempre ricambiato, ci ricordava sempre che la città internazionale che vive di turismo ha in sé dolore, miseria, sofferenza, lo voglio però ricordare, per il sito del “Centro”, soprattutto come vero partecipante “empatico”, qualcosa che molti noi, che svolgono professioni d’aiuto, dovremmo imparare sempre (parlo per me, che spesso forse empatico non lo sono abbastanza, ma “freddo”, come una volta m’ha detto una coreografa messicana, ma in contesto extra-lavorativo). Un’empatia, la sua, cioè la capacità di entrare veramente in contatto con l’altro, senza interferire, senza arrivare a piangere con lui/lei.  Nel 1988 l’avevo conosciuto e frequentato, con grande profitto, devo dire, non parlo quindi “per sentito dire” o per mero studio e “sapienza appresa”. Una politicità la sua, come quella di tutta la teologia della liberazione, mai assemblata a un partito o irreggimentato nello stesso.  Oggi, sulle sue orme, don Santoro e speriamo che… la posizione del cardinale Piovanelli, rispetto a quella del Florit di cui narrano cronache e storie (si veda anche nel citato libro di BaldellI) sembra relativamente aperta, ma “mai fidarsi di un prete” come, credo nel 1968, disse a Giorgio Antonucci in Sicilia, quando erano entrambi impegnati nel volontariato dopo un terremoto. Enzo aveva involontariamente schiacciato gli occhiali di Giorgio, come il nostro carissimo mi raccontava. Ma ora vorrei che proseguisse il mio caro amico…

Eugen Galasso

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Giorgio Antonucci

Castelvetrano di Sicilia nel Gennaio del 1968.

Una giovane madre, con il bambino appena nato, voleva sapere se era meglio dormire in casa con il pericolo del crollo per terremoto o fuori della casa con il pericolo del freddo.
In tali circostanze ho conosciuto Don Enzo Mazzi che veniva col “Servizio Civile di Firenze” con me e
con altri volontari tra cui Alberto L’Abate pacifista.

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Giorgio ricorda, con esattezza, l’evento e la circostanza, dove ricorda anche Alberto L’Abate, sensibile nonviolento e teorico della nonviolenza, dove la nonviolenza è anche pratica importante di accettazione dell’altro, non giudicandolo, non”dannandolo”, anche quando qualcosa di lei/lui può disturbarci, molestarci, risultarci poco piacevole.  Ciò che anch’io, modestamente, come reflector, cerco di fare o almeno ci provo.  
Eugen Galasso

Pubblicato il 25 October, 2011
Categoria: Testi

Riflessioni sulla manifestazione degli “Indignati”, Roma 15-10-2011



Ascanio Celestini sulla manifestazione e sui Black Bloc?

http://www.youtube.com/watch?v=1cjrnuz4FAE&feature=player_embedded

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http://www.go-bari.it/notizie/cronaca/4481-ecco-come-e-andata-a-piazza-san-giovanni.html

domenica, 16 ottobre 2011 ore 13:44

Ecco come è andata a Piazza San Giovanni

La testimonianza di Leo Palmisano, sociologo e scrittore barese

Per me e per tanti come me, Piazza San Giovanni rappresenterà molto di più di Genova. Noi non eravamo lì per incendiare Suv e Bmw, né per lanciare bottiglie e petardi contro le forze dell’ordine, ma per dire chiaro e tondo che non ce la facciamo più. Per questo la nostra indignazione è salita quando la Polizia e la Guardia di Finanza, con tre camionette e due idranti, hanno cominciato a bersagliarci e ad aizzarci con stupidi caroselli e pericolose serpentine, accelerando la corsa tra la gente costringendoci ad arretrare e ad avanzare, ma soprattutto a difenderci da quell’umiliante gioco da piccoli criminali di borgata che loro, e non noi, hanno inscenato all’ingresso della piazza.
Cinque cariche iniziate in via Cavour hanno spezzato un corteo di almeno duecentomila Indignati lasciando fuori della piazza i tre quarti del pacifico serpentone. Evidentemente si era pianificato in alto lo sgombero di un luogo che avremmo riempito più di qualunque altra manifestazione recente della sinistra italiana. Noi eravamo davvero tanti a screditare il moribondo Berlusconi e questo il mondo non doveva saperlo. Allora ecco che arrivano alla carica le camionette, con ridicoli girotondi e gli idranti che bersagliano chiunque, perfino la spianata, il prato della basilica, noncuranti di chi – come un uomo in carrozzella – era lì per aderire all’indignazione che coinvolge l’intero mondo occidentale.
Siamo stati costretti a bendarci, a coprirci come guerriglieri perché i loro lacrimogeni, lanciati a grappolo o ad altezza d’uomo – chi scrive porta i segni di un colpo all’addome ricevuto per aver schermato un diversamente abile – ci hanno impedito di respirare, di parlarci, di dirci quanto fosse folle e diabolico quello che loro ci stavano facendo. Per cinque volte nel fango, per cinque volte poi abbiamo ripreso la piazza. Abbiamo applaudito a noi stessi, e non a loro, perché nessuna organizzazione sindacale e nessun partito è venuto in nostro soccorso.
Abbiamo applaudito perché era evidente l’intenzione delle forze dell’ordine di cercare il ferito, se non il morto, per screditare centinaia di migliaia di brave persone che erano lì indignate dalla destra e dalla sinistra, da tutte quelle organizzazioni di parolai e buffoncelli. Ci si guardava stupiti, ieri pomeriggio, la basilica alle spalle, perché stretti in un imbuto dal quale non saremmo usciti se non salvati in extremis dall’apertura della cancellata della pontificia università lateranense. I giornali non riportano la solidarietà di preti, monache, frati che ci hanno versato acqua sugli occhi, ci hanno dato limoni per aspergerci i bulbi arrossati dai lacrimogeni e dalle lacrime della rabbia. Ricorderò per sempre la voce rassicurante di una monaca che mi ha detto con accento straniero ‘è tutto finito’. E invece non era finito niente, perché Maroni è riuscito a svuotare la piazza dove erano ancora asserragliati molti, troppi indignati.

Come giustificare un assalto a ventimila giovani manifestanti senza bandiera di partito o di sindacato? Tutti black blok? A differenza di Genova, ieri in piazza c’eravamo soltanto noi che non abbiamo più certezze: giovani giornalisti, ricercatori, laureati, diplomati, insegnanti, operai, studenti, disoccupati, pacifisti. Intellettuali e braccia forti. Cervelli e cuori che non cercano mai la morte ma sempre la vita. Il futuro del paese, il bel paese era lì sotto la grandine dei lacrimogeni di Berlusconi, rispondendo con una gragnola di sassi e bottiglie perché almeno la vita, quella, non ce la siamo fatta sgomberare.

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Preciso che, quanto alla questione di Roma (15.10.2011), con l’irruzione dei black bloc, sono comunque contrario all’uso della violenza, che, sic stantibus rebus, è sempre un regalo ai poteri costituiti, che se ne servono per ritorcere contro i governati quanto questi avrebbero fatto.   Il terrorismo di stato, ci insegna Laurent Dispot, è forte e attivo sempre, non aspetta altro che queste “provocazioni”. Sono tuttavia, ancora una volta,  d’accordo con Giorgio Antonucci, quando dice: “I conformisti chiamano violenza ogni protesta e non dicono nulla contro i bombardamenti”. Scontri di piazza, anche violenti, rivolte etc., nascono comunque da indignazione (al di là della sigla “indignados” o altro), mentre dei black-bloc, dei quali  non sappiamo neppure chi siano: “sia persone di estrema sinistra, sia di estrema destra, sia provocatori da curva sud degli stadi”, spiegava un esperto giorni fa, poco dopo gli scontri-ora, anche a destra ci sono teste pensanti, dei provocatori da stadio è lecito diffidare, ma forse anche in loro c’è qualche scontento, però, che magari si focalizza, a mio parere scioccamente (ma è un parere, non un giudizio a priori) sul calcio, quando invece potrebbe concentrarsi su altro, su cose più importanti o considerate tali, anche da chi scrive.  Più realisticamente, c’è una situazione di povertà, di esclusione sociale, di miseria, che crea disagio o sofferenza, che talora portano (e qui ribadisco un giudizio negativo) ad atti violenti, che però sono molto meno “violenti” di quanto non lo siano le guerre, come ancora una volta rileva Giorgio Antonucci. In definitiva, una vetrina (pur se ribadisco che sono favorevole alla punizione di chi compie atti simili) si ripara, magari (anzi no, quasi sempre) il negoziante è assicurato, in caso  di sua distruzione, di danno, di effrazione e quant’altro, la vita umana, in specie se sacrificata scioccamente per obbedire a Nazione, Patria, Stato o come accidenti si chiami.  Il simbolo religioso, poi: una madonnina molto “kitsch”, senza neppure raggiungere il livello paradossale del kitsch conclamato, quello teorizzato da Gillo Dorfles, per es., per non dire del fatto che è tale solo per qualcuno (ci sono cattolici oltremodo scettici rispetto alla mariologia, per es.).

Eugen Galasso

Pubblicato il 25 October, 2011
Categoria: Testi

Paul Féval – Eugen Galasso



Come sempre, le sciocchezze a proposito di “follia” non mancano mai, anzi. A fianco di chi cerca, legittimamente, di delegittimare il pregiudizio per cui si vuole che la malattia mentale esista, c’è chi invece rimane ancora all’ “old shit” (vecchia cacca, l’espressione è di Marx). Così per esempio il direttore del TG 4 Emilio Fede, il giorno 27.06.20111, quando ha intravisto il solito disturbatore dei TG (non ricordo il nome, ma non ha molta importanza) dietro la giornalista che riferiva sulla manovra economica, allora in fieri, ha inveito, lui in genere “controllato”, sbraitando e sostenendo che “I matti vanno in manicomio!”.  A parte che non vogliamo “matti”, creazione socio-culturale, rimane il fatto che i manicomi, caro Fede, almeno teoricamente non ci sono più e in pratica vogliamo levarli tutti.  Ma anche a livello “alto”, commentando il romanzo dell’Ottocento “La ville-vampire” (La citta-vampiro) di Paul Féval, Ornella Volta e Valerio Riva, scrivono che”invecchiando, Paul Féval provò l’inopinato bisogno di una conversione religiosa e si mise in testa di levare dalle sue opere ogni dettaglio che avrebbe contraddetto  il suo nuovo fervore spirituale. L’impresa, come anche, contemporaneamente, alcuni infortuni  finanziari, lo condussero alla follia” (“Histoires des Vampires”, Paris, R. Laffont, 1961, p.310). Non voglio entrare in polemica con i curatori, di cui Valerio Riva è scomparso nel 2004, come apprendo da internet, ma sottolineare il fatto che  parlare di “follia” per un comportamento e atteggiamento diverso , “inopinato”, appare assurdo. Legittimo parlare  criticamente di “conversione”, anche se poi su ciò si hanno molte polemiche: la conversione porta alla “follia”? Il non credente Jung credeva il contrario, per fare solo un esempio, ma poi, che cosa s’intende per “follia”?  Qualcosa di diverso, di “inopinato”? Allora è l’irruzione del “Perturbante” e quindi dovremmo salutare ciò che si definisce come tale, che ci toglie dal consueto, dall’ovvio. Quanto poi alla volontà degli scrittori, grandi e minori, di cambiare le proprie opere quando arrivano alla fine o quasi, ciò è mal comune: almeno da Virgilio in poi, di cui si dice che volesse bruciare le proprie opere a Kafka, che voleva distruggerle (le salvò l’amico e curatore delle opere, Max Brod, come lui Ebreo e Cèco), qualcosa di simile si sviluppa, in letteratura e non solo. Una “metànoia” (non solo=”conversione”, ma anche “mutamento radicale di atteggiamento”, che può sconcertare chi, in modo almeno “dozzinale”, scomoda “follia” et similia.   Del resto, senza voler entrare troppo in merito, il romanzo di Féval è, se non un capolavoro (direi decisamente di no), un’opera di  grande intelligenza, che satireggia il genere “vampiresco”-fantastico (di mira è la scrittrice Ann Radcliffe, di cui si citano “I Misteri di Rudolpho”, ma si arriva anche a metterla in scena…), de-costruendolo e ri-costruendolo… Gioco a scatole cinesi, fantasie molto francese , con tante variazioni sul tema… Opera d’intelligenza, non certo di f…(follia?… “Dettagliare, prego!”, vien da dire). I Francesi che si burlano dello scomodo vicino/rivale inglese: da Jeanne d’Arc in poi, anzi da quando i Normanni non riuscirono a imporre il francese come lingua nazionale in Great Britain. Tutto nei clichés e nei parametri, come anche l’opposizione Inglesi/Irlandesi (che purtroppo nel tempo ha fatto scorrere tanto sangue), come altro ancora, le divagazioni su Italia, Olandesi etc.    Un libro, eventualmente, da rileggere, dunque, non da buttare e stigmatizzare; che poi Féval si sia “stufato” di un genere, che abbia voluto canalizzarsi su altro, va bene, ma…  

Eugen Galasso

Pubblicato il 24 October, 2011
Categoria: Testi

“Sono un ribelle, mamma!”(Freak/Roberto Antoni/Skiantos) – Quadafi “Gheddafi” – Eugen Galasso



 
Quando sento e vedo sciocchezze brutali e brutalità idiote come quelle del presunto assassino(ma dell’assassinio) di Quadafi (forma più corretta di traslitterazione della fin troppo invalsa Gheddafi), la reazione è dura, durissima. Ri-auspico Jean Genet e L.F.Céline, che non sono politicamente corretti, al caso (?) piacendo. Sia stato uno sciocco ragazzotto (quasi a dar ragione a Quadafi, quando parlava di “ratti”) oppure la NATO, mandante con qualche sicario prezzolato(lo stesso ragazzotto? Forse, forse no), il fatto è vomitevole, a dimostrazione ancora una volta di un declino dell’Occidente e delle sue false democrazie (borghesi? Sì, ma non hanno la dignità neppure di essere ciò). E’ che Quadafi, tra luci (sì, anche quelle) e ombre (certo non poche) getta ombra sulle pseudodemocrazie, sui loro inganni, sul loro vergognoso culto del’ “Occidente cristiano”, dove il cristianesimo= cattolicesimo del’ inquisizione, quello che Ratzinger (io dico Natzinger) restaurerebbe subito, se potesse… mentre l’Occidente, concetto anche geograficamente decisamente vago, è quello di Novalis (ahi noi Novalis-Friedrich von Hardenberg, che cavolata hai inventato, tu uno dei pochissimi romantici tedeschi a credere alla Madonna, perché ti ricordava la tua amata! Non è, comunque, colpa tua, se dopo hanno creato questi aborti…). L’Occidente cristiano è quello di Francisco Franco y Bahamonde, di Augusto Pinochet, di Viola e Videla, dei colonnelli greci (troppo orientali? No, non in quel caso), sempre che questo mito infausto esista; ma esiste, rinascendo dalle ceneri quale Araba Fenice. Nella nuova Libya ci saranno più fanatici islamici, meno tirannelli con tanto colore, come Muàmnar Abu Al Quadafi. E, per scandalizzare ancora di più (mai stato politically correct, né mai vorrei esserlo) dirò che per me, in quel tipo di realtà, Libya, divisa non solo tra Cirenaica e Tripolitania, ma tra Arabi, Beduini (lo era anche il Colonnello), Quadafi non era un vero “dittatore”, anche perché di democrazia non credo si avverta molto il bisogno, in una realtà quale quella… Il pastore/uomo del deserto Quadafi, spiegavano alcuni antropologi culturali, tra cui il compianto Gavino Musio, era il contrario del contadino: lui sfidava natura e uomini, il contadino invece aspetta il bene della Natura, magari delle Provvidenza… Due modelli socio-culturali diversi, anzi meglio: opposti.  A chi cantava le “magnifiche sorti e progressive” ho sempre replicato, con cortese maleducazione (ossimoro schizo? Forse, va bene così) che forse si sarebbe attuato il detto: “Pèso el tacòn che l’buso” (Peggio la toppa del buco). E, se l’albero si vede dai frutti (Vangeli, non encicliche papali-papiste) iniziamo proprio molto male… Se qualcuno mi dà del “pazzo”, per questo testo, mi va benissimo.   
 
Eugen Galasso

Pubblicato il 21 October, 2011
Categoria: Testi

Centro di Relazioni Umane (Bologna) — Maria Rosaria d’Oronzo